sabato 29 novembre 2014

Occorre vigilare ed essere pronti al Giudizio di Dio



                                                                         


Commento al Vangelo – I Domenica di Avvento 2014 B (Mc 13,33-37)
Sant’Andrea, Apostolo

Occorre vigilare ed essere pronti al Giudizio di Dio
Gli apostoli avevano domandato a Gesù quando sarebbero avvenute la distruzione del tempio e la fine del mondo; ma il Redentore, a questa domanda, non rispose, dicendo che il giorno e l’ora di quelle catastrofi erano noti solo al Padre. È evidente che Egli, come Dio, lo sapeva, essendo una sola cosa col Padre, ma come uomo poteva dire d’ignorarlo, perché il computo del tempo della giustizia finale non sta nelle possibilità umane, dipendendo dall’intreccio di tutte le responsabilità occulte dell’umana coscienza e dell’umana libertà. Solo Dio che guarda dall’alto, e al quale tutto è manifesto, può valutare quando le iniquità umane raggiungono l’estremo limite, e fanno traboccare il peso della giustizia.
La libertà umana, infatti, può influire sugli eventi della storia e può affrettarli o ritardarli; una sola azione buona può arrestare un castigo, e una sola iniquità può darvi l’ultima spinta; ciò che succederebbe in quest’anno può essere trasportato in un altro o in tempi lontani per l’intreccio di un’azione libera che interferisce gli eventi.
Ora, se si tiene presente il numero stragrande degli uomini dal principio del mondo ad oggi, e gl’innumerevoli intrecci della loro azione, delle loro responsabilità, e dei loro meriti, se si pensa al coordinamento di queste azioni con tutto l’ordine morale e fisico dell’universo, si capisce che il calcolo del giorno e dell’ora di avvenimenti definitivi nella storia di un popolo o in quella del mondo può farlo solo Dio.
I segni prossimi o remoti della fine del mondo in particolare, possono distare anche secoli dall’evento, quando qualche anima privilegiata, controbilancia con azioni sante il tracollo della giustizia.
È uno dei tratti delicati della divina provvidenza.
Così si spiega come, in tante epoche della storia, si è creduto di veder i segni della fine del mondo, senza che nulla sia avvenuto dopo. È impressionante che, fin dai tempi di san Gregorio Magno, si parlasse della fine del mondo come di evento vicino, ed è impressionante che lo stesso santo ne parlasse con convinzione; non è improbabile che allora gli eventi realmente precipitassero, e che le preghiere della Chiesa l’abbiano ritardato. Non è cosa che può sembrare strana, ma è cosa che deve farci essere pensosi, considerando che noi abbiamo sul capo questa spada di Damocle.
Gesù Cristo ci esorta ad essere attenti, a vigilare e a pregare perché questo interessa all’anima nostra. Gli eventi li regola il Signore, e conoscerli anticipatamente con certezza potrebbe anche essere per la nostra malizia un pretesto o un’occasione di maggiore spensieratezza. L’incertezza angosciosa che in ogni secolo può determinarsi sull’imminenza della fine può spingerci più facilmente a pensare ai beni eterni, e a distaccare l’anima da tutto quello che è vana illusione della vita del mondo.
Chi può convergersi, fino a dimenticare l’anima nelle stesse discipline della vita presente che appaino ideali? Arte, scienze, lettere, dominio, monumenti grandiosi che cosa sono di fronte all’eternità?
Vale la pena affannarsi tanto nelle cose della vita, quando si sa che esse periscono? Dobbiamo, sì, compiere la missione che Dio ci ha assegnata, dobbiamo operare per la sua gloria, ma non possiamo farci assorbire talmente dalle idealità terrene da trascurare quelle eterne.
Chi potrebbe essere così stolto da consumarsi per fare un’opera d’arte con una materia che si disfa? Le opere dello spirito rimangono in eterno; quelle della materia periscono, e quelle del tempo fugace sono vanità; dobbiamo, dunque, nell’operare, tener presente la fine di tutto, per fissare il nostro pensiero al Fine ultimo della nostra vita.
Un uomo disse Gesù –, partito per un paese lontano lasciò la casa, e diede ai suoi servi il potere di far tutto, e ordinò al portinaio di vigilare. Ecco l’immagine del mondo: il Signore è il Padrone di ogni cosa e, quasi fosse assente, lascia agli uomini la libertà di operare come vogliono, costituendo, sulla loro vita, un portinaio che vigila. Questi è il Papa e il Sacerdozio, e la loro attività è preziosa per tutelare le anime. Occorre però che ciascuno vigili, affinché, al ritorno del Padrone, possa trovarsi pronto per dargli il rendiconto.
Non tutti ci troveremo presenti agli ultimi eventi del mondo, ma tutti compariremo innanzi a Gesù Cristo, Giudice eterno; non si può dunque prendere alla leggera la vita, e bisogna vigilare, per essere pronti alla chiamata di Dio.


Le illusioni della civiltà e la realtà della vita
Cammino nel mondo, il quale moltiplica le sue attività materiali, e vuole mostrarsi in una magnificenza sempre crescente.
Le nazioni fanno a gara per ostentare la loro forza e la loro gloria, e s’insuperbiscono della loro civiltà; eppure, passando tra gli edifici sontuosi e le affermazioni della tecnica, posso dire con Gesù all’anima mia: Vedi tu questi grandi edifici? Non sarà lasciata di essi pietra su pietra che non sia distrutta.
Oh, se si vedesse il mondo con lo sguardo di Dio, come ci apparirebbe vano in tutta la sua esuberante vita!
Che cos’è, per esempio, un monumento grandioso, ricco di statue? È un povero ammasso di pietre e, se le statue sono immodeste, è un ripostiglio di rifiuti. Che cos’è una centrale elettrica potentissima? Le sue scintille sono giochi d’infanzia di fronte all’universo e nullità innanzi a Dio! Non rimane nulla di tutte le attività umane, e tutto si sfascia, anche quello che sembra immortale! O mio Signore, potrei essere io così stolto da farmi affascinare da ciò che passa e si dissolve? Te solo sopra tutte le cose!
Vivo in un mondo di seduzioni, e devo aver sempre presente la parola tua, o Gesù: Badate che nessuno vi seducadicendo: Sono io. Ecco il mondo col suo fasto che dice: «Sono io la vita», eppure è un seduttore. Ecco l’amore effimero delle creature che mi dice: «Sono io la felicità», eppure è un seduttore dei sensi. Ecco la scienza, la famosissima falsa scienza, questa grande scocciatrice che tormenta le povere menti umane col pungolo avvelenato dell’errore che dice: «Sono io la verità», eppure è una seduttrice.
Gli uomini politici, carichi di responsabilità e di brutture, pretendono creare un mondo nuovo e dicono: «Siamo noi la guida dei popoli», eppure li seducono prendendoli in giro!
Il triste elenco può continuare all’infinito! Non senza ragione Gesù Cristo, dopo aver accennato ai falsi profeti, soggiunge: Sentirete guerre e rumori di guerre; questo è l’epilogo di tutte le famose civiltà; diventano orgogliose e tracotanti, pretendono imporsi con la violenza, e periscono nelle fiamme accese dalla loro stoltezza.
Gesù Cristo ricorda ai suoi cari le persecuzioni che contro di loro saranno suscitate in ogni tempo; è questo il vero combattimento eroico dei figli della Chiesa. Com’è bella la Chiesa in questo suo eroismo, com’è grandiosa la sua epopea! La pretesa civiltà ha lottato per travolgere, ed essa ha combattuto non uccidendo ma immolandosi. Le schiere dei suoi martiri sono sempre fresche, sempre belle, sempre illuminate dai fulgori della virtù e della pace; sono la vera gloria della terra, ed elevano le mani monde di sangue, sostenendo la palma della vittoria. Gli eroi del mondo, ahimè, se non sono illuminati dalla virtù, sono figure tetre, spiranti odio e seminanti stragi. Questa è la verità, e il mondo non può non riconoscerla: solo i martiri sono veramente eroi, pionieri dello spirito che tende a Dio, cerca Dio, ama Dio solo!
            Chi potrà farsi illudere dalle false civiltà del mondo? L’una dopo l’altra sono scomparse, e la terra pare si sia affrettata a coprire questi putridi cadaveri per farne perdere le tracce. Verrà poi il cataclisma finale e brucerà tutto, perché non ci sarà altro modo per eliminare la barbarie finale dell’apostasia universale. Che gioia, Signore, pensare che non rimarrà nulla della civiltà moderna, impregnata di bestemmie e di apostasia che gioia! Altro che le stalle di Augia! Il mondo è tutto un sudiciume, e non ci vuol meno d’un torrente di fuoco per purificarlo! Beata l’anima che allora potrà ascoltare la voce di Dio giubilando, e riprendere il corpo che informò sulla terra, per trasportarlo in Cielo come inno d’amore e di benedizione a Dio onnipotente. Amen.

Padre dolindo Ruotolo

sabato 22 novembre 2014

Il Giudizio universale



Commento al Vangelo della XXXIV Domenica TO 2014 A (Mt 25,31-46)

Il Giudizio universale
Dopo aver accennato alla fine del mondo e al Giudizio di Dio nel capitolo precedente, e dopo averci esortato alla vigilanza e all’operosità in questo, Gesù Cristo accenna alla disamina e alla sentenza del Giudizio finale. Egli verrà con grande maestà insieme ai suoi angeli, e per il loro ministero separerà i buoni dai cattivi, come si separano in un ovile le pecorelle dai capretti. I buoni saranno alla destra, e i cattivi alla sinistra. Gli uomini non saranno alla sua presenza solo come individui, ma anche come nazioni, perché il Giudizio finale dovrà essere la suprema glorificazione del Re divino innanzi a quelle stesse nazioni che tante volte rifiutarono il suo impero soavissimo. Tutto l’oggetto dell’esame sembra ristretto solo alla carità corporale ma, in realtà, Gesù Cristo si limita solo alla carità fatta a Lui e per Lui nella persona dei poveri e dei sofferenti, per dirci che Egli è il centro di tutta l’attività umana, e a Lui deve convergere tutto.
Egli, infatti, non loda le opere della misericordia corporale per il sollievo che hanno dato al sofferente, ma perché sono state fatte a Lui nella persona dei sofferenti. Copre tutti gli infelici col suo manto regale, anzi si unifica quasi con loro, per dare il motivo più forte e più costante della carità. Non è un volere tutto accentrare in sé per affermare un dominio assoluto, come potrebbe farlo un uomo, ma per abbracciare nel suo Cuore divino gli uomini, e garantirli contro i soprusi e le sopraffazioni dell’egoismo umano. La storia dimostra fino all’evidenza che solo così è fiorita la carità nella terra, e che solo per Gesù essa ha raggiunto le vette dell’eroismo.
La carità corporale suppone quella spirituale, perché sarebbe vano consolare il corpo senza consolare l’anima. La carità verso il prossimo suppone quella verso Dio, perché senza l’amore di Dio è impossibile. L’amore di Dio comporta l’osservanza della legge e la fedeltà in tutti i propri doveri. È chiaro, dunque, che, nell’esame della carità, Gesù ha voluto implicitamente accennare all’esame di tutta la vita nostra.
Nel Giudizio, inoltre, sono giudicate le nazioni in quanto tali; ora le nazioni hanno un’attività temporale, e praticamente quelli che le reggono debbono pensare a provvedere i popoli di quello che è necessario alla vita. Questo dovere non si compie senza che Gesù sia il centro e la meta della vita nazionale, e senza che l’amore di tutti lo applaudisca come Re e come unico amore. Non lo vediamo praticamente nella vita dei popoli? Le genti che rifiutano il regno di Gesù Cristo cadono nella miseria più squallida e nel disordine più spaventoso; cessa ogni più elementare prosperità, e si cade nel caos perché i governanti che non vedono Gesù nel prossimo vi vedono solo una parte materiale del tutto, e hanno per programma il proprio tornaconto o, tutt’al più, un falso bene comune che è il massacro sistematico di quelli che sembrano inutili o di peso, ed è l’asservimento alla barbarie di un imperialismo vuoto. Gli spaventosi delitti consumati in Germania, in Russia, in Messico e in Spagna, dei quali è così vivo ed attuale il tristissimo ricordo, dimostrano fino all’evidenza che dove non regna Gesù Cristo regna la più feroce barbarie.
            Pensiamo all’epilogo della nostra vita: o l’eterno supplizio o la vita eterna. È terribile! Non si sfugge da questi due estremi! E allora che vale gettarsi a capofitto nelle misere soddisfazioni della terra e vivere come se non dovessimo fra pochi anni, anzi forse fra mesi e fra giorni trovarci di fronte all’eternità? Quanti anni hai? Mettiamo sessanta o settanta; fra dieci anni sgombrerai. Non ti apparterrà più nulla né letto né biancheria né denaro; nessuno più ti curerà, sarai dimenticato, sarai nell’eternità, felice o infelice secondo quello che avrai meritato. Non guardare al mondo, abbraccia la croce, segui Gesù e, per suo amore, passa operando il bene, affinché Egli ti benedica e ti accolga nella gloria. Le tribolazioni passano, non ti angustiare eccessivamente, non guardare al di là dell’affanno giornaliero, guarda Dio solo e confida in Lui, abbandonandoti alla sua misericordia. Sospira come pellegrino alla patria.

Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo

sabato 15 novembre 2014

La Parabola dei talenti


Commento al Vangelo della XXXIII Domenica TO 2014 A (Mt 25,14-30)

La parabola dei talenti
Vigilare non significa rimanere in un’oziosa e snervante attesa, ma significa lavorare per la gloria di Dio e per il bene delle anime, e portare, alla presenza del Signore, un tesoro di meriti. Questa verità, fondamento dell’onesta e santa operosità, fu espressa da Gesù Cristo con la parabola dei talenti. Egli è il Padrone ricchissimo che ha fondato la Chiesa come campo di prova, e si è eclissato, quasi fosse partito per un lontano paese, dando a ciascuno la forza, la grazia e i doni per poter operare il bene, secondo le diverse possibilità.
I doni che il Signore ci fa sono di natura e di grazia; quelli di natura sono l’ingegno, la forza, la ricchezza, la sanità, ecc.; quelli di grazia sono oltre i doni comuni a tutti nella Chiesa, come per esempio i Sacramenti, anche quelli particolari alle anime privilegiate. Tutti questi doni devono farsi fruttificare, e anche quelli che sono assolutamente gratuiti, come per esempio il dono di profezia, debbono trovare, nell’anima, disposizioni particolari di umiltà, di amore, di purezza e di semplicità, perché il Signore possa espandersi di più. Nel giorno del Giudizio particolare che è quello del rendiconto personale, Dio ci domanderà che cosa abbiamo prodotto con i suoi doni, ed esigerà un accrescimento, diciamo così, del capitale che ci è stato assegnato.
Gesù Cristo si rivolge in modo speciale a quelle anime che credono aver fatto molto, quando non hanno fatto un male positivo, e che misurano le loro benemerenze, paragonandosi con i ladri, con gli impuri e con gli omicidi. Eppure non basta solo non fare il male, ma bisogna anche operare il bene e mettere a traffico le proprie attitudini. Il servo della parabola non fece fruttificare il talento ricevuto, perché, secondo lui, il padrone era molto duro ed esigente; avrebbe dovuto essere l’opposto. La mancanza d’amore al padrone gli fece seppellire ciò che aveva ricevuto. Chi riceve un dono dal Signore può farlo fruttificare solo nell’amore che è la leva più potente di tutte le nostre attività. Lo vediamo nei santi, le cui opere sono state prodigiosamente feconde. Il mondo, spinto solo dall’interesse o dalla vanità sembra più attivo dei santi, e le sue iniziative sembrano riempire la terra; ma sotto il frastuono delle iniziative c’è la sterilità, come mostrano le famose iniziative della carità civile o laica.
Quando ci troveremo innanzi a Dio per essere giudicati nel Giudizio particolare, a chi ha meriti da presentare al Signore sarà data la vita eterna, ma a chi non ne ha, sarà tolto anche ciò che sembra di avere, perché precipiterà nelle tenebre eterne, privo di vita vera, vuoto di tutto, in preda alla disperazione e all’affanno senza conforto alcuno.

La ricchezza deve circolare
Non si può rimanere oziosi nella vita presente e, ciascuno nel proprio stato, deve produrre ciò che può spiritualmente e materialmente. L’attività di tutti concorre al bene comune, e chi ha speciali attitudini per le arti, le scienze, il lavoro, deve dedicarvi le sue forze per amor di Dio. La ricchezza, poi, non è un dono che può tenersi nascosto o inutilmente inoperoso; è anche un dovere farla circolare, adibendola nelle sane iniziative sociali. Chi la tiene accantonata per avarizia o per timore di perderla, ne risponde al Signore come se l’avesse sperperata. A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza, ma a chi non ha sarà tolto anche quello che sembra di avere; queste parole dell’eterna Sapienza sono un canone anche per le ricchezze temporali; quando si mettono a traffico per il bene comune, fruttificano e producono l’abbondanza a chi le possiede; quando si lasciano inoperose per timore di perderle, si consumano e producono la miseria. Chi le tiene inoperose sembra di averle, perché, in realtà, non possiede che il fastidio di custodirle. Centomila lire, per esempio, se si conservano sempre senza spenderle mai, sono un pezzo di carta stampata; se circolano rappresentano un valore reale.
Dio ci dà tanti particolari doni della sua bontà per darci modo di operare il bene e di zelare la sua gloria; compiamo dunque con fedeltà la nostra giornata di lavoro, aspettando la ricompensa dal Padre celeste. È più utile lasciare la ricchezza di molte opere buone, anziché lasciare un peculio che spesso è dilapidato dagli eredi ed è succhiato dalle tasse. Quello che si ha deve lasciarsi; non è dunque un gran merito disporre quando non se ne ha più il dominio; cediamolo al Signore a poco a poco con le opere sante di sua gloria e con quelle di carità, e pensiamo che la nostra proprietà e la nostra dimora si ridurranno, tutt’al più, ai pochi metri di terra nei quali verremo sepolti. 

Padre Dolindo Ruotolo
 


sabato 8 novembre 2014

Gesù caccia i profanatori dal tempio



        Commento al Vangelo della XXXII Domenica TO 2014 A
                                      (Gv 2,13-22)

                                               


Dedicazione della Basilica Lateranense

Gesù caccia i profanatori dal tempio
Da Cana di Galilea Gesù, insieme con la Madre, i suoi parenti e i suoi discepoli, scese a Cafarnao che si trovava a un livello più basso, e vi rimase alcuni giorni, per unirsi al pellegrinaggio che si recava in Gerusalemme per la solennità della Pasqua. Egli non aveva ancora stabilito a Cafarnao la sua dimora. Andato a Gerusalemme si recò al tempio per adorare il Padre, e vi notò un gravissimo sconcio, contro il quale insorse con tutto l’impeto del suo zelo e il fulgore della sua divina maestà.
Nell’atrio o cortile detto dei pagani, si era formato un vero mercato di animali atti ai sacrifici cruenti, e di ciò che poteva servire per le offerte sacre. Data l’imminenza della Pasqua, il traffico era grande e, per facilitare il cambio delle monete greche o romane che non potevano essere introdotte nel tempio a causa dei loro simboli pagani, si erano stabiliti nell’atrio sacro anche dei cambiavalute, pronti a cambiare con interesse, ad usura, le monete in sicli ebraici d’argento. La baraonda e il vociare dei trafficanti, unito alle voci degli animali e al sudiciume che vi lasciavano, avevano ridotto il luogo sacro in uno stato obbrobrioso; i sacerdoti e i leviti lasciavano fare, perché ricavavano lauti profitti da quel commercio.
Nel tempo della sua vita nascosta, Gesù aveva notato il sacrilego sconcio ogni volta che era andato a Gerusalemme, ma aveva taciuto, perché non era giunto il tempo di rivelarsi; ora, però, Egli iniziava la sua vita pubblica e, operando da padrone, ripieno com’era d’amore per il Padre, avvampò di santo sdegno e, prese alcune cordicelle, forse di quelle che servivano a tener legati gli animali, ne formò come una sferza e cominciò a cacciare fuori gli animali, e con essi gli uomini che li custodivano o li vendevano. I banchieri, i più freddi e insensibili al divino rimprovero, non si mossero, anzi, dovettero aggrapparsi ai loro banchi per difenderli dall’urto degli animali che fuggivano in ogni direzione, ma Gesù, avvicinatosi ai banchi, li rovesciò con impeto divino, gettando per terra le loro monete. Solo verso i venditori di colombe fu più pacato, perché essi le vendevano ai poveri e le avevano in gabbia, e li esortò a togliere di là quella roba, gridando ad essi e a tutti di non cambiare la casa del Padre suo in una bottega di traffico. Nessuno osò reagire a quell’impeto divino, e ne fu tanta la maestà amorosa che gli apostoli, benché ancora novellini nelle vie di Dio, si ricordarono che nel salmo 68,10 era predetto del Messia che lo zelo della Casa di Dio lo avrebbe consumato, e videro spontaneamente, in quell’atto, il compimento della profezia.
La Vergine Santissima, ottenendo a Cana il miracolo dell’acqua mutata in vino, aveva anticipato l’ora di Gesù, cioè il tempo della sua manifestazione pubblica come Messia e Salvatore del mondo, e il primo atto del ministero di Lui fu quello di cacciare dal tempio i profanatori che lo avevano ridotto ad una bottega.

Il rimprovero dei Giudei a Gesù e la sua assoluta padronanza
Il frastuono prodotto dall’uscire precipitoso dei venditori e degli animali dal cortile del tempio fece intervenire intorno a Gesù, di furia, i Giudei, cioè le autorità del santuario, decise a mettere a posto il disturbatore del loro traffico indegno, e di espellere, a loro volta, dal luogo santo, colui che, a loro giudizio, si arrogava un potere che non aveva; ma quando si trovarono innanzi al Signore furono così conquisi dalla sua divina maestà che non osarono rimproverarlo e tanto meno cacciarlo; videro, nel suo atteggiamento, qualcosa di straordinario, e vollero accertarsene, domandandogli un miracolo come conferma.
La loro pretesa poteva essere anche legittima, se avessero fatto quella domanda per accertarsi della missione di Lui; ma essi, in realtà, benché conquisi della sua maestà, crederono di metterlo in imbarazzo, costringendolo a riconoscere di non avere il potere di sostituirsi a loro nella custodia del luogo santo. Lo sdegno, poi, che sentivano per il mancato lucro che veniva ad essi da quell’indegno mercato dovette farli avvampare d’ira, e far loro desiderare fin d’allora di disfarsi di Lui.
Egli, perciò, riaffermando con i fatti la sua divina potestà e padronanza che non doveva dar conto a nessuno nel tutelare l’onore del Padre, rispose enigmaticamente: Distruggete questo tempio, e io in tre giorni lo riedificherò.
La frase sembrò un assurdo, data la mole del tempio e la sontuosità della fabbrica.
L’edificio, cominciato da Erode il Grande nell’anno 18° del suo regno, e quindi molto tempo prima della nascita di Gesù, non era terminato ancora nei suoi particolari, benché ci si lavorasse da 46 anni. Fu terminato solo nel 64 dell’era nostra, poco prima della sua distruzione per opera dei Romani, il 70 dell’era volgare. I Giudei, perciò, dissero a Gesù in tono ironico: Questo tempio fu edificato in quarantasei anni, e tu lo rimetterai in piedi in tre giorni? Gesù, invece, – soggiunge l’evangelista –, parlava del tempio del suo corpo, e quindi alludeva alla sua morte ed alla sua risurrezione. I suoi apostoli lo constatarono quando Egli risorse, si ricordarono che la Scrittura in più luoghi aveva predetto la sua risurrezione (cf Sal 15,10; Is 53,10-12) e crederono alle sue parole.
Nonostante che la promessa di Gesù avesse avuto il carattere di un paradosso, gli Ebrei non osarono reagire violentemente contro di Lui; sentirono, loro malgrado, che era la verità, benché non sapessero spiegarlo. Alcuni suppongono che Gesù, nel dire quelle parole, avesse fatto cenno con la mano al suo corpo, toccandosi il petto ma, pur facendo questo gesto, Egli non avrebbe potuto farsi intendere da quelli che ignoravano i prossimi misteri della sua morte e della sua risurrezione. Con profondissimo pensiero, Egli accennò all’argomento fondamentale della verità di tutta la sua opera, e parlò con piena padronanza, precorrendo i tempi. Se pur avesse fatto un miracolo in quel momento, come ne aveva già fatto molti in Gerusalemme (versetto 23), i Giudei non gli avrebbero creduto; Egli, invece, li tacitò con una risposta enigmatica, detta in tutta la pienezza della sua maestà. Mettendoli così a tacere, non diceva una cosa paradossale, se si riguarda la sua affermazione nella luce divina.
Quel tempio maestoso, infatti, era figura e ombra del suo Corpo divino; all’apparenza sembrava immensamente più grande, ma, in realtà, era infinitamente più piccolo. Per distruggere il tempio materiale ci sarebbero voluti elementi umani, determinati e mossi dalla volontà umana; per uccidere, invece, il suo corpo era necessario un permesso della divina volontà, e occorreva il concorso del suo amore che si donava.
Era un prodigio di misericordia il permesso dell’immolazione della Vittima divina, com’era un prodigio di onnipotenza la sua risurrezione dalla morte.
Il tempio stava dunque al suo Corpo come lo schizzo di una fabbrica sta alla fabbrica stessa; Gesù, quindi, non si servì d’un paragone improprio né disse una parola vana ma la sua fu una parola profondissima.

Un enigma penoso per gli apostoli
Dal contesto si rileva che per gli apostoli l’affermazione di Gesù dovette costituire sempre un enigma penoso e un’oscurità in mezzo alla luce che pur vedevano intensa; è per questo che l’evangelista soggiunge che essi, dopo la risurrezione di Gesù si ricordarono di quelle parole, e crederono alle Scritture e a ciò che aveva detto il Signore. Si spiegarono solo allora un mistero incomprensibile che aveva per essi l’apparenza di un assurdo.
Così avviene nelle grandi manifestazioni della potenza, della sapienza e dell’amore di Dio; accanto alla luce ci sono pure le ombre e le tenebre misteriose; perché non tutto ciò che dice o opera il Signore si riferisce ai nostri piccoli pensieri o al tempo presente.
Quando si vede la luce da un lato, le oscurità non sono tenebre di falsità ma un’oscurità e ombra di un mistero che può chiarificarsi dopo anni di attesa, e che può attendere la sua luce anche nell’eternità.
Nel tempo nel quale Gesù stette a Gerusalemme per la Pasqua – soggiunge l’evangelista –, molti crederono in Lui per i miracoli che Egli faceva, ma la loro fede era superficiale, benché esternamente sembrasse entusiasta, e Gesù non si fidava di loro, perché li conosceva nell’intimo del cuore, e non aveva bisogno che altri rendesse testimonianza di loro.
San Giovanni, con queste parole, vuol far notare che Gesù era Dio, e considerava le sue creature non attraverso le apparenze esterne, ma scrutandone il cuore e conoscendone gl’intimi pensieri.
            Innanzi a questo sguardo divino non possiamo presumere di noi né fidarci della nostra giustizia, perché Egli può vedere ciò che noi non vediamo.

Don Dolindo Ruotolo