domenica 30 marzo 2014

La guarigione del cieco nato

Commento al Vangelo: IV domenica di Quaresima 2014 A (Gv 9,1-41)

La guarigione del cieco nato

Dopo la discussione avuta con i farisei nel recinto del tempio, e dopo essersi eclissato dal loro sguardo quando erano già pronti a lapidarlo, Gesù Cristo si allontanò dal sacro luogo insieme ai suoi discepoli, e passò per una delle porte dove ordinariamente sostavano i poveri e gl’infelici per domandare l’elemosina.
L’essersi trovato là con i suoi discepoli e l’esservisi fermato conferma che Egli si eclissò miracolosamente da quelli che volevano lapidarlo.
Passando, vide un poverello, cieco dalla nascita, il quale, per essere portato là ogni giorno dall’infanzia a chiedere l’elemosina, era conosciuto da tutti, ed era una di quelle figure che, nella loro medesima piccolezza, finiscono per interessare il pubblico, e per essere quasi come un motivo insostituibile di certi ambienti.
Dal contesto del racconto si rileva l’indole di questo cieco: di facile parola, affettuoso, riflessivo, e un po’ psicologo o conoscitore dell’ambiente del tempio; abituato a raccogliere tanti discorsi che facevano i pellegrini e forse tante mormorazioni di quelli che erano addetti al sacro luogo, si era formato un concetto abbastanza chiaro di quelli che ne avevano il comando. I ciechi s’informano di tutto nel loro piccolo ambiente, proprio perché non vedono, e questo giovane doveva pur sapere che quasi mai i sacerdoti, gli scribi e i farisei facevano scivolare nelle sue mani qualche elemosina, essendo sommamente venali; questo doveva aver disposto l’anima sua a diffidenza e disistima per essi; perciò, quando fu interrogato da loro, si mostrò franco, e non mancò di ribatterli con una certa vivezza che rivela questo suo stato d’animo.
La sua vita era monotona; al mattino era accompagnato al tempio, e vi rimaneva a chiedere l’elemosina; a sera era riaccompagnato a casa. Raccoglieva spesso le espressioni pie dei pellegrini, o gl’insegnamenti dei dottori della Legge, e aveva una certa cultura religiosa, per la quale gli doveva essere familiare il sentenziare e anche l’ammonire. Era di indole buona, di natura semplice, di carattere espansivo, e timorato di Dio.
Passando vicino al cieco nato, i discepoli, considerandone l’infelicità e attribuendola a castigo di Dio, domandarono a Gesù: Rabbì, chi ha peccato, costui o i suoi genitori, da nascere cieco? Era infatti persuasione comune, tra i Giudei, che i mali fisici fossero mandati da Dio in punizione di peccati commessi, o che fossero castigo dei peccati dei genitori; ma i discepoli facevano una domanda insulsa, chiedendo se avesse peccato il cieco prima di nascere, perché questo sarebbe stato impossibile. Essi forse si confusero e, nel domandare se quella cecità fosse stata effetto di colpa, coinvolsero anche il cieco nella responsabilità. Gesù rispose che né quel poveretto né i suoi genitori avevano peccato, ma che quella cecità era stata disposta e permessa da Dio per manifestare, in quell’infelice, la sua potenza, la sua gloria e la realtà del suo Figlio Incarnato; Gesù, infatti, soggiunse che Egli doveva compiere le opere di Colui che lo aveva mandato e, con questo, mostrò chiaramente l’intenzione di guarire quel cieco.
Nonostante le minacce dei suoi nemici, e nonostante che quel miracolo li avrebbe più malignamente aizzati contro di Lui, Egli non avrebbe mancato di compiere quell’opera buona, e di dare un nuovo argomento della verità della sua missione. Era per Lui ancora giorno, cioè non era ancora giunta l’ora oscura della sua Passione, quando non avrebbe potuto compiere miracoli, volendo subirla fino all’estrema immolazione. Egli doveva ancora per poco rimanere nel mondo e, finché vi dimorava, voleva dare argomenti di luce a tutti i secoli, nonostante che i malvagi ne avrebbero preso motivo per odiarlo e per irrompere contro di Lui.
Gli scribi e farisei avrebbero voluto che Egli avesse taciuto per sempre e si fosse eclissato, rinunciando alla sua missione; ma Egli questo non poteva farlo, perché era la luce delle anime e la luce dei secoli. Aveva detto poco prima: Io sono la luce del mondo, e volle confermare questa grande e fondamentale verità con un miracolo d’illuminazione materiale, simbolo dell’illuminazione spirituale. Volle donare la vista a quel povero cieco, per significare la vista che voleva dare e che avrebbe dato alle anime; compì esternamente il miracolo che voleva compiere internamente, e si servì di un mezzo inadeguato, anzi contrario, perché si fosse capita l’importanza del mezzo del quale voleva servirsi per redimere il mondo, cioè l’umiltà e l’obbrobrio della croce.
Gesù non domandò al cieco se voleva essere guarito né il cieco lo supplicò di guarirlo: andò Egli stesso incontro al povero infelice, come Egli stesso veniva incontro all’uomo peccatore e, sputato in terra, fece con lo sputo un po’ di fango, impastando la polvere della strada, lo spalmò sugli occhi del cieco e gli comandò di andarsi a lavare alla piscina di Siloe.
Il Sacro Testo fa notare che Siloe significa mandato, perché questo nome aveva un significato mistico che ricordava precisamente Colui che doveva essere mandato, ossia il Messia.
La piscina o fontana di Siloe si trovava nella parte sud-est di Gerusalemme, fuori delle mura, tra il monte Ofel e il Sion; il cieco, per recarvisi, dovette essere accompagnato da qualcuno. Andò, si lavò e acquistò subito la vista.
Gli occhi del cieco si aprono e vedono…
Quale sorpresa dovette avere nel vedere la luce, e nel vedere quello che lo circondava! I ciechi nati si formano un concetto tutto soggettivo del mondo e delle cose che li circondano; non concepiscono proprio quello che non può essere oggetto del tatto, e che non può essere apprezzato da una loro esperienza. Certe cose sembrano loro più grandi della realtà, certe altre più piccole; possono concepire un monte come un semplice rialto, e un palazzo come un monte. A volte sembra loro di stare a grande distanza e credono immensa una strada, a volte un grande spazio sembra loro ristretto.
Il cieco si trovò in un mondo che non immaginava; si guardò attorno stupefatto, vide la strada per la quale era venuto, vide le case, ammirò i campi, volse lo sguardo al cielo, ne contemplò la magnificenza, sentì una nuova vita interiore, formata in lui dal riflesso di tutto ciò che vedeva e, poiché aveva il cuore buono, abituato alla preghiera dalle lunghe dimore fatte alla soglia del tempio, ritornò sui suoi passi per andare a ringraziare Dio. Che felicità sentiva a non andare a tentoni; che gioia a saper dove mettere il piede; che gioconda curiosità a notare tutti quelli che incontrava, a squadrarli da capo a piedi, a considerarne la bellezza o la bruttezza!
Era stato un povero schiavo di quanto lo circondava e si sentiva libero; era stato inceppato dalle tenebre e si sentiva come guidato dalla luce, nella quale godeva, quasi respirandola; era povero e si sentiva ricco, poiché gli sembrava d’essere venuto in possesso del mondo che percepiva e del quale godeva.
Psicologicamente quel fare franco e, se si può dire, un po’ spavaldo che ebbe con i giudici che dopo ripetutamente lo interrogarono, era conseguenza anche di quel senso di libertà e di padronanza che gli dava la vista acquistata. Egli vide, per la prima volta, quelli che aveva conosciuti per esperienza duri e sprezzanti e, potendoli squadrare nel loro volto arcigno, sospettoso e ipocrita, si sentì autorizzato a dar loro una lezione.
Ritornato sui suoi passi, egli dovette andare prima di tutto a dare la bella notizia ai suoi genitori, e fu subito notato dai vicini di casa che si stupirono a vederlo camminare senza guida. Lo guardarono con attenta curiosità e si scambiarono le loro impressioni mentre egli si avvicinava. Alcuni dicevano: Non è questi colui che stava a sedere, e cercava l’elemosina? Altri, vedendolo avvicinare, esclamavano: Sì è proprio lui; altri ancora, ai quali sembrava assurdo che potesse vedere, dicevano: No, è impossibile; forse è uno che gli somiglia. Egli poi, giunto nel crocicchio della gente che, incuriosita, già andava raccogliendosi, affermò con sicurezza che non ammetteva equivoci: Sono proprio io, ero cieco e ora ci vedo per misericordia di Dio. A quest’affermazione si accertarono che era lui, e crebbe in loro la curiosità di sapere come avesse avuto la vista, ed egli rispose: Quell’uomo che si chiama Gesù fece del fango, unse i miei occhi, e mi disse: Va’ alla piscina di Siloe e lavati. Sono andato, mi sono lavato e ci vedo. Chiamò Gesù quell’uomo perché non lo conosceva ancora, ma ne aveva sentito parlare, e la gente stessa non doveva essergli familiare, perché tutti gli chiesero: Dov’è quest’uomo? Ed egli rispose che non lo sapeva.
Un miracolo sconcertante, questo,
per i nemici del Signore
Tra la gente che s’era affollata c’erano alcuni che avevano autorità e, sentendo parlare di Gesù Cristo e del fango che aveva fatto in giorno di sabato, sembrando loro questo una violazione della legge, accompagnarono il giovane dai farisei, cioè innanzi al sinedrio, per far fare un’inchiesta accurata sul fatto.
Per i nemici del Salvatore quel miracolo era sconcertante, perché non poteva essere effetto d’illusione, e perché poteva avere una grande influenza sul popolo. Perciò cominciarono col volerne bene assodare le circostanze, nella speranza di trovarvi qualche punto debole per poterlo negare. Interrogarono perciò il giovane, per sentirsi ripetere com’era stato guarito, ed egli, già annoiato da tante domande, ripeté più sinteticamente il fatto, dicendo: Mise il fango sui miei occhi, mi lavai e ci vedo.
Parlò con tanta sicurezza che i farisei, in quel momento, non misero in dubbio la sincerità del racconto sulla guarigione, e cominciarono a discutere fra loro; i più ostili dicevano che Gesù non poteva essere da Dio, perché non osservava il sabato; altri, più temperati e logici, facevano riflettere che un peccatore non avrebbe potuto fare questo miracolo e gli altri, dei quali avevano conoscenza, perché Dio non avrebbe confermato l’inganno di un impostore. La discussione si animò talmente che ci fu scissura fra loro e, non potendo venire ad una conclusione, pensarono di approfondire meglio la questione, e domandarono al giovane che cosa egli pensasse di Colui che l’aveva guarito. Egli rispose: Io dico che è un profeta.
È profondamente psicologica la domanda dei farisei, e mostra tutto l’imbarazzo della loro mente e della loro coscienza; chi, infatti, è titubante in una questione grave sulla quale non sa decidersi, domanda anche ai più umili che cosa ne pensano, e spera di avere un argomento plausibile per attenersi alla risoluzione che, inconsciamente, più lo attrae.
Essi avrebbero voluto condannare Gesù, ma non osavano, e speravano che una parola di disprezzo che avrebbe potuto dire il giovane li avrebbe tolti d’impiccio. Forse furono alcuni di quelli meno sfavorevoli e più titubanti nella coscienza che rivolsero al giovane quella domanda, quasi oziosamente e indifferentemente, senza mostrare di volergli dare importanza, ma con la speranza di una testimonianza a loro favorevole. Il giovane si sentì lusingato, e rispose col tono di chi sta alla pari con chi lo interroga: Io dico che è un profeta. La risposta per i più scalmanati non aveva nessun valore giuridico: anzi il mostrarsi il giovane entusiasta di Gesù diede loro il pretesto per sospettare un trucco; misero in dubbio l’autenticità del fatto, e non vollero ammettere che proprio quel giovane fosse il cieco nato che chiedeva l’elemosina, senza prima chiamare e interrogare i suoi genitori.
Depongono i genitori
Dal contesto può rilevarsi che i messaggeri che andarono a chiamarli dovettero spaventarli con minacce, e avvertirli che, se avessero in qualunque modo parlato bene di Gesù, si sarebbero esposti ad essere espulsi dalla sinagoga; essi, perciò, assunsero un atteggiamento estremamente prudente, sapendo che l’essere espulsi dalla sinagoga equivaleva all’essere come scomunicati.
Introdotti innanzi al sinedrio, furono rivolte loro due domande, una per l’identificazione del giovane: È questo quel vostro figlio che voi dite essere nato cieco?, e un’altra per conoscere in qual modo fosse guarito: Come dunque ora ci vede? Le domande le fecero insieme, perché essi sapevano che quegli era il giovane, e premeva loro conoscere dai genitori com’era guarito, sperando di controllare, nel racconto, una qualunque contraddizione che potesse offrire loro il pretesto di condannare Gesù come un impostore. Frattanto, fecero uscire il giovane, per evitare qualunque intesa, fatta magari a cenni con i suoi genitori. Questi, cercando dissimulare la paura che avevano di trovarsi innanzi all’autorità, risposero con calma che sapevano benissimo che quel giovane era loro figlio, e che era nato cieco, ma ignoravano come ora vedeva e chi gli aveva aperto gli occhi; soggiunsero che il giovane aveva un’età sufficiente per dar conto di ciò che lo riguardava e che, perciò, avessero interrogato lui stesso che doveva saperlo. Con questo, uscirono dall’imbarazzo in cui erano, e furono licenziati.
Il miracolato con impeto difende Gesù
e mette in imbarazzo il sinedrio
Rimaneva, così, assodato giuridicamente che realmente quel giovane era stato cieco, e quindi che realmente era guarito.
I farisei, perciò, lo richiamarono in udienza con la speranza di farlo schierare contro Gesù, e quindi di far svalutare da lui stesso Colui che l’aveva guarito, o almeno di strappare dal suo labbro qualche contraddizione sul miracolo che ne avesse sfatato l’importanza. Avutolo davanti, cercarono di prenderlo con le buone, dicendogli: Da’ gloria a Dio, cioè: Di’ la verità, e pensa che si tratta della gloria di Dio, dovendosi smascherare un impostore; non ti far ingannare dal beneficio ricevuto, e non mentire se non sei un falsario anche tu e fingi una guarigione che non è mai esistita; noi sappiamo, infatti, che quest’uomo è peccatore. E volevano continuare e dire che, come tale, non aveva potuto fare quel miracolo; ma il giovane non li lasciò continuare e, urtato da quell’ingiuria rivolta al suo benefattore, li interruppe, dicendo: Se sia peccatore io non lo so; questo solo conosco che ero cieco e ora io vedo. E voleva dire: Voi affermate che è peccatore, e della vostra affermazione siete responsabili voi; io non lo so, cioè non lo ammetto, perché ero cieco e ora vedo; un peccatore non avrebbe potuto fare questo miracolo.
Siccome il giovane ricordava il miracolo avuto come argomento per negare che Colui che glielo aveva fatto fosse un peccatore, lo interrogarono nuovamente sul miracolo per tentare di svalutarlo, e per dimostrargli che Gesù aveva violato il sabato ed era veramente un peccatore; dissero perciò di nuovo: Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi? Domandarono prima che cosa avesse fatto, per dargli subito l’impressione della violazione del sabato. Ma il giovane, annoiato della nuova inquisizione sull’accaduto, disse con vivacità, come appare dal contesto: Già ve l’ho detto e l’avete ascoltato; perché volete sentirlo di nuovo? E, per pungerli sul vivo e per farli smettere, soggiunse: Volete forse diventare anche voi suoi discepoli? Ma essi, adirati al sommo, lo ingiuriarono e dissero in tono di disprezzo e di odio: Sii tu discepolo di costui; quanto a noi, siamo discepoli di Mosè. Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio, mentre costui non sappiamo di dove sia. L’odio stesso che avevano per Gesù, li fece scendere a competizione con quel giovane, il quale cominciò a discutere con loro alla pari, e disse: Qui appunto sta la stranezza che voi non sapete di dove Egli sia, eppure mi ha aperto gli occhi. E voleva dire: Agisce tanto soprannaturalmente per virtù di Dio che senza far capo a voi o aver da voi l’approvazione, ha operato un miracolo così strabiliante. Dunque ha un’autorità e una potenza superiore a voi. Voi affermate che è un peccatore, ma noi sappiamo bene che Dio non ascolta i peccatori per confermare la loro malvagità o le loro imposture; ascolta operando cose straordinarie solo chi lo onora e fa la sua volontà. Dacché mondo è mondo non si è udito dire che alcuno abbia aperto gli occhi ad un cieco nato. Se questi non fosse da Dio, non avrebbe potuto far nulla. Rosso in volto, concitato, entusiasta, senza riflettere più a quelli che lo interrogavano come giudici, il giovane si accalorò nella discussione e diede una solenne lezione a quegli ipocriti.
Alcuni hanno affermato che egli non parlasse in modo giusto dicendo che Dio non ascolta i peccatori, ma questo è falso, perché se Dio ascolta anche le preghiere dei peccatori, non li ascolta quando pretendono che Egli avalli con miracoli le loro malvagità. L’argomentazione era quindi stringata e, poiché Dio aveva operato quel miracolo per glorificarsi in quell’infelice e manifestare in lui le opere sue, noi crediamo che il giovane parlasse per impulso di grazia, e che il Signore umiliasse, così, la superbia del sinedrio. In fondo, il ragionamento del giovane era quello che avrebbero dovuto fare i giudici che lo interrogavano: ciò che compie questo uomo è straordinario e miracoloso, cioè suppone l’intervento di Dio. Ora, il Signore non interverrebbe se Egli fosse un peccatore, violatore della Legge; dunque quest’uomo è da Dio e, senza di Dio, non potrebbe far nulla di ciò che fa.
Nell’ascoltare quella vivacissima difesa che il giovane fece di Gesù, gli scribi e farisei montarono su tutte le furie e, non potendogli rispondere direttamente perché a corto di argomenti, lo vituperarono, dicendo: Sei tutto un impasto di peccati e pretendi d’insegnare a noi? Con questa ingiuria sanguinosa lo cacciarono fuori, ossia probabilmente gli applicarono la scomunica, per impedirgli di propagare il miracolo avuto o per togliere ogni prestigio alla sua testimonianza.
Gesù dona al giovane miracolato la «vista»
dell’anima e gli si rivela Figlio di Dio
Il fatto produsse grande scalpore per la notorietà del giovane guarito, e ci fu chi andò a riferirlo a Gesù. Il Redentore ne fu addolorato e, avendo dato a quell’infelice la vista del corpo, volle dargli anche quella dell’anima, illuminandolo pienamente. Quel giovane lo credeva un profeta, ed era necessario che lo riconoscesse per Figlio di Dio; l’aveva confessato e difeso come santo e doveva confessarlo e adorarlo come Santo dei Santi; perciò, incontratolo, gli disse: Credi tu nel Figlio di Dio? Ed egli rispose: Chi è, Signore, perché io creda in Lui? Aveva la volontà di credere, ma gli mancava la luce, come prima voleva vedere fisicamente e gli mancavano gli occhi. Gesù Cristo, illuminandolo interiormente con un grande fulgore di grazia, gli disse solennemente:
Lo hai visto, Colui che parla con te è proprio lui.
Il giovane lo guardò, ne vide in quello sguardo la maestà, ne sentì la potenza, ne riconobbe la gloria; si sentì l’anima tutta piena di soave unzione, sentì nel cuore una gran fiamma d’amore, esultò nello spirito, si sentì come schiacciare dalla grandezza di Colui che gli parlava, si prostrò fino a terra e, adorandolo come Dio, disse: Credo, o Signore.
I farisei a Gesù, ironicamente:
«Siamo forse ciechi»?

Quelli che lo circondavano, al vedere quel profondo atto di adorazione, rimasero meravigliati, perciò Gesù soggiunse: Io sono venuto in questo mondo per fare un giudizio, affinché quelli che non vedono vedano, e quelli che vedono diventino ciechi. E voleva dire: Voi vi stupite? Gli orgogliosi, gonfi della loro sapienza che credono di vedere, rifiutano la verità e diventano interiormente ciechi; gli umili, invece, che vengono a me con semplicità, vedono la luce di Dio, ricevono la fede e si salvano. Io, così, divento per gli uni tenebre e per gli altri luce. Egli voleva scuotere i farisei che erano con Lui, ma essi se ne offesero e soggiunsero: Siamo forse ciechi anche noi? Essi si credevano illuminati, scienziati, dottori della Legge, perfetti, e dissero ironicamente: Vuoi trattare da ciechi anche noi che siamo luce d’Israele? E Gesù rispose con profondo dolore: Oh, foste voi ciechi, ossia foste veramente accecati in buona fede nel rinnegarmi e nel rifiutare la luce della verità! Voi allora non avreste sull’anima il peccato. Ma perché affermate di vedere, agite in malafede, rinnegate con malizia la verità, e rimanete nel peccato.
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 22 marzo 2014

Gesu' incontra la samaritana

Commento al Vangelo: III domenica di Quaresima 2014 A (Gv 4,5-42)

Gesù incontra la samaritana
Camminando, Gesù giunse in una città chiamata Sicar, identificata oggi con Askar, non lontana da Sichem, chiamata Napoli, capitale della Samaria, e si fermò presso il pozzo famoso, scavato da Giacobbe, nella tenuta lasciata in eredità al figlio Giuseppe. Sedette così, alla buona, come indica il testo greco, dissimulando la sua maestà, umilmente, preso da un sentimento di compassione per le anime. Era quasi l’ora sesta, nota l’evangelista, cioè quasi mezzogiorno. Per questa circostanza di tempo, e per le altre particolarità del racconto, alcuni suppongono che san Giovanni sia stato presente alla scena. Gli altri discepoli, però, erano andati in città per comprare qualcosa da mangiare, ed erano certamente assenti.
Mentre Gesù stava pensoso e raccolto nei pressi del pozzo, ecco una donna samaritana, con l’anfora in testa, che veniva ad attingere. Veniva da lontano perché l’acqua fresca e sorgiva del pozzo l’attirava, e molto più l’attirava la grazia che con delicata disposizione d’amore la spingeva ad andare là dove avrebbe trovato la salvezza.
Gesù Cristo le rivolse la parola e le disse: Dammi da bere. Dal vestito che indossava e dalla pronuncia delle parole, la donna si accorse subito che Egli era un Giudeo e, meravigliandosi che le domandasse da bere, perché i Giudei aborrivano i Samaritani, gli disse: Come mai tu che sei un Giudeo, chiedi da bere a me che sono samaritana? Psicologicamente, non osò dire la frase opposta: Come posso darti da bere se tu sei un Giudeo? perché sentiva, inconsciamente, la propria inferiorità innanzi a Gesù, e perché quel volto divino e bellissimo, dai lineamenti regali e dall’occhio splendentemente ceruleo, l’aveva già conquisa. Proprio perché peccatrice, la poveretta aveva un profondo senso di umiliazione interiore che le facilitò il non considerare Gesù col solito disprezzo dei Samaritani, e il guardarlo con rispettosa venerazione.
Era ancora lontana dal supporre chi Egli fosse, ma si accorse subito di trovarsi innanzi ad un giusto. La santità spirava da Lui, ed ella si sentì meschina. Dimenticando quindi la fierezza con la quale i Samaritani sprezzavano i Giudei, si stupì piuttosto che quel Giudeo le domandasse da bere. È una sottigliezza psicologica che ci fa capire il processo misericordioso della grazia nel convertirla.
Gesù le rispose con infinita amabilità: Se tu conoscessi il dono di Dio, e chi è Colui che ti dice: Dammi da bere, tu stessa gliene avresti chiesto, ed Egli ti avrebbe dato l’acqua viva. Con queste parole cercò rendere cosciente il sentimento subcosciente di devozione e di umiltà che era sorto nella donna, e volle cominciare a farle intendere che ella si trovava innanzi ad un essere non semplicemente buono, ma straordinario. La donna prese le parole alla lettera, e vedendo che Gesù mancava dell’anfora o hauritorium che portavano i viaggiatori per poter attingere acqua lungo il cammino, avendola portata con loro gli apostoli, rispose: Signore, tu non hai come attingere, e il pozzo è profondo; dove hai tu dunque l’acqua viva? Gli Ebrei chiamavano acqua viva l’acqua di sorgente, in contrapposizione all’acqua stagnante; la donna, però, aveva sentito nell’anima, in quella promessa dell’acqua viva, qualche cosa che non era propriamente l’acqua del pozzo; inconsciamente e forse anche coscientemente, aveva sentito che si trattava di un dono e non dell’acqua. Essendo molto scaltra, però, come si rileva da tutto il racconto, volle indagarlo senza mostrare d’averlo capito, affinché Gesù stesso glielo avesse spiegato. Perciò lo pose in contrapposizione col patriarca Giacobbe che aveva scavato quel pozzo, e gli domandò, dissimulando la propria impressione: Sei tu forse di più di Giacobbe nostro Padre, il quale diede a noi questo pozzo, e ne bevve egli stesso, i suoi figli e il suo bestiame?
La donna porta spesso nei suoi atti una sconcertante vanità, anche quando si trova in momenti penosi della sua vita. Se si osserva, per esempio, un drappello di donne reclutate per la guerra, esse hanno nelle loro movenze, nei loro gesti, nel loro sguardo qualche cosa che pretende d’interessare.
Questa vanità nasce o dalla presunzione del suo ingegno o da quella della sua bellezza o, peggio, dalla persuasione di poter sconcertare una testa più o meno di zucca.
La samaritana, avendo avuto cinque mariti, e convivendo con uno che non le apparteneva, aveva dovuto essere un tipo interessante dal punto di vista materiale, ed era abituata a sentirsi corteggiata. Non è improbabile che, almeno inconsciamente, le sia passato nell’animo che quel forestiero giudeo cercasse modo d’intavolare un discorso con lei, per passatempo; perciò Gesù la sollevò subito ad un pensiero di cielo, mostrandole così che parlava per un fine spirituale: Chi beve di quest’acqua disse , tornerà ad aver sete, chi invece beve dell’acqua che io gli darò non avrà più sete in eterno; anzi l’acqua che gli darò, diventerà in lui una sorgente d’acqua zampillante fino alla vita eterna.
Un accenno così improvviso all’eterno orizzonte dei cieli, per una donna di facili costumi, era una stonatura. «Dove andava il suo interlocutore – dovette pensare –, col suo discorso? Che cos’è l’acqua spirituale che disseta e porta al Cielo, se viviamo di senso e ci dissetiamo solo ai piaceri?». Perciò prendendo in giro il suo interlocutore, rispose con evidente ironia, per stornare il discorso da un argomento che la scottava: Signore, dammi di quest’acqua, affinché io non abbia più sete né venga più ad attingerne. Parlò così per evitare un discorso spirituale che le suscitava rimorsi, e Gesù con un lampo divino di luce la richiamò proprio alla considerazione dello stato deplorevole della sua vita disordinata, dicendo: Va’, chiama tuo marito e torna qua. La donna ne fu sconcertata, perché la parola di Gesù le penetrò in fondo all’anima; ma, dissimulando il suo turbamento, rispose con aria indifferente: Io non ho marito. E Gesù, mostrando di conoscere appieno la vita di lei, soggiunse: Hai detto bene: Non ho marito, perché hai avuto cinque mariti, e quello che hai adesso non è tuo marito; in questo hai detto il vero. Se aveva detto il vero allora, è chiaro che prima, domandando l’acqua dissetante, aveva mentito, ed aveva parlato solo per ironia.
Signore, vedo che sei un profeta,
ma… la questione del tempio…
Il discorso aveva preso per la donna una piega sconcertante; ella, scaltramente, cercò di deviarlo, portando Gesù su un argomento che per un giudeo doveva essere scottante, e doveva attrarne tutta l’attenzione. Ella, però, non poté trattenersi da un’espressione di meraviglia per quello che le aveva detto e, per non mostrarsi inceppata o confusa, esclamò, quasi per fargli un complimento: Signore, vedo che sei un profeta. Era un’espressione ambigua, con la quale non affermava né negava quello che Gesù le aveva detto; era una lode che poteva pure significare: «Tu parli come un profeta, vuoi indovinare ciò che è in me, vuoi scrutarmi». Per una samaritana, infatti, un profeta non era che un indovino, poiché quel popolo viveva di superstizioni. Se ella avesse avuto un vero sentimento di stima soprannaturale per Gesù, e se fosse stata compunta nel suo cuore, avrebbe domandato perdono dei propri peccati, e lo avrebbe supplicato ad ottenerglielo da Dio.
Sviando dunque il discorso, la donna soggiunse: I nostri padri hanno adorato Dio su questo monte, e voi dite che il luogo dove bisogna adorare è Gerusalemme. Dicendo questo, ella, inconsciamente, prendeva una rivincita per l’umiliazione subita nel vedersi svelate le proprie colpe. Non domandò, infatti, a Gesù la soluzione della gravissima questione, ma parlò come chi è sicuro di aver ragione, quasi per dire: «Ecco, voi dite che bisogna adorare in Gerusalemme, mentre i nostri padri hanno adorato qui il Signore».
A poca distanza di là, a Sichem, Abramo aveva eretto al Signore della promessa e della rivelazione un altare (cf Gen 12,6-7); Giacobbe vi aveva pregato, e Giosuè aveva eretto un altare sulla cima del monte Ebal, immolandovi numerose vittime (cf Gs 8,30). Sul monte Garizim, poi che sorge presso il pozzo di Giacobbe, al tempo di Neemia, i Samaritani, visto rifiutato dai Giudei il loro concorso all’edificazione del tempio di Gerusalemme, ne edificarono un altro, distrutto poi dal sommo sacerdote Giovanni Ircano I, e da allora riguardarono sempre il Garizim come centro del loro culto.
La samaritana, perciò, lungi dal domandare a Gesù la soluzione del problema, credé di poter affermare che l’opinione dei suoi connazionali era fondata su valide ragioni, e che i Giudei erravano.
Adorerete il Padre in spirito e verità
Il Signore, aprendole un nuovo orizzonte, rispose con grande maestà: Credimi, o donna, che è venuta l’ora in cui né su questo monte né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quello che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene il tempo, anzi è proprio ora, in cui veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità. Tali adoratori, infatti, il Padre ricerca. Dio è spirito e quelli che l’adorano lo debbono adorare in spirito e verità.
Questo discorso non era solo per quella donna ma per tutti quelli ai quali sarebbe stato annunciato, e troncava dalle fondamenta la questione tra Samaritani e Giudei. Non era il luogo, infatti che poteva dar valore all’adorazione fatta a Dio da un’anima, ma era lo spirito col quale si faceva.
Per adorare Dio bisogna conoscere la verità, accettarla, crederla, praticarla, e proclamarne la gloria. Andare al Garizim o a Gerusalemme non significava conoscere, apprezzare e amare Dio.
I Samaritani, infatti, accettavano solo il Pentateuco e rifiutavano il resto dei Libri Sacri; avevano una rivelazione incompleta, e ignoravano Colui che adoravano; i Giudei riconoscevano, invece, tutte le Scritture, e avevano, almeno teoricamente, tutto il sacro patrimonio. Essi, poi, soprattutto, erano eredi della grande promessa del Redentore che da essi doveva nascere. L’argomento era fortissimo e non ammetteva repliche: se i Giudei avevano tutta la rivelazione e da essi doveva nascere il Redentore, i Samaritani non potevano presumere di essere ad essi superiori, e tanto meno che possedessero il privilegio unico di adorare Dio.
Ma v’è di più – soggiunse Gesù –, poiché non si tratta neppure di vedere se si debba adorare in un luogo o in un altro né di attribuire ad un popolo solo il privilegio della conoscenza e dell’adorazione di Dio; è venuto già il tempo del regno universale di Dio su tutta la terra, il tempo nel quale si adorerà Dio come Padre di tutti gli uomini, in spirito e verità, cioè con adorazione interna, oltre che esterna, fondata non su di un semplice rito, ma sulla verità, poiché questo solo onora Dio che è spirito infinitamente esistente, infinita verità e infinito amore. Finisce l’adorazione simbolica e figurata, in altri termini, fatta con riti che annunciavano solo il futuro e figuravano la vera Vittima, e comincia l’adorazione vera, fondata sul compimento delle figure, dei simboli e della grande promessa.
Gesù Cristo non voleva condannare il culto esterno – com’è evidente dal contesto –, ma voleva contrapporre, al culto divino puramente esterno e simbolico, quello interno e reale, ai riti freddamente legali l’adorazione fatta per mezzo di Lui, eterna sapienza, e dello Spirito Santo, eterno Amore. Dio è Spirito infinito – volle dire Gesù –, e l’adorazione che richiede e gli è proporzionata è quella che gli viene per il Verbo Incarnato e per lo Spirito Santo; non bisogna, dunque, credere che il Garizim o Gerusalemme possano avere il privilegio di essere unici centri di adorazione, ma bisogna unirsi al Redentore e con Lui nello Spirito Santo, adorare Dio.

Il modo come Gesù parlò fu così solenne e luminoso che la donna cominciò a vedere in Lui un essere straordinario. Anche i Samaritani aspettavano il Messia, da essi chiamato il Taheb, cioè colui che ristabilisce e a lei venne il sospetto che potesse essere proprio Lui; per accertarsene disse, quasi nel tono indifferente di chi chiude una discussione: Io so che viene il Messia; quando, dunque, Egli verrà ci annuncerà ogni cosa. Gesù le disse in un fulgore di luminosa verità che dava alle sue parole l’accento della certezza più assoluta: Sono io che ti parlo

Don Dolindo Ruotolo

mercoledì 19 marzo 2014

Gesù ritrovato nel tempio

Commento al Vangelo – San Giuseppe Sposo della B.V.M.  (Lc 2,41-51)
Gesù ritrovato nel tempio
Ogni anno Maria si recava con san Giuseppe a Gerusalemme per la solennità della Pasqua, benché, essendo donna, non vi fosse obbligata; gli uomini dovevano andarci tre volte l’anno: nella Pasqua, nella Pentecoste e nella festa dei Tabernacoli; le donne ne erano dispensate, e solo le più pie vi si recavano nella Pasqua; i fanciulli, poi, contraevano questi obblighi legali all’età di dodici anni. Maria, andando a Gerusalemme, portava con sé anche Gesù, ma quando Egli giunse all’età legale, dovette farlo viaggiare nella comitiva degli uomini, com’era d’uso, e fu così che al ritorno non si accorse che Egli era rimasto a Gerusalemme. Crederono, tanto Lei che san Giuseppe che fosse in mezzo agli altri, e camminarono una giornata. Alla prima sosta, però, constatarono che mancava e lo cercarono inutilmente tra i parenti e i conoscenti. Col cuore estremamente angosciato, allora, ritornarono a Gerusalemme e, per ritornarvi, impiegarono un altro giorno; non sapendo come rintracciarlo, stettero un giorno intero a farne ricerche, e nessuno seppe dare loro indicazioni perché non lo conoscevano. Finalmente il terzo giorno andarono al tempio, forse per supplicare Dio di farlo ritrovare loro e, attraversando le sale annesse all’edificio sacro, dove i rabbini si radunavano per insegnare la Legge, riconobbero la voce dell’amatissimo Figlio che in mezzo ai dottori stava seduto come un discepolo, ascoltandoli e proponendo loro varie questioni.
È impossibile formarsi un’idea del dolore di Maria e di Giuseppe nello smarrimento di Gesù; bisognerebbe poter misurare l’amore che gli portavano. Erano angosciati, agonizzavano, temevano di aver provocato essi quell’allontanamento per la loro indegnità, trepidavano per la sua incolumità, gemevano nella maniera più straziante.
Gesù era tutta la loro vita, e l’anima loro era straziata senza di Lui. Che cosa furono quei giorni di ricerche! Non persero la pace, perché erano santissimi; ma persero, potrebbe dirsi, il cuore, perché se lo sentivano straziato. Gesù Cristo conosceva il loro strazio, ma permise quella terribile prova per santificarli di più e per esempio di tutti. Il suo Cuore divino ne soffriva più di loro ma, nel momento nel quale Egli iniziava la sua vita legale, per compiere la sua opera, era necessaria una grande immolazione d’amore che rendesse l’uomo degno di accogliere il suo amore.
La spaventosa indifferenza delle creature per ciò che appartiene a Dio, e l’agitazione del mondo nelle miserie delle sue stupide attività, tutte orientate alla materia, esigevano quell’agonia di due anime tese solo a Dio e viventi solo per Dio. La terribile resistenza che fanno tanti cuori alle chiamate di Dio, preferendo i loro disegni alla sua volontà, esigeva il sacrificio che Gesù faceva del suo amore a Maria e a Giuseppe, come riparazione e come preparazione ad accogliere il disegno della divina volontà. Egli doveva affermare il diritto di Dio sulla gioventù, speranza della vita delle nazioni, doveva distruggere d’un colpo le pretese delle tirannidi sui cuori che appartengono solo a Dio, doveva dare una luce che non doveva spegnersi più, sull’educazione dei figli e sulla loro vocazione, ed ebbe bisogno di un grande dolore per affondare nel duro cuore dell’umanità questa semente di vita. Se avesse prevenuto Maria e Giuseppe delle sue intenzioni, non avrebbe conseguito l’altissimo scopo che voleva conseguire; fece, dunque, forza al suo Cuore, si appartò, ritornò al tempio, e schiuse la sua mente agli insegnamenti della Legge, per insegnare ai giovani ad aprire la loro vita a Dio, e a seguire, senza riguardi umani, le ispirazioni particolari della divina volontà su di loro.
A dodici anni Gesù era ben sviluppato, a giudicare dalla statura che raggiunse nell’età matura. Era di forme perfettissime, bellissimo, splendente, affascinante. La sua chioma intensa, come quella dei Nazirei, gli scendeva sulle spalle, e incorniciava il volto come in un’aureola di gloria. I suoi bellissimi occhi rivelavano il mistero divino che in Lui si nascondeva, avevano un’espressione arcana e una luce ineffabile; penetravano, per così dire, i cuori. Entrò nella sala dov’erano i dottori e sedette, ascoltandoli. Il suo Cuore si saziava della divina Parola, e ardeva per la gloria del Padre. Attrasse subito l’attenzione di tutti, poiché, interrogato, diede risposte profondissime e fece domande che stupirono tutta l’assemblea. Di che cosa parlò? Il Sacro Testo non ce lo dice, ma si può supporre che parlasse della pienezza dei tempi e del Messia, e parlasse del suo Padre celeste, come potrebbe rilevarsi dalla risposta che diede a Maria. Parlò di Dio, e per la prima volta sulla terra echeggiò una parola divinamente luminosa fra tante tenebre che gravavano sugli uomini.
Maria e Giuseppe entrarono nel sacro recinto, e furono stupiti che Gesù si fosse manifestato così al pubblico. Il suo amore al nascondimento era così profondo che non lo credevano possibile. Forse si stupirono che fra tanto loro dolore Egli si fosse mostrato insensibile, sapendo quanto era affettuoso e amabile. Maria non poté frenare il suo amore materno; corse là dove stava il Figlio, lo interruppe nel suo discorso ed esclamò: Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco che tuo padre ed io, addolorati, andavamo in cerca di te.
Tutto il suo dolore era espresso in queste poche parole: lo chiamò figlio, e con questo disse che lo cercava da madre, e da Madre divina; gli domandò perché aveva fatto quella cosa, e con questo manifestò tutte le trepidazioni angosciose del suo Cuore e di quello di san Giuseppe; espresse la pena immensa con la quale l’aveva rintracciato, e con questo espresse l’amore che aveva reso un’agonia il suo materno affanno e quello di san Giuseppe.
Gesù Cristo non rispose duramente, come potrebbe apparire dal Testo; noi, abituati ad adirarci quando siamo contraddetti e leggendo l’episodio con passionalità, possiamo facilmente essere indotti a dare un senso di durezza alla risposta di Gesù; Egli, invece, rispose con immensa dolcezza, e con infinita compassione al loro dolore: Perché mi cercavate? Non sapevate che io debbo occuparmi di ciò che riguarda il Padre mio? Se avessero riflettuto all’amore che portava loro e alla missione che aveva, non avrebbero dubitato del suo affetto, ed avrebbero capito che si era trattenuto al tempio. Egli voleva dire: come potevo trascurarvi, e come potevo non tener conto del vostro dolore? Ma lo sapete che io sono Figlio di Dio, e potevate supporre che io fossi attratto dalla Casa del Padre mio e dagl’interessi della sua gloria.
Il Sacro Testo soggiunge che essi non compresero quello che aveva detto loro, non perché non fossero in grado di capire le sue parole, ma perché l’emozione e l’amore li concentravano in Lui solo. Era così bello nel sacro recinto, così fulgente d’amore nelle sue parole, così profondo nelle sue risposte che essi rimasero come incantati, e non rifletterono alle sue parole. Tardava loro solo il momento di averlo di nuovo, e per questo il Testo soggiunse: Se ne andò, quindi, con loro, e fece ritorno a Nazaret, ed era loro sottomesso. Non fecero attenzione alle sue parole, dunque, perché lo invitarono a non lasciarli più soli; ed Egli, infatti, immediatamente obbedì.
Se avesse risposto per rimproverarli non li avrebbe seguiti, e avrebbe continuato a parlare, invece tacque all’istante; la voce materna era per Lui un comando e doveva esserlo sempre; per questo Maria, passando dall’impeto del suo amore ad un sentimento di profondissima umiltà, meditava nel suo Cuore quello che si era svolto, e il mistero dell’amore che Egli le portava. Egli le obbediva, Egli il Figlio vero del Padre! La sua Maestà divina si piegava innanzi alla sua Parola! Tutt’altro che mostrare noncuranza o trattarla male, come dicono i protestanti, Egli lasciava di occuparsi del Padre suo divino per occuparsi della Madre, e mostrava che l’amava d’uno stesso amore, e che per Lui il consentire a ciò che Lei voleva era lo stesso che glorificare Dio suo Padre.
Ritiratosi a Nazaret, Gesù vi rimase nascosto fino a che non cominciò la sua vita pubblica. Che cosa faceva nel suo arcano nascondimento? Evidentemente si occupava delle cose del Padre suo, cioè della sua gloria, e se ne occupava umiliandosi, obbedendo e lavorando. Il Sacro Testo dice che Egli cresceva in sapienza, in statura e in grazia presso Dio e gli uomini, e da queste poche parole si può intuire qualche cosa del mistero di quella vita divina: cresceva in sapienza non perché studiasse, ma perché manifestava sempre più gli arcani della sua scienza beata e infusa, e meditava con la scienza acquisita, cioè con l’energia della sua anima umana, le divine meraviglie, parlandone con la Madre, con san Giuseppe e con altre persone familiari. Era logico che facesse così, perché Egli voleva innalzare e nobilitare in sé la natura umana, e non c’è cosa più nobile quanto il meditare le meraviglie celesti.
Cresceva in statura perché l’età si avanzava, ed Egli, essendo veramente anche uomo, lo mostrava in tutta la sua vita. Aveva però, nella sua statura, cioè nel suo aspetto fisico attrattive mirabili che colpivano quanti lo vedevano, e quindi cresceva in queste attrattive come cresce il sole a misura che sale sull’orizzonte. Cresceva in grazia non secondo l’abito che era in Lui perfetto e immutabile, ma secondo gli effetti, compiendo sempre più opere mirabili che ne manifestavano la pienezza. Presso Dio la sua vita era un’offerta sempre più grande, presso gli uomini era una manifestazione sempre più bella; a Dio donava gli atti della vita che progrediva e, seguendo lo sviluppo naturale, cresceva in questi doni d’amore; agli uomini dava lo spettacolo di una grandezza sempre più attraente per la sua bontà e soavità.
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 15 marzo 2014

Un saggio della divina gloria di Gesù Cristo

Commento al Vangelo: II domenica di Quaresima 2014 A (Mt 17,1-9)

Un saggio della divina gloria di Gesù Cristo
Il programma proposto da Gesù ai suoi seguaci: rinnegarsi e prendere la croce, aveva dovuto abbattere non poco gli apostoli, e perciò Egli, nella sua carità infinita, volle sollevarne lo spirito, con una manifestazione gloriosa che doveva imprimersi nella loro mente per i giorni tristi che sarebbero venuti.
Partendo dai pressi di Cesarea di Filippo, giunse alle falde di un monte che la tradizione individua nel Tabor e, presi con sé i suoi apostoli prediletti, Pietro, Giacomo e Giovanni, ascese alla sua cima, elevata a 780 metri sul lago di Genesaret e a 400 sulla pianura di Esdrelon. Non prese con sé tutti gli apostoli, perché avrebbero fatto pubblicità inopportuna, ma volle solo tre testimoni affinché avessero potuto sostenere la fede vacillante negli altri apostoli, scossa dalla continua propaganda ostile degli scribi e farisei.
Dal modo come san Luca narra l’avvenimento, si rileva che dovette avverarsi nella notte (cf Lc 9,28ss); Gesù era infatti salito sul monte per pregare, ciò che faceva di notte, e ne discese il giorno dopo, passando la notte sull’altura. Le tenebre e la solitudine diedero all’avvenimento un maggiore risalto. Il Redentore si mise in orazione, e si raccolse tutto nella gloria del Padre. L’anima sua, attratta dalla divinità, si trovò in piena visione beatifica, e il Corpo fu reso glorioso dalla luce divina. L’ineffabile purezza di quel Corpo divino non offrì neppure il più piccolo ostacolo alla luce eterna che tutto l’avvolgeva, lo penetrava e lo rischiarava, di modo che fu tutto luce e splendore. Il volto divenne come sole, in un’ineffabile espressione di gloria e le vesti per la gran luce che emanava dal corpo, si fecero bianche come la neve o, come dice il testo greco, come la luce. Era uno spettacolo grandioso, ineffabile che rapiva l’anima, e la trasfondeva tutta di pace, di godimento e d’amore.
I tre apostoli – come nota san Luca –, prima aggravati dal sonno, si svegliarono certamente allo splendore di quella luce divina, videro due personaggi che discorrevano con Gesù e, per divina ispirazione, riconobbero in essi Mosè ed Elia.
Furono presi da timore e subito dopo da una gioia interiore così grande che non sapevano esprimerla.
Psicologicamente, nelle grandi gioie che danno all’anima un senso di riposo e di raccoglimento, la fantasia si accende e fa progetti per conservare o accrescere il benessere che si prova. Gli apostoli si voltarono intorno, videro giù le oscure valli e d’ogni parte le tenebre, ebbero orrore del mondo nel quale vivevano e pensarono subito di voler rimanere sempre in quella felicità.
Si scambiarono certamente delle parole, perché nelle grandi sorprese, ognuno crede che chi gli sta vicino non se ne renda abbastanza conto, e ci tiene a manifestare le proprie impressioni, e a tener desta l’altrui attenzione.
Scambievolmente si additavano lo splendore di quella gloria, e scambievolmente si dicevano di non volere ad ogni costo staccarsene; perciò san Pietro, parlando a nome di tutti, si avvicinò a Gesù e gli disse: Signore, è buona cosa per noi stare qui; se vuoi, facciamo qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia.
Egli non sapeva quello che diceva – dice san Luca –, e difatti le sue parole erano povere e inceppate, come lo sono sempre in una grande emozione di gioia, e innanzi ad una grande maestà. San Pietro avrebbe voluto dire tante cose e non sapeva quello che dovesse dire; voleva esprimere tanti progetti di felicità stabile, e non seppe proporre che l’erezione di tre tende. È profondamente psicologico, poiché, nelle grandi emozioni, i progetti della fantasia, quando si esprimono, sfumano e di tutta una ridda d’immagini che sembrano grandiose, non rimane che l’espressione di un semplice desiderio rozzamente manifestato. I progetti della fantasia sfumano come un sogno che si dilegua e la parola diventa anche più povera, non sapendosi adeguare a ciò che è già di per sé inafferrabile.

Questo è il mio Figlio diletto: ascoltatelo
Mosè ed Elia conversavano con Gesù e – come dice san Luca –, parlavano della sua dipartita dal mondo tra i dolori amarissimi della Passione. Essi rappresentavano la Legge e i Profeti, e parlavano del compimento di ciò che avevano predetto e figurato. Non è detto nel Vangelo se gli apostoli ascoltarono questi discorsi; è possibile, e in questo caso può credersi che san Pietro abbia proposto di rimanere stabilmente su quel monte non solo per conservare quella felicità, ma anche per sfuggire alle insidie di morte che si preparavano a Gesù Cristo. Egli non sapeva quel che dicesse, non potendo penetrare nel disegno del Signore. Avrebbe voluto dirigere gli eventi e prevenire quelli futuri, senza capire che doveva farsi guidare dalla parola del Redentore. Dio stesso, perciò, si degnò rispondere alle ansietà degli apostoli; una nube luminosa avvolse Gesù, Mosè ed Elia, e dalla nube, che era segno della presenza di Dio, si sentì la voce placida, solenne e grandiosa del Padre che disse: Questi è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto: ascoltatelo. Non si trattava dunque di fare progetti, ma di seguire il Figlio divino e ascoltarlo. Quelle parole furono piene di tanta maestà che i tre apostoli caddero bocconi per terra e furono presi da un gran timore. La sublime visione era terminata, e Gesù li scosse e li esortò a non temere. Essi alzarono gli occhi e videro solo Gesù, ritornato come prima, nelle sue umili apparenze.
Albeggiava e cominciarono a scendere dal monte; sorse anche il sole, ma quella luce dovette sembrare loro un’ombra di fronte a quella che avevano vista. Ferveva in loro il desiderio di raccontare l’accaduto e può supporsi che facessero uno speciale progetto di confondere gli scribi e farisei.
La loro fede, infatti, si era accresciuta, ed essi, nel loro cuore, l’avevano ora ben salda; si stupivano come gli scribi dicessero che prima del Messia doveva venire Elia, e ne domandarono spiegazione. Gli scribi, per dimostrare alle turbe che Gesù Cristo non era il Cristo, affermavano recisamente che doveva essere preceduto da Elia, secondo le profezie. Gli apostoli, certi ormai della verità, domandarono come gli scribi avessero potuto fare quella affermazione. Gesù Cristo, leggendo nei loro cuori l’ansia di parlare dell’avvenimento grandioso della trasfigurazione, lo vietò loro fino a dopo la sua risurrezione. La divulgazione di un fatto così importante, per il malanimo degli scribi e farisei, sarebbe servita solo ad aumentarne l’ostilità e li avrebbe resi maggiormente rei.
Ad essi, come a gran parte del popolo, ignorante e prevenuto, sarebbe apparsa una fiaba, e si sarebbe così svalutato un dono di Dio. La parte del popolo che ci avrebbe creduto, si sarebbe abbandonata a dimostrazioni politiche, rendendo vano, in tante anime, il disegno di Dio, e concentrandole in una falsa aspirazione temporale. Gesù, dunque, volle che non se ne parlasse se non quando la gloria inoppugnabile della risurrezione l’avesse reso non solo credibile ma salutare per le anime.
Rispondendo poi alla domanda degli apostoli riguardante Elia, Gesù Cristo distinse due venute del profeta: una alla fine del mondo per restaurare tutto e vincere l’anticristo, e una mistica e simbolica in un grande santo che avrebbe preparato a Lui la strada nello spirito di Elia. Questa seconda venuta s’era già realizzata in san Giovanni Battista, austero e forte come Elia, e martire come lui. Il popolo non lo riconobbe, e gli scribi e farisei lo ostacolarono in tutti i modi, come ostacolavano Lui stesso, tendendogli insidie e desiderandone la morte. Se non avevano riconosciuto il Battista, e non avevano ascoltato la sua voce, pur avendo essa tanto prestigio, come avrebbero potuto credere alla gloria della trasfigurazione?
In quel momento non c’era da pensare che alla Passione e Morte, unica via scelta dalla Provvidenza per la redenzione degli uomini.
Don Dolindo Ruotolo

sabato 8 marzo 2014

Il primo scontro tra il Redentore e satana

Commento al Vangelo: I domenica di Quaresima 2014 A (Mt 4,1-11)

Il primo scontro tra il Redentore e satana
Gesù Cristo, venuto dal Cielo per liberarci dalla schiavitù e dalle insidie di satana, e per tracciarci il cammino della vita, volle affrontare il maligno per smascherarlo innanzi alle anime, per confonderne la tracotanza, e glorificare Dio con atti di dedizione e di amore che dovevano riparare le nostre deficienze. La tentazione che Egli volle subire è certamente un altissimo mistero, così ricco di verità e d’insegnamenti che l’anima vi si smarrisce.
Prima di tutto è misteriosissimo il fatto stesso della tentazione, perché il Redentore era perfettissimamente ordinato in tutte le sue potenze ed era la stessa Sapienza, l’Ordine, la Santità, l’Armonia; non poteva, dunque, subire una tentazione che comporta, per necessità, o un turbamento nelle potenze, o un’illusione di falsa luce. Anche noi, pur potendo essere tentati in tanti modi, non potremmo essere tentati, per esempio sull’inesistenza del sole, quando esso ci riscalda e ci illumina.
La tentazione suppone nell’anima o nella natura fisica una debolezza che satana sfrutta, perché, in fondo, la tentazione è un’insidia che potremmo chiamare anche una feroce irrisione. Ora, su quale debolezza del Redentore satana avrebbe potuto edificare la sua tentazione? Fu Gesù stesso, nel suo amore e nella sua carità, a mettersi nelle condizioni di avvertire una debolezza e, non potendola sentire nell’anima perché perfettissima, la sentì nel corpo, digiunando per quaranta giorni e quaranta notti. Il novello Adamo aveva un contatto col primo, al quale, innocente e santo, satana non poté procurare altra tentazione che sfruttando la necessità naturale che egli aveva di cibarsi. Non poteva penetrare l’anima, non poteva agitarne le potenze armonizzate e sottomesse alla ragione, e tentò penetrarvi attraverso la necessità del cibo, e turbarne così le aspirazioni.
Gesù Cristo, subito dopo il battesimo di Giovanni, fu condotto dallo Spirito Santo, disceso in forma di colomba su di Lui, fin nelle aspre regioni deserte che si stendono ad ovest di Gerico, su di una squallida montagna alta 473 metri, chiamata anche oggi montagna della Quarantena; vi fu condotto per esservi tentato dal diavolo.
Il primo Adamo fu messo nell’Eden, giardino delizioso, per subirvi la prova e meritarsi il premio; il secondo Adamo che doveva riparare le colpe del primo, fu condotto in un’orrida solitudine per subirvi una prova. Il primo Adamo ebbe ogni abbondanza di frutti prelibati, e gliene fu proibito uno solo; il novello Adamo digiunò completamente, e stette fra aride e infeconde pietre. Digiunò nel corpo ed espanse nel Padre tutta l’anima sua, con tale veemenza d’amore, da non avvertire la fame che quando ritornò a quella vita normale di pellegrinaggio terreno da Lui stesso accettata e abbracciata. Strettamente parlando, potrebbe dirsi anche naturale il suo lungo digiuno, perché, quando l’anima è quasi tratta fuori del corpo in un’estasi di pacifico amore, le necessità fisiche sono minime, e il corpo potrebbe anche conservarsi in vita, nutrendo i suoi organi a spese delle riserve accumulate prima.
Era logico che il novello Adamo opponesse al primo un pieno digiuno, e l’opponesse contemplando le divine grandezze; Egli additò, così, all’uomo, la via per essere simile a Dio nei riflessi della sua gloria e del suo amore, la via maestra delle rinunce generose per le conquiste del divino.
Satana aveva detto che il segreto per essere simile a Dio era il non rinunciare neppure all’unico frutto proibito, ribellarsi, dare il sopravvento ai sensi; Gesù Cristo additò la via opposta e, lungi dall’andare presso l’albero della proibizione, come Adamo, andò in mezzo alle pietre.
Anche questo è sublime! Le pietre, il deserto, lo squallore non potevano avere attrattive per i sensi, spingevano l’anima al Cielo, l’anima che cerca solo ciò che è grande. Il Redentore cercò l’arida solitudine per insegnare alle nostre anime a non fermarsi alle piccole cose della terra, e a tendere a Dio attraverso le stesse privazioni delle quali la vita ci dà occasione.

«Se tu sei il Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane»
Satana si accostò a Gesù Cristo in forma sensibile, come di uomo, secondo l’opinione dei Padri. Aveva sentito sulle rive del Giordano la voce del Padre: Questo è il mio Figlio diletto e, volendo accertarsi se era veramente il Figlio di Dio, e nello stesso tempo volendo applicare la potenza di Lui alla ricerca di ciò che era terreno e staccarlo dalla fiducia nel Signore, disse: Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane.
Le pietre del deserto, simbolo della desolazione della nostra vita, richiamarono l’attenzione di satana; egli che si sforza d’attrarci alla vita materiale, infiorandola con le sue funeste illusioni, avrebbe voluto che quelle pietre diventassero pani per attrarre l’umanità affamata del Redentore, e avrebbe voluto che Egli stesso, con la sua potenza, avesse realizzato questo miracolo. In fondo era quello che aveva fatto e fa col genere umano, il quale, nelle sue attività assillanti che tutto l’assorbono, cerca di mutare in pane le pietre, e di nutrire l’anima di tutte le vanità della terra.
Dalla risposta di Gesù Cristo, si rileva chiaramente che questa era l’intenzione del tentatore: sostituire alla fiducia nella divina provvidenza la fiducia nella propria attività, e dissipare nella ricerca del proprio comodo le nobili attività dello spirito.
Gesù Cristo, a questa tentazione, oppose le parole con le quali Dio, per mezzo di Mosè, esortò il popolo alla piena fiducia nella sua provvidenza, in vista dei prodigi operati da Lui nel deserto: Dio ti afflisse con la fame disse Mosè alla moltitudine e ti diede per cibo la manna che tu né i tuoi padri conoscevate, per farti vedere che l’uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio (Dt 8,3). Di queste parole di Mosè, Gesù citò solo le ultime, per dire al tentatore che Egli era pienamente abbandonato a Dio, e per affermare la necessità del cibo spirituale per l’uomo.
Era la condanna del materialismo brutale per il quale satana riduce tutta la vita umana ad un problema di stomaco.
Era la condanna anticipata di tutte le sovversioni sociali, morali e religiose che satana avrebbe provocato nel mondo, insinuando malignamente che l’uomo vive solo di pane. Era velatamente l’affermazione solenne del cibo di vita, del Pane eucaristico che avrebbe dovuto cibare l’uomo nel suo pellegrinaggio.

«Se sei il Figlio di Dio, gettati giù…»
Satana, confuso dalle parole del Redentore, ricorse ad un altro espediente per vincerlo: lo trasportò di un tratto in Gerusalemme, e lo pose sul pinnacolo del tempio, ossia sulla parte più alta dell’edificio, probabilmente sulla più alta cima del portico reale, incitandolo a gettarsi giù, per mostrare la sua fiducia nel Signore che l’avrebbe salvato, secondo ciò che stava scritto nel salmo 90. Il versetto citato dal demonio era da lui falsamente interpretato, perché la custodia degli angeli, promessa per liberarci dai pericoli, non poteva riguardare i pericoli provocati da noi con orgogliosa presunzione. Vinto da una parola divina citata da Gesù, satana cita, a sua volta, una parola della Scrittura, per indurre Gesù Cristo alla presunzione.
Satana voleva provocare un prodigio innanzi alla moltitudine che stava nel tempio, e suscitare un movimento popolare intorno al Redentore? Noi non lo crediamo, perché, anzi, tendeva di fargli fare del male; prima l’aveva tentato ad aver fiducia nella propria potenza, ora lo tenta ad aver fiducia nella propria virtù, per condurlo, poi, ad aver fiducia in lui solo e a darsi a lui, vista l’inanità della sua fiducia in Dio. Dal contesto, è chiaro che satana credeva che Gesù Cristo non sarebbe riuscito né a mutare le pietre in pani né a rimanere incolume in una caduta; voleva fargli toccare con mano l’impotenza della preghiera e della fiducia in Dio, e spingerlo all’apostasia piena dal Signore. Gesù Cristo rispose con un’altra parola ispirata: Non tenterai il Signore Dio tuo. La fiducia, infatti, è abbandono nelle mani del Signore, non è presunzione d’imporgli la propria volontà; l’anima che confida non può presumere di avere dei miracoli senza strettissima necessità né di esporsi temerariamente ai pericoli spirituali e corporali; dandosi al Signore è soccorsa dagli angeli e, offrendosi a Lui come figlia, è provveduta da Lui come Padre.
Nelle parole del Redentore è tracciato tutto un programma delle vie dello spirito, fondato su un’illimitata fiducia in Dio e, nel medesimo tempo, su di un grande equilibrio di sapienza e di umiltà nelle aspirazioni del cuore che impedisca di passare dal campo della realtà a quello della fantasia. Dio non fa opere superflue proprio perché è infinita Sapienza né trascura, senza necessità, le leggi naturali da Lui stesso poste nel mondo; bisogna dunque attendere tutto dalla sua parola, ossia dalla sua volontà, e non tentarlo, presumendo di ottenere effetti clamorosi dove non è necessario.

«Tutto questo io ti darò se, prostrato, mi adorerai»
Satana, confuso ancor più dalla risposta di Gesù Cristo, volle dargli un ultimo assalto che s’illuse potesse essere decisivo. Aveva sospettato che fosse il Messia, e credeva che dovesse avere un regno terreno, come lo credevano gli Ebrei; pensò di poter attrarre, nell’orbita del suo tenebroso potere, quel regno che sapeva dover essere universale; non pensava al regno spirituale o, se ci pensava, voleva tramutarlo in un regno temporale, a base di orgogliosa gloria; avrebbe voluto anticipare gli eventi della storia, e coronare egli il Re universale, per renderlo suo vassallo.
Tutta la stolta impudenza di satana emerge nell’ultima sua tentazione, ed egli si smaschera da sé nelle sue tenebrose mire. Sapeva che il Messia doveva conquistare il suo regno con aspri dolori e umiliazioni inaudite, e pensò di porlo su di un’altra via, su quella della gloria terrena, per rendere vano il suo regno nelle anime; lo trasportò perciò su di un alto monte, non materialmente, perché da nessun monte potrebbero vedersi i regni della terra; lo elevò al di sopra delle grandezze umane, mostrandogliele in una sintesi viva, quasi le vedesse da un monte.
Non poteva disordinare la fantasia del Redentore, facendogli avere impressioni di gloria e di grandezza, e perciò formò fuori di Lui quello che avrebbe fatto dentro di Lui attraverso la fantasia: lo sollevò in alto, e fece passare sotto i suoi occhi la gloria dei regni del mondo, esclamando: Tutto questo ti darò se prostrato mi adorerai. Era il sommo dell’impudenza e della stoltezza, e Gesù non tollerò oltre che satana avesse insistito, ma lo ricacciò negli abissi con una parola che dovette fulminarlo: Vattene satana, poiché sta scritto: Adora il Signore Dio tuo, e servi a Lui solo.
Satana aveva tentato travolgere la vita del Redentore, voce di gloria infinita in Dio Uno e Trino, in una voce di orgogliosa gloria umana.
Tre tentazioni opposte a Dio Uno e Trino: una Potenza divina ridotta a servire alle necessità corporali; una Sapienza divina ridotta quasi ad un gioco di prestigio; un Amore divino ridotto ad adorare lo stesso satana.
Aveva visto, sulle rive del Giordano, la luce della Santissima Trinità nel Redentore e voleva cancellarla per odio; voleva che la voce della potenza servisse al compiacimento orgoglioso di se stesso che la sapienza deviasse nella stoltezza, e che l’amore deviasse nell’idolatria.
Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo