sabato 23 febbraio 2013

La trasfigurazione di Gesù


Commento al Vangelo: II Domenica di Quaresima 2013 (Lc 9,28-36)

La trasfigurazione di Gesù Cristo
        Le lotte contro Gesù aumentavano sempre, di giorno in giorno, poiché i sacerdoti, gli scribi e i farisei, non ammettendo in Lui una missione divina, credevano insopportabile che Egli insegnasse e facesse proseliti. Queste lotte, prima latenti, cominciarono a diventare più manifeste e sfacciate, scrollando anche la fede degli apostoli, già abbastanza fiacca. Era necessario perciò, per la gloria stessa di Dio, mostrare almeno un raggio di quella divina Maestà che tutto avvolgeva il Signore e che dovrà, un giorno, risplendere della sua santissima Umanità innanzi a tutte le genti.
        Con la divina sobrietà che distingue tutto ciò che viene da Dio, Gesù credé opportuno mostrarsi innanzi a tre testimoni soltanto della terra, e a due testimoni del cielo: Pietro, Giacomo e Giovanni in rappresentanza degli uomini, Mosè ed Elia, in rappresentanza di quanti avevano sospirato alla redenzione nell’Antico Patto. La Legge diceva, infatti, che sulla bocca di due o tre testimoni stava la verità.
        Se Gesù si fosse svelato innanzi a tutti gli apostoli, si sarebbe determinato un movimento di entusiasmo che Egli voleva evitare, e i nemici ne avrebbero preso pretesto per intensificare la lotta. D’altra parte, se i tre testimoni prescelti capirono poco della grandiosa manifestazione, la massa ne avrebbe capito ancor meno, e nell’entusiasmo del momento avrebbe reso vano l’altissimo scopo per il quale Gesù Cristo si svelava.
        San Pietro voleva stabilirsi sul monte e farvi tre tabernacoli, gli apostoli e i discepoli sarebbero andati più in là e avrebbero provocato un movimento capace d’intralciare tutto il piano di Dio. Gesù, poi, agiva per la Chiesa, principalmente per la Chiesa, e voleva lasciare nella Chiesa una testimonianza della sua divina gloria, affinché nei secoli futuri si fosse meglio capito che se Egli era veramente uomo, era anche veramente Dio. Bastavano perciò tre testimoni capaci, un giorno, di riflettere sulla grande manifestazione, intenderne il significato, e trasmetterne la testimonianza alla Chiesa.
        Gesù prese dunque con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, e salì sopra un monte per pregare. Dato che Egli pregava quasi sempre di notte, deve supporsi che era già calata la sera quando vi s’incamminò con i suoi. È chiaro anche dal fatto che gli apostoli furono aggravati dal sonno: dopo una giornata di movimentata attività, nella calma solitudine del monte, per la stessa umidità dell’ambiente, si capisce che poterono essere presi dal sonno. Essi, però, essendo andati con Gesù per pregare, si sforzavano di tenersi desti, come può ricavarsi dal testo greco, il quale dice che stavano svegli malgrado il sonno e poterono accorgersi della grandiosa scena che si svolse sul monte.
        Gesù pregava, e la sua trasfigurazione ci fa intendere che cosa doveva essere la sua preghiera.
        Acceso d’infinito amore dinanzi al Padre, tutto rapito dalla sua gloria, Egli splendeva nel volto di luce divina, e la luce intensissima rese bianco tutto il suo vestito. Era la più sublime delle estasi, era il Verbo che glorificava il Padre e fruiva del Padre in un amore infinito, traendo l’umanità assunta nello splendore della sua gloria e nel profumo del suo amore; era il Verbo che erompeva, per così dire, dall’umanità assunta e la rendeva come diafana alla sua luce, attraversandola tutta e illuminandola.
        Lo spettacolo era sublime, immenso, grandiosissimo, e in Gesù si vedeva il vero Dio, come nel suo ordinario nascondimento si scorgeva il vero uomo. Il Verbo glorificava il Padre, conoscendolo e apprezzandolo, e l’umanità assunta splendeva in Lui e per Lui come una fiamma di olocausto. Era un’anticipata riparazione allo scempio che si sarebbe fatto del Corpo divino, ed era una manifestazione del modo come la redenzione avrebbe restaurato l’uomo, incorporandolo al Cristo e facendolo rifulgere della sua luce.
        Pregava Gesù, in quello splendore arcano e, come la sua preghiera superava la povera atmosfera della terra, così quello splendore divino doveva giungere fin nell’immensità del firmamento e oltre; quei raggi non poterono disperdersi nella bruna massa di aria, ma l’oltrepassarono; brillavano più di quelli degli astri, e dovettero far apparire nel firmamento il Corpo di Gesù come una rutilante stella di primissima grandezza. Se nelle stelle ci fossero stati abitanti, avrebbero visto certamente lontano lontano uno splendore nuovo, più grande di qualunque splendore, poiché il fulgore della divinità in quel momento, penetrava tutto l’universo, essendosi essa degnata di venire in terra per restaurare tutto.
        Pregava Gesù, e lo splendore della sua Anima e del suo Corpo era proporzionato all’umiliazione che doveva subire nella Passione. Era, infatti, conforme alla divina gloria che l’Uomo-Dio fosse immolato, ma era anche esigenza di quella gloria che Egli fosse riconosciuto per quello che era. Voleva essere sopraffatto per amore, ma non doveva in nessun modo apparire come uno travolto quasi casualmente dalla tempesta dell’empietà, e per questo Mosè ed Elia vennero come testimoni del disegno di Dio, annunciato dalla Legge e dai Profeti e ne discorsero con Lui.
        È mirabile quest’economia di giustizia e di ordine da parte di Dio, in un avvenimento che doveva sfigurare il Verbo Incarnato come un reietto, un maledetto, un verme sul legno della croce. Mosè ed Elia confermavano che quello che gli avrebbero fatto gli uomini era stato già preannunciato come un piano d’amore, e che Dio l’avrebbe permesso proprio Lui per infinita degnazione e misericordia. Questa solenne affermazione era, dunque, un’esigenza della divina gloria.
        Pregava Gesù, discorrendo con Mosè ed Elia della sua dipartita, era come un cantico sublime che si elevava a Dio Uno e Trino, come un salmo grandioso che si snodava in un parallelismo luminosissimo, poiché Mosè ed Elia esaltavano Dio per le sue promesse, e Gesù lo esaltava, accettandone in sé il compimento, e mostrandone la perfetta armonia nella sua vita. I due Testamenti erano vicini, l’ombra diventava luce di realtà e la realtà illuminava la verità dei simboli e delle figure; passava in questo cantico ammirabile tutta l’antica storia come un’armonia lontana e rispondeva nell’Uomo-Dio come una trionfante melodia d’amore. Era necessario per la gloria di Dio, poiché gli uomini avevano tante volte sfigurato il disegno divino, e non avevano ancora compreso soprattutto il disegno della croce.
        Questo cantico nuovo, ammirabile, sublime che armonizzava l’ombra con la realtà, diventava così una preghiera riparatrice per quello che gli uomini avrebbero fatto al Signore, senza la quale avrebbero meritato mille volte di più la sorte di Uz nel porre le mani sul Redentore, arca di Dio, e sarebbero stati inghiottiti dalla terra.
        Oh, se si fosse raccolto quel cantico nuovo d’amore! Ma ne ha raccolto la Chiesa santa l’eco sublime, e tutta la sua mirabile liturgia è un continuo osannante raffronto tra l’Antico e il Nuovo Testamento, un salmo grandioso, nel quale, alle voci della Legge e dei Profeti, risponde in perfetto parallelismo la voce della realtà, nelle misericordie della redenzione e negli splendori della santificazione delle anime.
        Parlando Gesù della sua morte e pregando con Mosè ed Elia rivolse certamente il suo Cuore anche agli uomini, perché essi erano l’oggetto del suo misericordioso amore. Per essi voleva morire e, morendo, voleva incorporarli a sé, per renderli lode vivente di Dio; ad essi voleva cedere i suoi meriti, arricchendoli, e lo splendore della sua misericordia li avvolgeva; ma essi dormivano, e gli stessi tre apostoli, privilegiati spettatori di tanta scena, erano aggravati dal sonno e stentavano a stare desti, nonostante che quell’immenso fulgore li avesse scossi. L’anima loro, evidentemente, non era compresa di quello che avveniva, pur vedendo fisicamente la scena; avvertirono solo una pace e un contento interno che li rendeva beati, ma non capivano la natura di quella gioia e di quella consolazione interna.
        Pietro più degli altri era come fuori di sé e, non andando col pensiero oltre la terra, pensò che era bene fermarsi là, ed erigervi tre tende: una per Gesù, una per Mosè e una per Elia. Parlava come può discorrere uno che è tra veglia e sonno; non aveva chiaro né l’intelletto né la coscienza, e non sapeva quello che dicesse. Parlò con un linguaggio di trasognato, e Gesù non gli rispose neppure, perché quella parola, poveramente umana, non poteva ascendere fino a Lui. Era immagine viva di quelle preghiere suggerite dalla carne e dal sangue che non superano la povera atmosfera terrena e non giungono a Dio.
        La grande luce non aveva ancora destato interamente gli apostoli, e Pietro parlò da insipiente; ma quando videro una nube che avvolgeva Gesù, Mosè ed Elia, forse per il contrasto medesimo, improvviso, fra l’intensa luce e l’ombra della nube, si svegliarono interamente, e li assalì un grande timore, perché in quella nube appariva il Padre per additare solennemente il suo Figlio come maestro dell’umanità. Da essa, infatti, uscì una voce solenne che disse: Questi è il mio Figlio diletto, ascoltatelo.
        Quella voce non era terrena: era solenne, grandiosa, potente, e incuteva un riverenziale terrore, come la voce del Sinai.
        Il Tabor era veramente il Sinai della nuova alleanza, dal quale s’era rivelato il Figlio, come il cenacolo fu il monte dove si rivelò lo Spirito Santo. Sul Tabor la nube rappresentò anche lo Spirito Santo che unisce il Padre al Figlio e il Figlio al Padre nell’infinito Amore, ma nel cenacolo la sua manifestazione fu singolare, come lo fu quella del Figlio sul Tabor e quella del Padre sul Sinai.
         Il mistero che si compiva, dunque, in quella notte era veramente grandioso e i tre apostoli ebbero ragione di sgomentarsene. Non era ancora però il momento di svelarlo, e Gesù – come dice san Matteo (17,9) –, ingiunse loro di non parlarne ad alcuno finché Egli non fosse risorto da morte. Essi, infatti, tacquero, benché avessero dovuto essere straordinariamente commossi.
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 16 febbraio 2013

Il mistero delle tentazioni di Gesù


Commento al Vangelo: I domenica di Quaresima 2013 (Lc 1,13)

Il mistero delle tentazioni di Gesù
        
La prima tentazione
        Gesù Cristo andò nel deserto, obbedendo alla volontà del Padre, digiunò per immolarsi, e digiunò completamente per quaranta giorni, perché questa era l’obbedienza che aveva avuta dallo Spirito Santo. Dopo questi giorni di vita spirituale intensissima ebbe fame; questo ci fa supporre o che prima non abbia sentito la fame, o che dopo l’abbia sentita imperiosamente. Era vero uomo, ed era naturale che la sua vita corporale reclamasse i suoi diritti.
        Satana stava in agguato, e colse questo momento di debolezza fisica per tentarlo. Egli fa sempre così: sfrutta le deficienze della vita corporale o le sue stesse esuberanze che sono miserie, per trarre l’anima al male o per asservirla al corpo da schiava e da prigioniera.
        Gesù Cristo aveva un ordine perfettissimo in tutte le sue potenze e in tutto il suo santissimo Corpo, di modo che era impossibile tentarlo disordinandogli gli umori; è certissimo. Satana approfitto della debolezza del corpo conseguente al digiuno, e tentò di attrarre le sue potenze spirituali in una sfera inferiore. Additandogli una delle pietre che abbondavano nell’arido deserto, gli disse: Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane. Si può anche supporre che satana abbia prima additato a Gesù le pietre per spingerlo a mutarle in pane, e poi gliene abbia presentata una perché avesse fatto il miracolo determinatamente su di essa. Così si capisce perché san Matteo parla di pietre (4,3), e san Luca di una pietra.

«Non di solo pane vive l’uomo»
        A primo aspetto non si vede che male ci sarebbe stato a mutare con un miracolo la pietra in pane, dato che Gesù era onnipotente. Ma la tentazione era sottilissima e degna della perversità diabolica. Satana, infatti, tenta di sostituirsi a Dio; è stata questa l’origine della sua rovina, fu questa l’origine della tentazione fatta ai nostri progenitori, ed è questa la ragione della tentazione fatta a Gesù. Gesù Cristo, infatti, affermò ripetutamente che Egli compiva le opere che gli aveva affidate il Padre suo, e satana avrebbe voluto che ne avesse compiuta una dietro il suo suggerimento; Gesù Cristo affermò che voleva solo glorificare il Padre, e satana voleva che avesse operato per proprio tornaconto, glorificando se stesso; Gesù Cristo aveva digiunato per allargare la sua attività sulle anime, e satana voleva, invece, restringerla ad un’esigenza puramente corporale. Voleva distruggere d’un tratto l’effetto stesso del digiuno, e concentrarlo tutto nella vita corporale.
        È, in fondo, quello che fa cento volte con la maggior parte dei cristiani nelle grandi solennità dello spirito, mutando la festa in un’orgia o in una preoccupazione corporale.
        Per questo Gesù rispose profondissimamente: Sta scritto: Non di solo pane vive l’uomo ma di ogni Parola di Dio. Dalla risposta si arguisce quale sia stata la vita di Gesù nel deserto: lo Spirito Santo gli fece da maestro e lo concentrò, in quanto uomo, nelle Sacre Scritture. Egli doveva insegnare la verità e si trattenne nella meditazione della Parola di Dio; se ne cibò per nutrirne gli altri, ed ebbe fame di propagarla. La fame che avvertiva nel corpo manifestava la fame che aveva di diffondere la divina Parola, come la sete che soffrì sulla croce esprimeva la sete che aveva delle anime. Ogni atto della sua vita materiale rivelava la sua mirabile vita spirituale, perché Egli, come Dio e come uomo, era glorificazione del Padre. Satana, dunque, errava pensando che avesse fame solo di pane, mentre Egli anelava alla divina gloria. La risposta di Gesù lo inchiodava, e sventava nei secoli le insidie che avrebbe tese agli uomini, concentrandoli nella ricerca dei beni materiali della vita fisica.

Ma di ogni Parola di Dio…
        Tutta la vita umana, infatti, sta sempre sotto il fascino di questa tentazione: mutare la pietra in pane. Si lavora, si stenta, si fanno, per così dire, miracoli di meccanica e di chimica, per cavare il pane dalla pietra, cioè dall’oro e dalle ricchezze che si accumulano per rendere sicura la vita corporale. Le lotte individuali, sociali e nazionali si riducono a questo: assicurarsi il pane, e si giunge ad ogni degradante ingiustizia pur di assicurarselo.
        L’apostasia spaventosa della rivoluzione francese e quella più orrida della rivoluzione russa, le lusinghe fatte ai popoli dai mestatori sociali e quelle fatte dai dominatori avidi di gloria, hanno come base questa tentazione: mutare le pietre in pane, identificare la vita col cibo e con tutto quello che è collegato col proprio mantenimento.
        Gesù Cristo riconduce la vita al giusto equilibrio tra l’anima e il corpo, e proclama altamente che l’uomo non vive solo di pane, ma si nutre anche di ogni Parola di Dio. Dicendo che il nutrimento spirituale è la Parola di Dio, allude chiaramente a sé, Verbo eterno di Dio e, nella sua chiara visione di tutto il futuro, vede il pane che Egli darà all’uomo, transustanziato nel suo Corpo, vero Cibo dell’anima, come il pane materiale è cibo del corpo.
        Satana voleva fargli mutare la pietra in pane, e Gesù, spinto non da lui ma dall’amore, muterà il pane nel suo Corpo divino, per mutare la pietra del cuore umano in amore. La divina risposta di Gesù è sintetica, ammirabile, e con un lampo solo di sapienza confonde le aberrazioni degli uomini, smaschera le insinuazioni di satana e annuncia velatamente quel mistero d’amore infinito che doveva mutare l’esilio nel vestibolo dell’eterna fruizione di Dio.
        Quale ingratitudine è quella dell’uomo nel concentrare la propria vita tutta nel pane, dimenticando il tesoro eucaristico! Il pane è la sintetica espressione della vita materiale, l’Eucaristia è il Cibo della vita dell’anima; il pane del corpo, senza quello dell’anima, riduce l’uomo come una bestia, e lo preoccupa solo della vita che passa, mentre egli peregrina nel mondo per conseguire la vita immortale. È una pena immensa constatare che gli uomini non parlano che di affari materiali, vederli affannati nel guadagno, e completamente o quasi dimentichi dell’anima!

La seconda e la terza tentazione di satana
        La risposta di Gesù Cristo confuse satana ma non lo disarmò, perché lo spirito perverso è tenace nelle sue tentazioni. Si può dire che l’ostinazione sia proprio il carattere di satana, eternamente irremovibile nella sua malizia ed eternamente concentrato nel suo menzognero giudizio, anche di fronte all’evidenza del suo torto.
        Satana non si dà mai per vinto: tenta sempre una rivincita, cerca sempre un ripiego per persuadersi e persuadere di avere ragione. Questo suo spirito di ostinata illogicità di fronte all’evidenza cerca di comunicarlo agli uomini, e per questo non c’è segno più chiaro della falsità di uno spirito o di un atteggiamento spirituale, quanto l’ostinazione nel proprio giudizio, la ribellione e la disobbedienza. L’anima che non sente consigli che persiste nelle sue idee che si ostina nei suoi apprezzamenti che vede se stessa tutta luce di ragione e di logica, e gli altri o, peggio, chi le parla in nome di Dio, tutti tenebre d’illogicità e d’incomprensione, è un’anima che sta certamente su falso cammino che certamente è tentata da satana, e corre serio pericolo di perdizione eterna se non rinnega interamente e completamente se stessa.
        Il diavolo, dunque, ritornò all’assalto e, poiché si accorse che non poteva vincere Gesù nell’appetito sensibile, cercò di vincerlo in quello spirituale, concentrandolo nel desiderio della gloria e del dominio. È questa l’essenza delle altre due tentazioni che gli fece. Nel racconto di san Matteo e in quello di san Luca queste due tentazioni sono riportate con ordine diverso; san Matteo pone prima quella del pinnacolo del tempio, san Luca prima quella subita sull’alto monte, ma la differenza è accidentale, poiché tutte e due le tentazioni cercavano di vincere Gesù, trascinandolo nella cupidigia della gloria e del dominio.
        Dio lasciò liberi gli evangelisti di raccontare i fatti come meglio credevano per lo scopo che si prefiggevano, pur facendolo sotto la divina ispirazione.
        Essi attinsero le notizie da diverse fonti naturali, e Dio permise qualche leggera differenza nei loro racconti, per lasciarci l’argomento irrefutabile della loro storicità. Se essi, infatti, avessero creato fantasticamente il racconto, e se si fossero concertati insieme, si sarebbero messi d’accordo. Le differenze, benché solo accidentali, dimostrano che ciascun Vangelo è una fonte storica d’inestimabile valore, e che ciascun evangelista ha scritto indipendentemente dagli altri, riportando i fatti o come testimone oculare, o come assertore di testimonianze oculari raccolte.
        Confrontando, però, il racconto di san Matteo e quello di san Luca, può trovarsi la giustificazione dell’accidentale diversità; san Luca, infatti, confessando di aver raccolto diligentemente le testimonianze dei fatti che racconta, ha dovuto essere più preciso e particolareggiato nelle loro circostanze, e può riguardarsi, per dir così, come più minuto. Si può supporre che satana abbia tentato due volte Gesù di adorarlo: una prima volta dopo la tentazione di mutare la pietra in pane, e una seconda volta dopo la tentazione di precipitarsi giù dal pinnacolo del tempio. Di questa seconda tentazione san Luca non parla, perché era identica alla prima, ma può dirsi che lo lascia supporre, quando dice che il demonio, dopo la terza tentazione, partì da Lui per ritornare in un altro tempo.
        Dunque, ritornò all’assalto e vi dovette ritornare col disegno che più gli premeva: sostituire al regno di Dio il proprio regno, asservendovi il Verbo Incarnato.
        Questa seconda volta, satana fu più tracotante della prima, e per questo san Matteo, riportando questa tentazione, dice che Gesù Cristo cacciò satana, mentre san Luca che riporta il primo tentativo del diavolo, non dice che Gesù lo cacciò, perché, in realtà, la prima volta, Gesù lo confuse soltanto. Questa spiegazione è una semplice ipotesi.

La psicologia diabolica della tentazione
        Satana, benché abbia ancora i doni di scienza naturale, conseguenti alla sua natura angelica, ha un gran fondo di cretinaggine nei suoi ragionamenti, perché gli manca la bussola principale dell’intelletto che è la luce di Dio. È proprio come alcuni scienziati miscredenti che sanno tante notizie scientifiche e mancano di criterio, cadendo nelle più banali contraddizioni e nelle più puerili supposizioni.
        Egli, dunque, non capì che Gesù, dicendo che l’uomo non vive di solo pane, alludeva alla vita soprannaturale che viene dall’alimento dell’anima; suppose, invece, che Egli desiderasse un grande dominio.
        È la psicologia di satana, diremmo che bisogna approfondire, per intendere la ragione della sua tentazione.
        Un uomo, concentrato in un’idea fissa, non sa vedere che quell’idea, e anche le cose più disparate e inconcludenti gliela richiamano. È come un animale concentrato nel cibo che non guarda altro, o come un fanciullo affascinato dal gioco che non si accorge di nulla all’infuori di esso. Ora, satana ha un’idea fissa: dominare e glorificarsi sulla terra; mantenere il suo stoltissimo e infelicissimo isolamento, formandosi un regno non solo degli angeli ribelli, ma anche degli uomini che dovranno occupare i loro seggi nella gloria.
        Per formarsi questo regno di anime, egli deve sottrarle a Dio, e allora cerca in tutti i modi di trascinarle al male, ponendo innanzi a loro come oggetto di felicità il peccato. Egli, dunque, cerca di formarsi dei ministri e dei cooperatori di perdizione nei grandi del mondo, li aiuta a prosperare, spiana loro la via, li rende crudeli, tiranni, ingiusti, violenti, peccatori, affinché lo aiutino a perdere le anime. È questo il triste retroscena di tanti dominatori della terra.
        Satana è abituato a vivere in contatto con questi esseri orgogliosi, avidi di successo che asserviscono tutto alla loro gloria. Li segue per non farseli sfuggire, li vede pensosi, accigliati, preoccupati, e conosce bene, per così dire, le linee somatiche di un dominatore.
        Psicologicamente chi è preso dall’idea del dominio bada poco alle necessità della vita materiale: è capace di ogni sacrificio, è insonne, ha lo sguardo come smarrito in una visione lontana, fugge dal consorzio umano, ha le ciglia inarcate, la fronte corrugata, le mascelle serrate, l’aspetto autoritario, perché rumina i suoi disegni di conquista e di gloria.
        Satana vide Gesù tutto pensoso e raccolto, vide che digiunava e poiché Egli veramente pensava al regno del Padre suo e ne era tutto compreso, perché si preparava proprio a fondarlo, credé di scorgere nel Redentore i caratteri di un dominatore avido di gloria.
        Lo tentò prima sul cibo per vedere se era capace di credersi potente e di avere una volontà tesa al mirabile e al grandioso; volle provare se era volitivo, come si dice oggi dei disgraziati dominatori del mondo, pronto ad offrirsi lui a mutare il sasso in pane, qualora Gesù non l’avesse potuto fare.
        Comunemente si crede che satana abbia tentato Gesù di gola, proponendogli di mutare la pietra in pane; ma non è esatto, perché non sarebbe stato gola il mangiare un pane dopo quaranta giorni di digiuno; egli lo tentò per concentrarlo nella materia, e volle vedere se era capace di voler operare straordinariamente.
        Dalla risposta di Gesù e dal suo atteggiamento credé d’intuire che Egli era in preda a desideri di dominio e, benché sentisse che non desiderava un regno come altri dominatori, pure pensò che, aprendogli la via alla gloria terrena, poteva asservirselo. Era cretino senza dubbio, ma credeva di dare nel segno. Il rifiuto di mutare la pietra in pane gli sembrò una confessione d’impotenza, e il riferimento alla Parola di Dio un ripiego per non diminuirsi in quella impotenza; satana giudicava dal proprio orgoglio, e credé che Gesù fosse in preda a pensieri di orgoglio; perciò si offrì di aiutarlo e gli mostrò una prospettiva orgogliosa di dominio e di gloria per conquiderlo.
        Lo condusse su di un alto monte, cioè su di un’altezza dalla quale gli fece scorgere in un attimo, con una fantasmagoria sintetica, tutti i regni della terra. Gli prospettò una specie di carta geografica, una specie di bilancio della potenza umana e gli disse che gliel’avrebbe data se, prostrato, l’avesse adorato. Per mostrargli che avrebbe potuto dargliela, disse che ne era il padrone e poteva assegnarla a chiunque avesse voluto.
        Certo, satana allora aveva ancora un dominio sulla terra, la quale come sfera della sua attività in certo modo gli apparteneva, ma non poteva dirsene lui il padrone. Egli, dunque, mentì, com’è sua abitudine, per ingannare Gesù. Non sapeva l’infelice che parlava proprio con Colui che l’avrebbe vinto e spodestato, e che, proprio in mezzo ai regni del male che gli appartenevano, avrebbe piantato la sua Chiesa.
        Gesù Cristo rispose: Sta scritto: Adorerai il Signore Dio tuo e servirai a Lui solo, ossia farai regnare sulla terra Dio solo, e a Lui solo darai l’onore e la gloria.
        La risposta del Redentore era un annuncio del regno di Dio, una proclamazione solenne del suo diritto su tutte le creature. Gesù doveva regnare e doveva soggiogare tutte le potenze del mondo, ma solo per ristabilirvi la gloria di Dio.
        Che cosa triste è pensare a quelle parole di satana: I regni del mondo sono stati dati a me e li do a chi voglio! Se quest’affermazione è una menzogna, infatti, non è una menzogna che i regni gli si danno apostatando, e che egli vi spadroneggia con le sue infernali influenze.
         Dove sono le potenze che non si asserviscono a satana? Le scellerate influenze settarie e le ipocrite affermazioni d’ordine negli Stati totalitari, i più nocivi alla Chiesa, non vengono da intrigo diabolico? Se si eccettuano i regni governati dai santi, il resto di quelli governati dai re o dai presidenti non si riducono ad un ammorbante intreccio di sopraffazioni e di miserie e ad una continua vessazione manifesta o ipocrita alla Chiesa? La storia dei regni e dei re della terra è quasi sempre un obbrobrio, ed è mirabile che la Chiesa, in mezzo a questi deserti spaventosi, fiorisca e prosperi.
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 9 febbraio 2013

La barca di Pietro

Commento al Vangelo V Domenica del T.O. C 2013 (Lc 5,1-11)
La barca di Pietro
                 
Dio è mirabile nel suo linguaggio, e sotto umili cose esprime disegni grandiosi di sapienza e di amore. Chi non direbbe più solenni e stupende le scene del Pentateuco, di fronte alle parabole e ai racconti del Vangelo? Eppure quelle scene erano una figura mentre il Vangelo è la realtà; non solo, ma è l’annuncio di più grandi cose, è il quadro del mirabile sviluppo della redenzione. Per questo è chiamato Vangelo, annuncio della buona novella.
       Se si può dire una frase ardita, nell’Antico Testamento Dio ha lasciato alle sue parole un carattere più umano, e per questo a noi sembra grandioso; nel Nuovo, un carattere più divino, e per questo a noi sembra più semplice e meno grandioso. Siamo lontani dal divino, i nostri pensieri non sono quelli di Dio, e per questo valutiamo molto un monte di marmo e poco una gemma preziosa estratta dalla miniera.
       La scena di Gesù che insegna dalla barca di Pietro, sembra la più semplice e la più normale; innanzi, per esempio, al passaggio del Mar Rosso e al cantico di Mosè sembra piccola cosa, eppure è l’espressione di un’immensa grandezza, del Magistero divino affidato alla Chiesa e al Papa, come subito vedremo. Non è il passaggio di un popolo da una riva all’altra, ma il passaggio della luce divina della verità dal mare infinito alla nostra piccolezza; non è la figura della liberazione dal peccato nel Battesimo, com’era il passaggio del Mar Rosso, ma è la sintesi e come la semente feconda della più grande misericordia fatta all’uomo libero e intelligente: il Magistero infallibile della Chiesa e del Papa.
       I poveri critici e ipercritici, questi pigmei di fronte al pensiero di Dio, si affannano a scrutare la lettera, e credono di aver scoperto il sole quando hanno esumato uno scartafaccio antico, o hanno fatto l’anatomia naturale di un Testo Sacro; si affannano a colmare – dicono essi –, le lacune del Testo, e qua ne vedono uno corrotto, là uno monco, altrove uno che a fatica si armonizza. Scavano a tutta forza gli antri morti della storia, ostruiti da macerie, e credono di aver fatto tutto, quando hanno potuto raccattare una notizia più o meno dubbia da mettere insieme al Sacro Testo, senza pensare che uniscono la gemma falsa alla vera, e che si sforzano di mettere in evidenza quello che Dio ha voluto eclissare, perché inutile o dannoso allo scopo che Egli ha nel parlarci.
       I poveri critici e ipercritici non si accorgono di frustrare, con le loro piccole o false luci, lo scopo che Dio ha avuto nel lasciare certe oscurità nel Testo e nel tacere certe notizie. Sono riflessioni importantissime queste che debbono profondamente umiliarci innanzi a Dio, e abituarci a trattare la sua Parola con vero spirito di fede.
       Gesù Cristo, quando andò a predicare nella Galilea, chiamò una prima volta alla sua sequela Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni, com’è raccontato in san Matteo (4,18ss) e in san Marco (1,16ss). Egli li incontrò sul lago di Genesaret quando gettavano le reti in mare, e li chiamò per farli pescatori di uomini. Alla sua voce, essi subito abbandonarono le reti e lo seguirono, ma è evidente dal contesto che non lo seguirono definitivamente; anzi, dopo poco, ritornarono alle reti e alle barche, pensando che era per loro necessaria la loro arte e professione per vivere. Seguirono Gesù, e quando videro che era povero e viveva di elemosine, pensarono che non potevano ragionevolmente prescindere dal loro guadagno, e ritornarono alla pesca. Questo si rileva dalla ricostruzione psicologica dell’atteggiamento di san Pietro nella pesca miracolosa, come subito vedremo.
       Nel chiamare i quattro pescatori, Gesù li avrebbe voluti tutti per l’opera sua, ed essi in un primo momento vi si prestarono; ma dopo pensarono, magari anche a scopo di bene, di non dovergli esser di peso, giudicarono che le elemosine che riceveva Gesù non potessero bastare loro, e ritornarono al lago per pescare di notte, sperando di guadagnare almeno qualcosa. Gesù li trovò dopo questa notte di pesca che fu infruttuosa, mentre lavavano le reti. C’erano ferme due barche, una apparteneva a Simone e l’altra a Giovanni, ossia a suo padre Zebedeo.
       La folla che seguiva Gesù si accalcava sulle rive del lago, ed Egli, per parlare meglio e farsi sentire da tutti, salì sulla barca di Simone, e lo pregò di allontanarsi un po’ da terra. Stando a sedere sul pontone della barca, ammaestrava il popolo. Non era un gesto vano né era un atteggiamento accidentale quell’insegnamento; Egli guardava lontano, al compimento dell’opera sua, ai secoli perenni nei quali avrebbe insegnato al mondo dalla sede di san Pietro, e avrebbe ammaestrato le genti dalla sua barca, ossia dalla Chiesa. Quel suo gesto era divino, e come tale era semplicissimo, e segnava in eterno il diritto della Chiesa cattolica e del Papa ad ammaestrare le genti.
       Tutti i sofismi delle eresie e tutte le violenze dei tiranni non hanno potuto e non potranno mai cancellare questo diritto. La barca di Pietro diventava, in quel momento, granitica, diventava una sede di bronzo, un monumento immortale. Il gesto di Gesù l’aveva come consacrata, mutandone la natura, e l’aveva resa conquistatrice di anime nel suo adorabile Nome.
       Essa ha attraversato i mobili secoli e li attraversa ancora fra le più fiere tempeste, ma non è mai sommersa e continua a raccogliere anime nella sua rete, anche quando par che le sfuggano e che non ne prenda più per l’apostasia universale.

La pesca miracolosa
       Gesù Cristo volle mostrare a Simone e agli altri tre apostoli, chiamati sulle rive del lago che Egli era Provvidenza bastevole a sostentarli, e volle, nel medesimo tempo, preannunciare la pesca miracolosa di anime che avrebbe fatta la Chiesa nel grande trionfo del suo regno, e perciò ingiunse a Simone di prendere il largo e gettare le reti. Da esperto nella sua arte, Pietro sapeva che non c’era speranza di pescare nulla, dato che per tutta la notte, ossia nelle ore più propizie, aveva invano gettato le reti; però la sua fede si era rinnovata per la vicinanza di Gesù e alla luce dei suoi insegnamenti, e senza esitare, nel suo Nome, gettò le reti.
       Immediatamente i pesci riempirono la rete in così grande quantità che quasi si rompeva; ed egli che era forse in compagnia di Andrea, fece con lui segno all’altra barca dov’erano Giacomo e Giovanni, perché li avesse aiutati; essi, remando a gran forza, si accostarono e, raccolti i pesci, riempirono le due barche che quasi affondavano.
        La fede di Simone a quel miracolo si risvegliò in pieno; egli era ritornato alla barca e alle reti perché aveva creduto imprudente non avere un cespite certo di guadagno, ed ora constatava che Gesù poteva non solo sopperire alle sue necessità, ma poteva farlo con abbondanza; sentì tutta la propria ingratitudine e la propria miseria e, gettatosi alle ginocchia di Gesù che era seduto sulla sponda della barca, e aveva i piedi nascosti dai pesci che la colmavano, esclamò: Allontanati da me, perché io sono uomo peccatore. E voleva dire: Tu mi hai chiamato, mi hai promesso di alimentarmi anche corporalmente, e io ho dubitato di te, ed ho creduto che valesse più il mio posto di pescatore che la tua provvidenza; lasciai tutto per te, e con volubilità sono ritornato non tanto alla mia barca, quanto al mio mestiere, rifiutando praticamente la tua chiamata; non sono degno che Tu mi accolga con te, allontanati, stai in cattiva compagnia: io non sono che un peccatore. Anche gli altri compagni di Pietro furono presi dai medesimi sentimenti, perché anch’essi avevano diffidato della divina provvidenza. Ma Gesù, pieno di bontà, rivolto a Pietro singolarmente perché a lui principalmente aveva voluto dare la lezione, e perché egli era il più addolorato, disse: Non temere d’ora innanzi sarai pescatore di uomini. Tutti, allora, tirate a secco le barche, abbandonata ogni cosa, lo seguirono definitivamente
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 2 febbraio 2013

Il signore ha pietà del suo popolo


Commento al Vangelo IV Domenica del T.O. C 2013 (Lc 4,21-30)
       
        Gesù Cristo, dopo aver vinto la tentazione di satana, cominciò il suo ministero nella Giudea, come dice san Giovanni (2, 3 e 4), e vi fece parecchi prodigi, dei quali furono testimoni alcuni Galilei. Poi, spinto dallo Spirito Santo, andò in Galilea, dove già si era sparsa la fama dei suoi miracoli e della sua Parola, di modo che cominciò intorno a Lui un concorso grande di popolo che lo seguiva per ascoltarlo nelle sinagoghe dov’Egli insegnava, e lo acclamava. L’acclamazione del popolo ci fa intendere che la divina Parola penetrava il cuore di tutti con fascino straordinario.
       Percorrendo le città della Galilea, Gesù andò anche a Nazaret, dov’era stato allevato e che amava come sua patria, e si recò nella sinagoga di sabato per leggervi la Scrittura e insegnare. Era uso, infatti, nei sabati, leggere nelle sinagoghe qualche tratto della Legge o dei Profeti, per poi spiegarlo al popolo. Quando era presente, nell’adunanza, una persona autorevole le si dava l’incarico di leggere, e le si consegnava il libro, cioè il rotolo di pergamena avvolto intorno ad un asse di legno, sul quale era scritta, da un lato solo, la Parola di Dio, affinché avesse scelto il testo. Chi leggeva rimaneva in piedi per rispetto, e dopo, ripiegato il rotolo, cominciava il suo discorso.
       Nella sinagoga di Nazaret fu consegnato a Gesù il libro del profeta Isaia, ed Egli, spiegatolo, vi trovò quel passo che si riferiva proprio alla missione che stava compiendo. Il profeta parlava in nome del Messia futuro, dicendo: Lo Spirito del Signore è sopra di me, perciò mi ha unto per evangelizzare i poveri, mi ha mandato a sanare i contriti di cuore, ad annunciare agli schiavi la liberazione, a dare ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a predicare l’anno accettevole del Signore e il giorno della retribuzione.
       Era il programma dell’opera sua fino alla consumazione dei secoli; era la sintesi della sua missione spirituale e delle opere mirabili che l’avrebbero accompagnata. Egli, unto dallo Spirito Santo, doveva annunciare la verità eterna ai poveri, cioè al popolo, ai peccatori e agl’ignoranti, tutti poveri di luce e di grazia soprannaturale; doveva sanare i contriti di cuore, cioè gli afflitti, i pusillanimi, e quelli che, essendo avviliti nei peccati, desideravano risorgere; redimendo gli uomini, Egli avrebbe annunciato la liberazione ad essi, e alle anime che erano nel Limbo in attesa della salvezza.
       Con la parola della verità avrebbe dato la vista ai ciechi, con la propagazione del Vangelo per tutta la terra avrebbe ridonato la libertà agli oppressi, riempiendo di gioia i cuori per la grazia di Dio; con la diffusione delle divine misericordie avrebbe predicato l’anno accettevole, cioè il tempo di grandi grazie per le anime, e infine avrebbe annunciato il giorno della retribuzione, cioè il Giudizio finale.
       Nelle parole di Isaia c’era l’annuncio profetico dell’opera del Redentore e dello sviluppo di questa immensa misericordia per i secoli futuri, sino al termine dei secoli. Egli avrebbe anche beneficato il popolo, e avrebbe realmente consolato gli afflitti, guarito gl’infermi, dato la vista ai ciechi, ecc.; ma questi benefici erano figura di benefici più grandi che avrebbe diffusi per la sua Chiesa nei secoli.
       Sette grandi annunci che possono considerarsi come profezia dei sette periodi della storia della Chiesa:
       1° l’evangelizzazione dei poveri;
       2° il rinnovamento della società umana, avvilita dal paganesimo mediante il sacrificio dei martiri, i grandi contriti dall’iniquità umana;
       3° il trionfo della Chiesa, prima ridotta in servitù sanguinosa dai Cesari;
       4° l’illuminazione della verità a tutto il mondo, per mezzo dei dottori della Chiesa;
       5° la liberazione dalle nuove persecuzioni, nel periodo dell’apostasia delle nazioni, ed il trionfo della Chiesa oppressa dalle tirannidi;
       6° l’anno accettevole, cioè un periodo di grandi grazie, e un trionfo grande della Chiesa nel regno di Dio;
       7° infine, l’ultima prevaricazione e il Giudizio finale.
       Gesù Cristo, ripiegato il rotolo, lo rese al ministro della sinagoga, e si pose a sedere.
       Splendeva dal suo volto la verità, perché guardava a tutto il tempo futuro, e perciò tutti gli occhi erano fissi in Lui, attratti dal suo fulgore. Il suo aspetto conquideva, e la sua Parola era affascinante, e perciò tutti lo guardavano, per non perdere una parola di ciò che stava per dire. Egli, guardandoli per raccoglierli nel suo Cuore, esclamò: Oggi le vostre orecchie hanno udito l’adempimento di questo passo della Scrittura.
       Probabilmente queste parole furono solo l’enunciato di un discorso che Egli pronunciò, o poterono anche esserne l’epilogo. L’evangelista non ce lo riporta, ma è evidente che Gesù dovette dimostrare in qual modo quelle parole si erano avverate, e in qual modo questo compimento si sarebbe sviluppato, perché il Sacro Testo soggiunge che tutti gli rendevano testimonianza, ammirando le parole di grazia che uscivano dalla sua bocca. Gli rendevano testimonianza, cioè erano convinti di ciò che diceva, se ne entusiasmavano e ne parlavano fra di loro per comunicarsi le loro impressioni di stupore.
       Alcuni, però, gettando la diffidenza nell’assemblea, proprio quando poteva germinare la Parola di Dio in quei cuori e disporli a seguire la verità, esclamarono: Non è costui il figlio di Giuseppe? Lo dissero con disprezzo, com’è evidente dal contesto, e impedirono ai cuori di aprirsi alla verità.
       Molti erano andati nella sinagoga con la speranza di assistere a qualche miracolo e, vedendo che Gesù non ne aveva operati, provarono una profonda delusione, e per questo ricordarono che Gesù era il figlio di Giuseppe, com’essi lo credevano, ignorando il mistero della Verginità di Maria, e quello della sua divina Maternità. Gesù Cristo smascherò i loro occulti pensieri, mostrando che non aveva potuto operare miracoli proprio per la loro poca fede, e affermando con severa parola, un po’ coperta ma chiara che sarebbe stata usata misericordia maggiore ai pagani, come fu usata pietà alla vedova di Sarepta da Elia, e Naaman il Siro da Eliseo, poiché nessun profeta è accetto nella sua patria.
        Le parole severe di Gesù rivelavano tutto il retroscena dei cuori malintenzionati che lo ascoltavano, ed erano dirette alla loro conversione; ma, rifiutando essi la divina misericordia, furono come invasati da satana, e tutti, alzandosi con impeto, lo cacciarono fuori dalla sinagoga e dalla città, e lo sospinsero fin sulla sommità della montagna, dove all’angolo sud-ovest c’era un precipizio profondo dieci o dodici metri, per gettarvelo dentro e ucciderlo. Gesù, però, manifestando la sua divina potenza, passò in mezzo a loro tranquillamente e se ne andò, senza che alcuno avesse osato porgli le mani addosso. Egli mostrò, in tal modo, che era Dominatore tranquillo degli eventi, e che senza il suo permesso nessuno poteva fargli del male.
Padre Dolindo Ruotolo