sabato 26 aprile 2014

Gesù Cristo appare agli apostoli

Commento al Vangelo: II Domenica di Pasqua 2014 (Gv 20,19-31)
Domenica della Divina Misericordia

Gesù Cristo appare agli apostoli
Dopo che Pietro e Giovanni tornarono dal sepolcro, e dopo il messaggio delle pie donne e della Maddalena, cominciò a nascere negli apostoli un po’ di fede. Non era la fede profonda e completa di chi crede a Dio che rivela, riguardando come somma ragione la sua autorità, ma era come l’alba di questa fede, era come il rinascere di una speranza che sembrava già morta, era come il primo rinverdirsi d’un ramo spezzato dalla tempesta. Questo poco di fede, più naturale che soprannaturale in quel momento, fu la disposizione che rese loro possibile la grazia della rivelazione del Signore.
Essi erano in buona fede, in fondo, poiché non avevano capito i tratti della Scrittura che parlavano della risurrezione e non ricordavano ciò che, in proposito, aveva detto loro Gesù; non rifiutavano di credere alla Parola di Dio positivamente, ma s’erano come smarriti nel labirinto delle loro idee e delle loro aspirazioni.
Il timore poi dei Giudei aveva fatto nascere in loro, quasi inconsciamente, il desiderio di sottrarsi, se fosse stato possibile, all’incanto e al fascino di ciò che in tre anni avevano visto e ascoltato.
La paura è sempre una pessima consigliera e, quando diventa panico, cerca ogni scappatoia per sottrarsi al pericolo; se non in tutti gli apostoli e discepoli, almeno in alcuni, subentrò un desiderio occulto di non pensare più al passato, di abbracciare un tenore comune di vita, e ritornare alle loro occupazioni; ne abbiamo un esempio nell’episodio dei discepoli di Emmaus, del quale parla san Luca (24,13-35). Il timore si accrebbe negli apostoli per le stesse notizie che riguardavano la risurrezione. Certamente il Corpo di Gesù non c’era più nel sepolcro, e questo fece loro temere che le autorità li accusassero di averlo essi sottratto, iniziando contro di loro una persecuzione; perciò stavano guardinghi e tenevano ben chiuse le porte dove erano congregati. Ora, mentre erano insieme, nella sera della stessa domenica della risurrezione, Gesù Cristo, senza bisogno di farsi aprire, entrò improvvisamente in mezzo a loro e, fermatosi, disse: La pace sia con voi.
Nella sua misericordia e nel suo amore veniva per troncare la loro diffidenza, e per mostrare la realtà della sua risurrezione. Perciò, passato il primo momento di sbigottimento che si generò in loro a quella vista, li invitò ad avvicinarsi a Lui, e mostrò loro le mani piagate e il costato aperto, affinché avessero avuto un argomento sensibile della realtà del suo Corpo, e avessero constatato che quello era proprio il Corpo crocifisso tre giorni prima sul Calvario.

A chi rimetterete i peccati,
saranno rimessi…
Gioirono i discepoli, ma nella gioia stessa provarono un senso di timore per le colpe che avevano commesse, e per la sproporzione che sentivano col Signore glorioso; per questo, Gesù, rassicurandoli, ripeté le dolci e vivificanti parole: La pace sia con voi e, sollevandoli dalla loro profonda umiliazione interiore, soggiunse: Come il Padre ha mandato me così io mando voi.
Con delicatezza divina e con divina signorilità non volle che avessero sentito il peso della loro inferiorità innanzi a Lui glorioso; gli ripugnava quasi che avessero potuto stabilire un paragone fra loro peregrinanti e Lui trionfante e, anticipando le grazie della Pentecoste e il momento nel quale diede loro la pienezza della missione per la quale li aveva scelti, soffiò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi li riterrete saranno ritenuti. Gesù Cristo non fece loro una promessa, ma diede loro veramente una comunicazione attuale dello Spirito Santo, alla quale era annessa la facoltà di rimettere i peccati. Pur ricevendosi una volta lo Spirito Santo – perché la sua comunicazione sacramentale imprime il carattere –, Gesù Cristo volle darlo più volte ai suoi prediletti, riserbandone loro una nuova pienezza nel giorno della Pentecoste. Si direbbe che sta nelle sue abitudini di misericordia e di amore moltiplicare e rinnovare i suoi doni a quelle anime che gli si danno con amore, ed hanno fiducia nella sua generosità.
Dicendo: A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi li riterrete saranno ritenuti, Gesù Cristo diede agli apostoli e ai loro successori la potestà giudiziale di rimettere i peccati nel sacramento della Penitenza, com’è chiarissimo dal Testo, e come dichiarò esplicitamente il Concilio di Trento (Sess. XIV, can. 3). Tutti i peccati, anche i più gravi, possono essere rimessi, ma debbono essere sottoposti al giudizio del sacerdote con la confessione, perché il rimetterli o ritenerli non è un atto di capriccio, ma è una sentenza ragionevole che dipende da un giusto giudizio; tale giudizio non può farsi se il peccatore non confessa i suoi peccati e se, confessandoli, non mostra le disposizioni interiori che lo animano.
Con divina delicatezza Gesù anticipò agli apostoli la facoltà di rimettere i peccati, proprio nel momento nel quale essi si sentivano maggiormente peccatori, rendendoli giudici quando essi si aspettavano di essere giudicati. Egli volle rialzarli dall’umiliazione e, nel medesimo tempo, volle dare loro i tesori della misericordia quando essi maggiormente si sentivano poveri e peccatori, affinché avessero compatito le miserie altrui. L’uomo ha cercato tutelare l’ordine sociale con le leggi e i tribunali penali, con le carceri e persino con la morte, ma non ha potuto far nulla per mutare l’anima del delinquente, nonostante tutte le assistenze sociali ai carcerati. Solo Dio poteva erigere un tribunale di amorosa misericordia che rinnova il cuore, dona la pace, eleva in alto il peccatore e lo muta in un giusto e persino in un santo.

Gesù Cristo risana Tommaso dalla sua incredulità
Quando Gesù apparve agli apostoli, Tommaso non era con loro. Di carattere più indipendente, di volontà più ostinata, forse aveva creduto inutile starsene rinchiuso nel Cenacolo, o forse anche era andato a sbrigare qualche faccenda. Era colui che meno aveva creduto al messaggio delle pie donne e di Maria Maddalena, e può darsi che, sentendone parlare e discutere, si fosse così disorientato e urtato, da uscirsene. Per lui ormai era certo che Gesù era morto che le speranze riposte in Lui erano fallite, e che ostinarsi ad attendere ancora eventi che gli sembravano ormai impossibili era lo stesso che esporsi alla derisione e dar di volta al cervello. Il suo disorientamento si accrebbe quando, al ritorno, seppe dagli altri apostoli dell’apparizione di Gesù.
È evidente che gli dovettero raccontare tutto minutamente, e che, al suo ostinarsi nel non credere, dovettero ripetutamente fargli notare che essi avevano visto proprio le ferite delle mani, dei piedi e del costato, e che non c’era dubbio che fosse proprio Lui. Ma Tommaso credeva di scorgere nella gioia, nell’entusiasmo e nella certezza dei compagni, i segni di un’esaltazione fantastico, e perciò, alle loro insistenti affermazioni, rispose: Se non vedo nelle sue mani la ferita dei chiodi, e se non metto il mio dito al posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non credo.
La psicologia di chi ascolta il racconto concitato
di un fatto straordinario
San Tommaso, ritornato al Cenacolo, aveva trovato l’ambiente per lui stranamente cambiato. I suoi compagni gli sembravano esaltati, la loro gioia lo urtava, le loro osservazioni lo turbavano. Sentiva, in fondo, il rammarico di non essersi trovato, ma voleva persuadersi di essere stato lui un privilegiato a non trovarsi ad una scena che gli sembrava fantastica. Aveva un incosciente rimorso della sua incredulità, ma tentava soffocarlo nei raggiri di un ragionamento; perciò, all’argomento di prova che gli davano i compagni della realtà dell’apparizione, cioè le piaghe delle mani, dei piedi e del costato, risponde con un fare altero che rivela la lotta interna del suo spirito: Se non vedo nelle sue mani la ferita dei chiodi, e se non metto il mio dito al posto dei chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non credo.
Gli apostoli non poterono opporgli altro; si mostrarono dispiaciuti, disgustati, afflitti ma, di fronte all’ostinazione di una ragione sconvolta, c’è poco da fare. Non la si può conquidere col ragionamento.

Gesù appare di nuovo, presente Tommaso,
che è guarito dalla sua incredulità
Otto giorni dopo, i discepoli erano di nuovo tutti raccolti nella casa, e Tommaso era con loro. Forse pregavano; certo erano in un momento di raccoglimento nel quale era più facile la mozione della grazia.
Crediamo che Maria si trovasse con gli apostoli, e che fu proprio Lei ad implorare la grazia della conversione per Tommaso. Come Madre amorosa che prendeva cura attiva dei figli affidatile da Gesù, conobbe o fu addirittura presente al disorientamento di Tommaso, e supplicò il Figlio suo divino a sanarlo. A Lei dovette suscitare tanto dolore l’incredulità di un apostolo, e vide in essa la rappresentanza dell’incredulità dei diffidenti e presuntuosi nella fede.
Tommaso soprannominato Didimo dice il Sacro Testo –, ossia gemello, era veramente come il fratello gemello dei miscredenti futuri, dei razionalisti che non ragionano, e soprattutto di quelli che non credono al soprannaturale, pretendendo toccarlo con mano. Maria ne era addoloratissima, poiché Ella sapeva, per esperienza, che non si compiono mai i disegni di Dio se non si crede, e santa Elisabetta aveva riconosciuto in questo il segreto della sua grandezza: Beata te che hai creduto, poiché così si compirà in te quello che ti è stato detto dal Signore (Lc 1,45). Maria, dunque, che vedeva Tommaso privo allora del dono dello Spirito Santo, della potestà che Gesù aveva data agli apostoli soffiando su di loro, Maria che lo vedeva immeschinito nella incredulità, sterpo sterilissimo e infecondo che dà solo spine, pregò Gesù che lo sanasse, e Gesù comparve di nuovo a porte chiuse.
Quale gioia per gli apostoli e quale sorpresa per Tommaso! Egli si voltò, lo vide, lo riconobbe: era Lui! Allibì per un momento, temette, si turbò, ma Gesù gli effuse subito nel cuore la serena tranquillità, dicendo: La pace sia con voi. La tracotanza di Tommaso fu in un momento fiaccata, e nel suo cuore cominciò a sorgere un tumulto d’amore e di umiliazione. Gesù lo chiamò a sé, e lo invitò a mettere il dito nelle sue piaghe e la mano nel suo costato, dicendogli con infinito amore: Non voler essere incredulo ma fedele.

Il Sacro Testo non dice se Tommaso abbia messo il dito e la mano nelle piaghe di Gesù, ma noi crediamo che il Redentore ve l’abbia costretto. A quella vista, a quel contatto, Tommaso si prostrò e, adorandolo, disse: Signor mio e Dio mio. Non poté dire altro: il cuore gli scoppiava dal dolore e dall’amore, la fede divampava in lui, l’abbandono era pieno nel suo Redentore e nel suo Dio. Ma Gesù soavemente lo rimproverò, per completare la grande lezione che voleva dare ai secoli futuri, dicendo: Perché hai visto, o Tommaso, hai creduto; beati coloro che non hanno visto e hanno creduto
Padre Dolindo Ruotolo


lunedì 21 aprile 2014

La risurrezione di Gesù

Sacro Triduo Pasquale – Veglia Pasquale nella Notte Santa Messa 2014
Commento al Vangelo secondo S. Matteo (Mt 28,1-10)
Don Dolindo Ruotolo
La risurrezione di Gesù
Le pie donne che avevano seguito Gesù non avevano potuto rendergli gli onori funebri, perché la sepoltura era stata affrettata nell’imminenza del sabato.
Appena passato il giorno di festa, perciò, si avviarono al sepolcro per imbalsamare il Corpo. San Matteo nomina soltanto Maria Maddalena e l’altra Maria, cioè Maria, moglie di Cleofa e madre di Giacomo e di Giuseppe, perché la prima precedé le altre e andò sola, e la seconda fu quella che accompagnò il gruppo delle pie donne. È evidente che esse non sapevano che al sepolcro era stata posta una guardia, e si preoccupavano solo della difficoltà di rimuovere dal sepolcro la pietra che lo chiudeva.
All’alba del terzo giorno Gesù era risorto dalla morte! La Persona divina, terminandone l’Anima e il Corpo, aveva richiamato l’Anima nel Corpo, dotandola di una vitalità intensa e di una straordinaria potenza vivificatrice. Si direbbe che, come il calore ridesta la vita nelle assonnate fibre di una pianta, così la divina Persona del Verbo ridestò, col suo calore divino, la vita nel Corpo ucciso, attraendo in esso l’Anima come raggio vivificante. L’Anima richiamò a sé tutto quello che essa aveva vivificato e riassunse il Sangue sparso e tutto quello che la ferocia dei carnefici aveva tolto al Corpo, rendendolo, così, nuovamente atto alla vita.
Fu un momento solenne, del quale furono testimoni solo gli angeli, attoniti innanzi al virgulto di Iesse che rifioriva. Il Sangue riassunto, attratto da una misteriosa forza e rivivificato dal calore divino della vita, s’immise nelle vene e le vene si riaprirono, rifatte nei loro tessuti e nella loro compagine. Un fiotto di vita rifluì nel Cuore, e il Cuore si ridestò e fece rifluire il Sangue in tutte le membra, ricomponendone i muscoli e ridonandole alla vita. Sparirono ad una ad una le piaghe, come spariscono le ombre innanzi alla luce del sole, o come vengono divorate dalla fiamma le macchie dell’umidità.
Rimasero solo le cinque piaghe principali, perché l’amore le volle conservare come monumento d’amore.
Il Sangue, nel rifluire, circolò intorno ad esse e vi lasciò uno splendore divino; non le chiuse ma le aprì come boccioli tinti di rosa, e la vita vi si manifestò come raggio che saettava amore dal luogo dove la morte era passata prima vittoriosa e poi vinta. Era il trionfo della vita che manteneva aperta la breccia che aveva fatta la morte, e l’arrestava trionfante sugli abissi da dove era uscita. La trasformazione del Corpo fu istantanea, e la carne non fu più mortale ma gloriosa, quasi aggregato di luci, di splendori, di profumi e di raggi di calore purificante. Le bende che l’avvolgevano, la caverna che la rinchiudeva e la pietra sigillata non potevano impedirle il passo, non era un fantasma né uno spirito, perché più tardi si fece toccare, era un Corpo trasfuso di gloria e di potenza, era la vita che aveva vinto la morte! Uscì dalle bende che invano l’avvincevano, e non le infranse neppure, tanto erano impotenti ad avvincerlo. Riaprì gli occhi splendenti d’amore, e non li fissò sulle anguste pareti della caverna perché essi guardavano il Padre. Il Cuore quasi affiorò sulle labbra, tanta era la vita d’amore che saettava, e sorrise, ringraziando il Padre. L’attrasse lo sguardo divino che si compiaceva di Lui e, nel bacio dell’amore, la sua divina Persona rifulse attraverso il Corpo come conoscenza e compiacenza del Padre, proprio come rifulgeva immutabilmente nel seno del Padre dai secoli eterni. Quel bacio d’amore attrasse il Corpo fuori della tomba, fuori della terra, e si trovò come sospeso in alto, in un’estasi d’amore. Nessuno lo vide, poiché nessuno aveva lo sguardo proporzionato a tanta magnificenza; lo circondarono quasi le stelle mattutine cantando, e discesero gli angeli osannando; discesero quasi come li vide Giacobbe per la scala misteriosa! Quale momento d’amore!

Le pie donne e l’angelo che annuncia la risurrezione
Giù sulla terra l’orizzonte s’imbiancava, e l’acre odore della notte che si diffondeva fra gli alberi ricordava che essa era terra d’esilio. Le piccole strade erano come nastri annebbiati, e v’era ancora soffusa la melanconia dell’immolazione del Golgota! Ecco la via dolorosa… Ecco la porta giudiziaria, ecco il Calvario… Che cosa illumina questi luoghi di lacrime che ancora par che risuonino delle grida efferate del venerdì? Non è l’alba che le profuma di pace: è il Redentore glorioso che illumina il cammino del dolore con la sua luce e lo rende cammino della vita. Alleluia! Alleluia! Questo canto risuonò su ogni zolla che fu bagnata dal Sangue della vita, e la via dolorosa divenne la via della gloria!
Le pie donne si trovarono innanzi al sepolcro un momento dopo la risurrezione e, proprio nell’atto nel quale un angelo discese dal cielo in compagnia di un altro, ruppe i suggelli, rovesciò la pietra pesante e vi si assise sopra. Le guardie sbigottite caddero a terra come morte per lo spavento, e le donne rimasero atterrite, non sapendo che cosa avvenisse.
Il terremoto che scosse la collina alla discesa dell’angelo le aveva già spaventate, e la presenza di esseri sovrumani le sbigottì, come suol avvenire in tutte le visioni soprannaturali; ma non ci voleva di meno per scuotere la loro morta fede, e per far riconoscere loro la verità delle parole dell’angelo. Esse erano venute per imbalsamare un morto, e avevano dimenticato la solenne promessa del Crocifisso. Se avessero avuto un annuncio pacifico, avrebbero più facilmente temuto d’ingannarsi; quei cuori avevano bisogno del maglio per essere scossi. L’angelo parlò loro: erano due angeli – come dice san Luca (24,4) –, ma uno solo parlò, esortandole ad annunciare ai discepoli la risurrezione, e a dir loro che avrebbero visto il Maestro nella Galilea. Al terrore era subentrato, nel loro cuore, un gaudio ineffabile, e corsero, per la premura di dare agli apostoli la lieta novella, quand’esse videro proprio Gesù che le fermò e le salutò. Non era un fantasma: era Lui, bellissimo, luminoso, trasfigurato, spirante dolcezza e misericordia. Esse gli si gettarono ai piedi, glieli strinsero, lo adorarono, e non sapevano più staccarsi da Lui. Gesù le trattenne per poco tempo; poi le esortò ad andare ad avvertire gli apostoli che Egli chiamò fratelli per ineffabile tenerezza, rinnovando loro il convegno nella Galilea. Non potevano bearsi della sua presenza quando dovevano riparare la loro mancanza di fede, richiamando gli apostoli alla fede nel Maestro divino. Esse avevano ancora nelle mani le bende e gli aromi che avevano portati per imbalsamare un cadavere, e dovevano portare, agli smarriti discepoli, l’annuncio glorioso che confermava la verità nei loro cuori. Era questa la testimonianza più bella d’amore che potevano dargli.
Gesù è risorto, primizia dei dormienti – come dice san Paolo –, perché anche noi risorgiamo un giorno nella gloria. Tutti passiamo sulla terra, e tutti ci dissolviamo nel sepolcro, ma la risurrezione di Gesù è la promessa che muta la morte in un sonno, e il sepolcro in un giaciglio. La Chiesa, con bellissima espressione, chiama precisamente dormitori, cœmeterii, i suoi camposanti. Pensiamo che risorgeremo così come ci saremo addormentati, e che la morte del peccatore non è promessa di risurrezione gloriosa, ma doloroso sintomo del Giudizio che lo ricoprirà d’obbrobrio.
Viviamo santamente, immolandoci con Gesù Cristo, perché, solo se soffriremo con Lui, saremo glorificati con Lui. Se potessimo vedere di quante macchie siamo coperti a causa del peccato, e se potessimo valutare le infezioni della nostra miseria, non ci stupiremmo di soffrire. Il dolore pone in noi il germe della trasfigurazione finale, poiché ci segna quasi delle piaghe di Gesù Cristo. Ogni pena lascia nel corpo una promessa di vita, come ogni falsa gioia e ogni degradazione di senso vi lascia un germe di vituperio e di condanna. I cattivi appaiono gaudenti, ma la loro prosperità è come la virulenza patogena che, prosperando, consuma la vita. Guarda il polmone di un tisico, e non troverai forse un vivaio simile di germi: si moltiplicano, si agglomerano; divorano tutto, e sembrano vittoriosi. Se guardi così il polmone, chiamerai prosperità quella germinazione; ma se guardi la faccia dell’infermo, e se lo consideri nelle sue pene, la chiamerai rovina. Tale è la prosperità temporale dei cattivi: moltiplicazione dei germi che consumano la vita! È più bello il dolore, è più bella la croce, poiché nel dolore si purifica l’anima e si vivifica di spirito la stessa carne che così viene preparata all’eterno trionfo.

Se Dio ci donasse la prosperità materiale come noi la desidereremmo, essa diventerebbe per noi come le spine che soffocano la vita della buona semente. Abbracciamoci la croce esultando, poiché essa è promessa di prosperità e di vita eterna; abbracciamoci alla croce abbandonandoci alla bontà di Dio, perdonando, beneficando, amando, come fece Gesù sul Calvario. Se non rifuggiamo dall’amarezza e dallo spasimo per la salute del corpo, perché dovremmo rifuggire dal dolore per la salvezza dell’anima? Cerchiamo solo la vita eterna, e non disdegniamo di rinunciare alle misere gioie della terra per ottenerne il possesso! 

giovedì 17 aprile 2014

Gesù lava i piedi agli Apostoli

Sacro Triduo Pasquale – Messa in «Cœna Domini»
Commento al Vangelo del Giovedì Santo 2014 (Gv 13,1-15)

Gesù lava i piedi agli apostoli

San Giovanni riesce a descrivere l’amore col quale Gesù preparò la dedizione sua agli apostoli, desideroso di purificarli per poterli vivificare.
Essi erano in grazia di Dio, eccetto Giuda traditore, ma avevano tante imperfezioni nell’anima e, poco prima, come riferisce san Luca (23,24), avevano discusso su chi di loro sarebbe stato il più grande.
Gesù volle purificarli di quest’orgoglio con un profondo atto di umiltà, e volle correggerli di quell’emulazione che era trascesa nell’alterco, con un atto di amorosissima carità.
Lavò loro i piedi, e certo non fece questo solo materialmente, ma, nel lavarli, comunicò loro una grazia interiore e li purificò. Essi, che lo amavano, vedendolo umiliato ai loro piedi come un servo, si umiliarono profondamente, e furono purificati dalla loro miseria.
Fatta dunque la cena o, come indica il testo greco di codici autorevoli, durante la cena, Gesù si raccolse tutto in se stesso e apparve come trasfigurato dall’amore e dal dolore. Giuda, infatti, istigato da satana, aveva già stabilito di tradirlo, e Gesù, addoloratissimo tentò nella sua misericordia l’ultimo assalto per conquiderlo. Fu questo il primo pensiero che ebbe nel determinarsi a lavare i piedi ai suoi discepoli, e l’evangelista, di proposito, lo fa notare.

Sull’umiltà che devono avere i capi

Giuda lo avversava perché gli pesava il suo giogo soavissimo, si urtava nel sentirlo chiamare Maestro, si ribellava al solo pensiero d’essergli sottomesso, e Gesù volle mostrarsi Egli sottomesso a lui, umiliandosi persino ai suoi piedi.
L’atto di umiltà che si accinse a fare, era tanto più meraviglioso, in quanto Egli sapeva bene d’essere il Figlio di Dio, e sapeva d’andare incontro alla morte proprio per il tradimento dell’apostolo infedele. San Giovanni fa notare questa circostanza in modo enfatico: Sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani, e che era venuto da Dio e a Dio andava, si levò da cena. Lezione stupenda di misericordia e di carità a quei superiori che hanno sudditi ingrati e ribelli e, in nome della propria dignità, credono di doverli trattare con inesorabile severità. Gesù Cristo, Figlio di Dio, nelle cui mani era ogni potere, pur sapendo che Giuda non avrebbe corrisposto alla sua bontà, si umiliò fino a lavargli i piedi, e si umiliò innanzi a tutti i suoi apostoli per migliorarli, e liberarli dalle loro miserie. Chi sta in alto non può sempre far uso della sua potestà: deve saper anche umiliarsi, e deve saper curare, con la bontà, l’ostinazione dei cuori che gli sono affidati.
La forza non corregge mai l’anima, benché possa disciplinare esternamente la vita; l’umiltà, invece, può correggere l’anima e, in ogni caso, ne diminuisce sempre la perversità. Forse, quando Giuda vide condannato Gesù e fu preso da un pentimento disperato del male che gli aveva fatto, il ricordo della sua umiliazione nel lavargli i piedi concorse, anzi determinò, in lui, quel sentimento di compassione e di sgomento che, certo, fu l’unica nota attenuante del delitto commesso.
Giuda non si pentì soprannaturalmente in modo da meritare il perdono, non confessò Gesù come Figlio di Dio, ma per lo meno lo confessò giusto e innocente, e questo attenuò l’orrore del suo peccato.
Alzatosi da tavola, Gesù depose le sue vesti, cioè il pallio e la sopravveste che potevano essergli d’impaccio, prese un asciugatoio e se ne cinse e, versata l’acqua in una bacinella, cominciò a lavare i piedi dei suoi apostoli, asciugandoli col panno del quale era cinto. Com’è chiaro dal contesto, Egli andò prima da Pietro. L’evangelista, infatti, dopo aver accennato in generale alla lavanda, scende ad un particolare che era interessante, riguardando il capo degli apostoli.
Pietro, nel vedere ai suoi piedi Gesù, scorgendo in quell’atto stesso di umiltà la maestà divina che in Lui rifulgeva e l’amore che lo muoveva, ritirando con un gesto improvviso le estremità, disse con accento di stupore e di amore: Signore, tu lavare a me i piedi? E voleva dire: Tu Maestro mio, tu pieno di maestà abbassarti fino a me, povero pescatore e povero peccatore? Il gesto di Pietro fu reciso ed energico, e Gesù lo controbilanciò con un atto di tenera persuasione, dicendogli: Quello che io faccio tu ora non l’intendi, lo intenderai in seguito; e dovette stendere le mani per prendergli i piedi e metterli nella bacinella. Ma Pietro, più energicamente, li ritrasse, e col suo modo affettuosamente irruente, a troncare la questione disse: Tu non mi laverai i piedi in eterno. Gesù gli aveva detto che in seguito avrebbe capito il significato e il valore di quell’atto, cioè che dopo gliene avrebbe dato la ragione; ma Pietro, come del resto tutti gli apostoli, voleva veder chiaro, e in quel momento la sua ragione pretendeva imporsi al comando amoroso di Gesù. Gli apostoli, nella loro semplicità, volevano ragionare, e Pietro non ammetteva un ragionamento postumo in una degnazione che ripugnava all’amore che portava al Maestro.
Era un atto di affetto, senza dubbio, ma era anche un atto di ostinazione contro un disegno d’amore, e perciò Gesù gli disse: Se non ti laverò non avrai parte con me; e voleva dire: Se non ti purificherò così, non potrai partecipare al Sacramento che sto per istituire, per il quale occorre una purità piena di coscienza. Pietro, però, capì che se non gli avesse permesso di lavarlo, non avrebbe avuto parte nel suo regno, e sarebbe stato allontanato da Lui. Lo stesso amore lo fece cadere nell’eccesso opposto, e gridò, porgendogli i piedi: Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani ed il capo.

La lavanda dei piedi,

come un sacramentale

Nella sua rozzezza, non capì che Gesù voleva lavargli i piedi per lavargli l’anima, non capì che quell’atto di umiltà e d’amore era un sacramentale di misericordia; credé si trattasse di pulizia del corpo, per stare a tavola con maggior decoro e poiché, mangiando l’agnello, si era unte le mani e le labbra, si dichiarò pronto a farsi mondare. Ma Gesù, richiamandolo alle cose dello spirito con un paragone, soggiunse: Chi ha fatto il bagno non ha bisogno di lavarsi se non i piedi, essendo interamente mondo. E voi siete mondi, ma non tutti. E voleva dire, secondo il testo greco: Come chi ha fatto già un bagno e va a casa ha bisogno di lavarsi solo i piedi impolverati nei sandali per il cammino fatto, così voi, già mondi per la grazia che vi ho data, avete bisogno d’essere purificati solo nella debolezza del vostro mortale cammino. Specificò così il significato di quel sacramentale: Egli lavava i piedi per purificare le piccole colpe inevitabili nel mortale cammino; porgeva l’acqua santificata dalle sue mani, e le dava efficacia con la sua umiliazione, compungendo il loro cuore.
L’acqua era un segno esterno di purificazione; la sua umiliazione era il merito che dava a quel segno il valore di una purificazione, e la compunzione del cuore degli apostoli era la corrispondenza e il concorso personale alla grazia purificatrice. Gesù nel dire: Voi siete mondi, ma non tutti, si accorò immensamente, pensando a Giuda, come nota il Sacro Testo; all’apostolo infedele quella lavanda non valse a purificarlo: avrebbe avuto bisogno di un bagno di grazia, e lo rifiutava perché ostinato nel suo peccato.

L’insegnamento della lavanda dei piedi fatta da Gesù
Con infinito amore, Gesù compì la lavanda a tutti gli apostoli, senz’altra protesta da parte loro; poi riprese le vesti, e riassisosi a tavola, disse loro: Sapete quello che ho fatto a voi? Voi mi chiamate Signore e Maestro e dite bene perché io lo sono; ora se io, Signore e Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi l’un l’altro. Vi ho dato infatti l’esempio, affinché come ho fatto io, facciate anche voi.
Il valore della lavanda era una purificazione delle piccole colpe, il significato era una lezione pratica di umiltà e di carità. Gesù Cristo, prossimo a lasciare i suoi cari e a compiere il suo sacrificio sanguinoso sul Calvario, dava loro la stessa sua potenza e autorità, istituendo l’Eucaristia e il Sacerdozio, ed esigeva da loro una grande umiltà e carità per compiere gli altissimi uffici ai quali li destinava. Fino ad allora, essi avevano creduto di poter conquistare posti di onore nel suo regno, anzi avevano altercato fra loro per assicurarsi gli uni sugli altri una preminenza; ora, ecco la preminenza cui dovevano aspirare: umiliarsi, compatire ed avere carità gli uni gli altri, imitando il suo esempio.

Egli non comandava che materialmente si fossero lavati i piedi gli uni gli altri, ma che come Egli, Signore e Maestro, si era umiliato ai loro piedi in quell’atto di bontà, così essi avessero avuto cura di umiliarsi nella loro dignità, e di avere carità nell’esercitarla, mondando le anime dalla loro miseria, e compatendole con estrema bontà e carità. Essi non avrebbero potuto presumere d’essere di più di Lui, poiché nessun servo è maggiore del suo padrone; la loro pace e beatitudine futura nel ministero che loro assegnava, dipendeva da questo preciso concetto che dovevano avere della loro dignità e dell’esercizio della loro dignità.
Don Dolindo Ruotolo

sabato 12 aprile 2014

Passione di nostro Signore Gesù Cristo

Commento al Vangelo: Domenica delle Palme 2014 (Mt 26,14-27,66)

Passione di Nostro Signore Gesù Cristo

Il tradimento di Giuda
È un mistero d’iniquità che dà le vertigini il tradimento di Giuda! Come poté un apostolo che aveva ascoltato tanti insegnamenti divini di Gesù, e aveva assistito a tanti miracoli, giungere fino alla viltà di venderlo? Se si fosse turbato interiormente sulla sua dottrina, e l’avesse creduta un pericoloso inganno, avrebbe dovuto magari denunciarlo, oppure abbandonarlo per ritornare agli scribi e farisei; ma venderlo, e domandare con impudenza e cinismo ai suoi nemici che cosa gli avessero voluto dare come prezzo del tradimento, è tale abiezione che suppone in Giuda un decadimento spaventoso di spirito, un abbrutimento, un odio che fa fremere.
Il Vangelo ci dice che dopo l’omaggio reso da Maria Maddalena al Redentore, spargendogli sul capo l’unguento prezioso, Giuda andò a proporre ai principi dei sacerdoti il tradimento prezzolato; questo ci può far supporre che abbia voluto così rifarsi del guadagno che avrebbe voluto cavare dall’unguento, secondo lui, sperperato.
Ma, già da tempo, il suo cuore, preso da satana, si era distaccato da Gesù, e già gli pesava quella vita randagia che non offriva nessuna speranza alle sue ambizioni.
Egli aveva dovuto, a poco a poco, abituarsi a criticare quello che diceva e operava Gesù, e a vedervi tenebre e contraddizioni; tutto raccolto nel proprio orgoglioso giudizio, aveva dovuto, a poco a poco, concepire una nascosta avversione per Gesù, le cui particolari tenerezze per Giovanni avevano dovuto profondamente urtarlo.
Satana gli caricò le tinte delle sue critiche e le ombre delle sue tenebre, ed egli credé ormai di trovarsi di fronte a un impostore o a un illuso sognatore di chimere e di frottole. Guardò tutto dal suo corto angolo visivo, non seppe neppure sospettare che, in ciò che gli appariva oscuro potesse, esservi il piano di un disegno futuro, e cominciò a trarre utile dal denaro che portava per i bisogni di tutti, denaro affidato a lui. Il rubare, il turlupinare, il mentire gli abbassarono talmente il tono del cuore che divenne avaro, e guardò la borsa che portava come sua proprietà; lo spirito in lui era come morto per il peccato, e l’abbrutimento lo portò all’ultima degradazione. Il suo cuore dovette essere soprattutto oppresso da un senso strano di dispetto, e le parole di amoroso rimprovero che Gesù non dovette mancare di dirgli, lo chiusero in un’ostilità sprezzante che lo decise al tradimento. Duro di cuore e pertinace di volontà, orgoglioso e insofferente di rimproveri, riguardò Gesù come se gli fosse stato nemico e come tale lo barattò, per disfarsene; la reazione di sterile compatimento umano che ebbe quando lo seppe condannato a morte, conferma questa sua ostilità irragionevole, perché è proprio dell’odio senza veri motivi, passare dall’ostilità alla compassione, quando si vede appagato e non trova più motivo di odiare.
Giuda fu preso da satana, e fu preso perché non corrispose alla grazia; non credé più; divenne un critico stolto della sapienza e delle opere di Gesù, e si chiuse nel suo cupo e desolante mutismo. Avviso alle anime consacrate al Signore le quali possono facilmente essere prese nei lacci del tentatore, quando danno corso alla loro natura, e rifiutano di farsi guidare nelle vie di Dio dall’umile sottomissione a chi rappresenta loro Gesù Cristo!
I principi dei sacerdoti avevano stabilito di non catturare Gesù nelle feste pasquali, ma l’offerta di Giuda li incoraggiò a farlo e, pensando di non poter avere un’occasione più propizia, promisero e diedero al traditore trenta monete d’argento, quanto era il prezzo di uno schiavo. Giuda intascò il denaro, e d’allora cercò il momento opportuno per consegnare il maestro nelle mani dei nemici.

La miseria della corrispondenza umana
Mentre l’apostolo infedele preparava l’insidia mortale, il Redentore pensava a dare agli uomini la massima testimonianza del suo amore. Era il primo giorno degli azzimi, cioè il primo giorno della solennità pasquale, alla sera del quale doveva mangiarsi l’agnello, e gli apostoli domandarono a Gesù dove dovessero preparare il banchetto. Gesù li indirizzò ad un amico, dando loro dei segni per rintracciarlo. Doveva essere un suo fedele seguace perché Gesù gli fece dire che il suo tempo era vicino, cioè che si avvicinava l’ora del suo sacrificio supremo, e desiderava da lui quella testimonianza d’amore. Fattosi sera, cioè dopo le sei pomeridiane, Gesù sedette a mensa con i suoi discepoli.
L’ordine che si seguiva nella cena pasquale era il seguente: la sera del 14 del mese di Nisan s’immolava l’agnello e lo si arrostiva in modo da non romperne, in alcun modo, le ossa. Verso la notte i convitati si radunavano intorno alla mensa, e il capo di famiglia, presa una coppa di vino temperata con l’acqua, benediceva Dio per aver creato il frutto della vite, e poi beveva lui e faceva bere i commensali. Veniva poi portata una bacinella d’acqua per lavarsi le mani, e dopo si apprestavano le vivande, cioè l’agnello, il pane azzimo, cotto in sfoglie sottili, una tazza d’aceto o d’acqua salata in memoria delle lacrime versate dagli Ebrei nella schiavitù, e una salsa chiamata charoseth, con erbe amare. La salsa color mattone ricordava i mattoni fabbricati nella schiavitù, e le erbe amare le amarezze sofferte; ognuno ne mangiava, e dopo s’intonavano i salmi 112 e 113, bevendo poi di nuovo il vino e lavandosi le mani. Il capo di famiglia distribuiva a ciascuno il pane e l’agnello, e una terza coppa di vino detta coppa di benedizione e, quando tutti avevano bevuto, s’intonavano i salmi da 114 a 117 e si beveva di nuovo.
Gesù Cristo osservò queste cerimonie prima di donare se stesso nell’Eucaristia; e, mentre i suoi cari mangiavano, disse loro, in tono di profondo dolore, che uno di essi lo avrebbe tradito. Egli voleva spingere Giuda al pentimento prima di istituire il sacramento dell’Amore, e voleva che la stessa impressione di pena e di sgomento, provata dagli apostoli a quell’annuncio, lo avesse scosso. Ma Giuda non solo non si commosse, ma ebbe l’impudenza di domandare se fosse lui quegli di cui parlava. Non credendo più nel Maestro, suppose che qualcuno gli avesse svelato il tradimento e, per assicurarsene e nello stesso tempo dissimulare, glielo domandò. Gesù gli rispose con un cenno o con parole sommesse che era proprio lui, in modo però che gli altri non se ne accorgessero. La sua immensa carità non volle che fosse coperto di obbrobrio innanzi a tutti, e che fosse stato oggetto di violenta reazione. Il suo amore avrebbe voluto evitare che il traditore fosse stato presente al miracolo grandissimo che stava per compiere; ma Giuda rimase, e uscì solo dopo aver consumato il sacrilegio.

Gesù si dona nell’Eucaristia.
Preso il pane, il Redentore lo benedisse, lo spezzò, e lo diede ai suoi discepoli, dicendo: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo. Dicendo queste parole, transustanziò la sostanza del pane in quella del suo Corpo, dandosi vivo e vero in quel mirabile cibo. Egli non parlò di simbolo del suo Corpo, ma disse puramente e semplicemente che quel pane era il suo Corpo, aggiungendo – come dice san Luca (22,19) –, che era proprio il Corpo che si sarebbe offerto alla morte per la salvezza di tutti. Dunque non si poteva equivocare in nessun modo. Dopo il pane, distribuì il vino, transustanziandolo nel suo Sangue, nel sangue del nuovo testamento che doveva essere sparso per la remissione dei peccati di molti, cioè di tutti come dice chiaramente il testo greco.
Gesù soggiunse che non avrebbe più bevuto del frutto della vite, fino al giorno in cui lo avrebbe bevuto nuovo nel regno del Padre suo. Con queste parole, volle dire apertamente che la sua vita mortale era al termine, e volle promettere la risurrezione. Egli non lo avrebbe più bevuto così come lo vedevano, ma risorto da morte avrebbe bevuto con loro mentre si inaugurava il regno di Dio sulla terra, come difatti avvenne nei quaranta giorni nei quali dimorò fra gli apostoli dopo la risurrezione.
Cantato l’inno, cioè i salmi da 114 a 117, Gesù si avviò al monte Oliveto per pregare. Era mesto, e camminando con i suoi cari disse loro che essi, in quella notte, si sarebbero scandalizzati di lui e sarebbero fuggiti come pecorelle sbandate. Ecco la risposta che avrebbero dato a Lui che con infinito amore si era donato loro nella Cena! Pietro protestò che sarebbe stato pronto a morire, protestò anche dopo che Gesù gli predisse che l’avrebbe rinnegato prima del canto del gallo, cioè tre volte prima che si facesse giorno, protestò insieme a tutti gli altri apostoli, ma la protesta non servì a nulla e, posto nell’occasione, spergiurò persino di non conoscere il suo Maestro!
Deve dirsi che l’umanità così ha risposto all’amore di Gesù Sacramentato: rinnegandolo praticamente. Come può dirsi, infatti, che si conosca Gesù, quando lo si riceve così raramente e così male? Chi sa di avere Gesù Cristo presente realmente nei santi tabernacoli, come può lasciarlo solo e abbandonato?
Oh, se si gustasse un po’ quella vita profonda e silenziosa che si sente dall’Ostia immacolata; se si dicesse una parola filiale e sincera al Redentore, come si avvertirebbe la sua presenza, e come si sentirebbe il bisogno di non abbandonarlo mai più! Non è un negare Gesù innanzi al mondo il trattarlo così male nell’Eucaristia? Non è un dire con Pietro: Io non lo conosco? La vita di un fedele – e molto più di un sacerdote –, dev’essere una perenne confessione del Mistero di fede come la Chiesa chiama l’Eucaristia.

L’orazione nell’orto
Finita la Cena, Gesù si avviò verso un orto chiamato Getsemani, cioè strettoio d’olio, dove soleva raccogliersi per pregare. Doveva essere di proprietà di qualche amico o discepolo, avendovi Egli libertà di entrare. Per non contristare i suoi cari, li lasciò all’entrata dell’orto e prese con sé soltanto Pietro, Giacomo e Giovanni, raccomandando loro di vegliare con Lui che aveva l’anima triste sino alla morte. Il testo evangelico è di una semplicità e laconicità impressionante, ma quello che ci dice dell’agonia del Signore lascia nell’animo un profondo senso di compassione, e ci concentra nel mistero dell’ineffabile angoscia che Egli soffrì. In quel momento si sentì gravato dai peccati passati, presenti e futuri di tutto il mondo, e ne ponderò l’orrore. Tre volte si sentì venir meno, e pregò il Padre che avesse allontanato da lui, se possibile, quel calice amaro; tre volte perché tre volte fu oppresso mortalmente: fu schiacciato sotto il peso dei peccati degli uomini, sotto il peso delle agonie e dei dolori della sua Chiesa, e sotto l’angoscia dei suoi imminenti tormenti. Quello che soprattutto lo fece agonizzare fu l’offesa di Dio, della quale ponderava tutto l’orrore, e l’ingratitudine umana verso tutte le grazie che Egli stava per versare sulla terra. La ripugnanza poi della sua umanità verso la morte fu come la sintesi e il concentrato di tutta la ripugnanza umana verso il dolore e la morte, ed Egli sentì tale agonia che – come dice san Luca (22,44) – sudò vivo sangue.
La stessa agonia che soffrì gli fece fare il sacrificio di se stesso al Padre, in un abbandono pieno alla volontà di Lui, di modo che la sua offerta fu tale sublime immolazione che la povera mente umana non può comprenderla. Egli fu veramente come stretto nel torchio; si sentì come stirare e spezzare i nervi e il cuore, si sentì oppresso da tenebre interiori spaventose, accresciute in Lui – come ci dicono i santi mistici –, dalle violente incursioni di satana che tentava distoglierlo col terrore dal suo sacrificio. In quest’agonia Egli si sentì solo, poiché i suoi apostoli, presi dalla tristezza, e forse per l’umidità stessa della notte, si addormentarono. Gesù se ne lamentò specialmente con Pietro che pur gli aveva fatto tante proteste d’amore, ma essi, lungi dal vigilare, erano sempre più aggravati dal sonno. La terza volta che andò a svegliarli, Gesù disse loro in tono di grande amarezza: Dormite pure e riposatevi; ecco è vicina l’ora […] alzatevi andiamo. Egli volle dire loro che ormai era inutile ogni ulteriore vigilanza e non c’era più tempo per la preghiera; il pericolo era imminente, il traditore già veniva, non gli rimaneva che andare incontro alla morte.
Gesù Cristo sta nell’Orto della sua Chiesa e, nascosto nel suo tabernacolo d’amore, prega e si offre al Padre. Là Egli continua misticamente la sua agonia, e là vuole i suoi figli, perché veglino e preghino con Lui. Quale dolore, per Gesù, vedere che i suoi figli dormono nella notte dei loro peccati, e sognando le chimere del mondo, lo dimenticano. Le grazie particolari che il Redentore dona a quelli che vegliano con Lui intorno ai tabernacoli santi, e a quelli che gli fanno compagnia nell’agonia del giovedì, mostra quanto Egli abbia cara la nostra veglia amorosa.
Il mondo congiura sempre contro di Lui; l’ingratitudine umana lo tradisce, ed Egli cerca i cuori che possono consolarlo. Oh se vigilassimo con Lui, quante tentazioni vinceremmo, e a quali altezze di perfezioni saliremmo! Noi crediamo cosa da nulla il poltrire nella nostra accidia spirituale, eppure è proprio essa la causa del nostro decadimento spirituale! Vigiliamo e preghiamo per contrapporci al mondo che vigila per tramare insidie alla Chiesa, e siamo i suoi difensori non con semplici promesse, ma con l’attività di un profondissimo amore e di un ardente apostolato.

La cattura di Gesù
Mentre Gesù ancora parlava ai suoi apostoli, Giuda avanzò, e con lui, a una certa distanza, una gran turba armata di spade e di bastoni, mandata dal sinedrio. Il traditore avanzò verso Gesù e, secondo il segnale che aveva dato, lo baciò per additarlo con sicurezza agli sgherri. Quel bacio fu per il Redentore un dolore inconcepibile, non solo perché menzogna spaventosamente crudele, ma perché fu come il bacio datogli dal peccato stesso. Non si può misurare che cosa sia stato il contatto della menzogna con l’eterna verità e del peccato con l’infinita santità!
Gesù Cristo non rifiutò il bacio di Giuda, anzi chiamò questi amico, in segno di misericordia, e gli domandò perché fosse venuto, per fargli ponderare il passo che aveva dato. Forse, al contatto del volto divino di Gesù e alle sue parole dolcissime, cominciò in Giuda il sentimento di profondo rimorso che avrebbe potuto essere pentimento mentre, per sua colpa, divenne disperazione. Egli non resistette all’interrogazione soavissima del Maestro, e poiché gli sgherri avanzarono per catturare la Vittima designata, fuggì, errando per le valli, in preda a un’agitazione spaventosa.
Nel vedere i manigoldi stringersi minacciosi intorno al Signore, Pietro sfoderò una spada che aveva portato con sé proprio in previsione di un pericolo notturno, e amputò l’orecchio destro di un servo del principe dei sacerdoti. Non aveva saputo dargli amore, vigilando nella preghiera, e pretese dargli aiuto, difendendolo. L’impeto che ebbe fu una vera tentazione di satana, il quale, astutissimo com’è, volle metterlo nella condizione di compromettersi con l’autorità e di essere più facilmente spinto a rinnegare il Maestro.
Satana, con quell’atto inconsulto di coraggio e di zelo, lo predispose al peccato che stava per commettere, gli diede coraggio per ferire il servo, e gli tolse il coraggio per confessare il Signore! Certo, l’aver ferito il servo del principe dei sacerdoti comportava per lui un compromesso penale, ed egli, quando si trovò di fronte alle serve e ai circostanti che asserivano essere lui uno dei discepoli del Redentore, negò ripetutamente perché temette di essere coinvolto con Gesù Cristo, e di poter pagare la pena della ferita fatta al servo del sacerdote. Gesù Cristo fece capire a Pietro prima, e poi a tutti quelli che lo circondavano che quello che avveniva era precisamente il compimento delle Scritture. Se Egli avesse voluto impedirlo, lo avrebbe potuto, domandando al Padre, più di dodici uomini, dodici legioni di angeli; ma doveva svolgersi ciò che era stato predetto. Egli lasciava il corso alle libere volontà umane, dominandole non con la forza ma utilizzando la loro stessa perversità al compimento dei disegni del suo amore. Gesù Cristo non volle dire che ciò che succedeva era fatale, ma che era stato già predetto, e che costituiva, perciò, una parte del disegno divino che si sviluppava fra le libere volontà degli uomini.

La fuga degli apostoli
I discepoli, che frattanto si erano radunati intorno a Gesù, attratti dall’insolito fragore delle armi, visto che Gesù non si era difeso né aveva permesso di difenderlo, presi dal panico, lo abbandonarono e fuggirono. Fuggirono tutti, senza eccezione; solo Giovanni, poi, ritornò sui suoi passi e lo seguì, e Pietro, dopo il primo sgomento, si mise dietro a Lui da lontano, per vedere dove andassero a finire quelle violenze. Lo seguiva da lontano perché il suo cuore e la sua fede erano già lontani dal suo Signore; lo seguì da lontano, proprio come quei cattolici senza vita e senza coraggio che non sanno rendere testimonianza della loro fede, e vogliono seguire il Re divino senza compromessi! Tutto l’amore dunque che Pietro aveva detto di avere per Gesù, si era ridotto a questo! Ma, dal seguire il Signore da lontano al rinnegarlo il passo fu breve, e Pietro, dopo poco, giurò di non averlo mai conosciuto, proprio quando il Maestro divino si appellava alla testimonianza dei suoi discepoli!

Il tribunale di Caifa
Tutto il processo, inscenato dai principi dei sacerdoti e dal sinedrio, era semplicemente una formalità; essi, infatti, non cercavano la verità ma i falsi testimoni, non indagavano sulle supposte responsabilità del Redentore, ma volevano ad ogni costo disfarsene, pur serbando un’apparenza di legalità. È impressionante pensare che gli stessi falsi testimoni, prezzolati per mentire, non poterono accusarlo verosimilmente, tanta era la sua santità, e poterono solo riportare, falsandole, le parole che aveva dette, guardando il tempio. Egli, infatti, non aveva detto di poter distruggere il tempio e riedificarlo in tre giorni ma, parlando del suo Corpo, aveva detto ai suoi nemici: Distruggetelo voi, e io in tre giorni lo riedificherò.
La falsa testimonianza, benché avesse deformata la verità, non era sufficiente a pronunciare una sentenza di morte, e perciò il sommo sacerdote, con diabolica malizia, interrogò solennemente Gesù Cristo sulla sua divinità; lo scongiurò, per il Dio vivente, di dirlo, perché sapeva che Egli non l’avrebbe negato, e perché sperava che, negandolo per timore, si fosse da se stesso sfatato. Dio permise tanta malignità, perché volle che solennemente, innanzi al sacerdote, dalla bocca stessa del Figlio suo fosse stata dichiarata la verità.
Vi fu un momento di silenzio nell’assemblea. Caifa fissava Gesù con uno sguardo ipocrita e maligno, contento di averlo messo alle strette.
Gesù s’illuminò di un insolito splendore di maestà, e rispose non solo che Egli era il Figlio di Dio, ma che un giorno sarebbe ritornato sulle nubi del cielo con grande maestà, per giudicare tutti e per giudicare quelli che, in quel momento, presumevano di giudicarlo. Caifa, a quella solenne dichiarazione, finse d’addolorarsi, si lacerò le vesti, proclamò che Egli aveva bestemmiato, eccitò l’ira dell’assemblea, lo fece dichiarare reo di morte e lo abbandonò agli obbrobri e alle percosse della canaglia.
In quell’aula tenebrosa iniziò la lotta contro il Redentore; lotta di calunnie e di persecuzioni che dura tuttora nel suo Corpo mistico, specialmente oggi. Ma tutte le persecuzioni e gli obbrobri non potranno mai distruggere la verità, e quando la nequizia umana avrà raggiunto il culmine di ogni nefandezza, allora la divina giustizia si manifesterà, il mondo sarà sconvolto dalle ultime tribolazioni, e il Giudice eterno verrà a giudicarlo. Non ci scandalizziamo del fugace trionfo degli empi; non ci uniamo al loro rauco coro, mormorando della divina provvidenza; non ci uniamo a quelli che rinnegano il Redentore ma confessiamo la nostra fede a fronte alta, e piangiamo amaramente sui nostri peccati e sui tristissimi momenti che attraversiamo. Preghiamo e vigiliamo con l’azione per tutelare l’onore di Dio; preghiamo e confidiamo sospirando al regno del Re d’Amore, preghiamo e uniamoci, con la vita veramente cristiana, alla confessione del Redentore che i martiri fanno col loro sangue!

Il consiglio del sinedrio e la disperazione di Giuda
Un giudizio e una condanna fatti di notte erano legalmente nulli, perciò il sinedrio, appena fattosi giorno, si radunò nuovamente per ripetere sommariamente il giudizio, e per stabilire il genere di morte che voleva dare al condannato Gesù. I Romani avevano lasciato ai Giudei una certa indipendenza nei giudizi che riguardavano la loro legge religiosa, e perciò Caifa maliziosamente aveva scongiurato Gesù in nome di Dio di dire se Egli era il Cristo, il Figlio di Dio, per condannarlo come bestemmiatore, e non uscire dal campo strettamente religioso. Egli sperava, così, di avere più facilmente, da Pilato, la sanzione della sentenza.
Durante il processo, com’era costume, Gesù fu slegato e, quando fu dichiarata la sentenza di morte, fu di nuovo legato e condotto così dal governatore romano, senza del quale nessuna sentenza capitale poteva aver corso.
Con quanta ira e con quanto disprezzo quei giudici iniqui trattarono il Redentore!
Lo abbandonarono prima, tutta la notte, ai maltrattamenti e agli scherni della plebaglia e dei soldati che lo custodivano e, coperto di sangue, di sputi e di obbrobrio, lo trascinarono attraverso le strade pubbliche al pretorio, volendo così sfatare il prestigio che Egli aveva sul popolo. In pochi giorni si era cambiato l’atteggiamento della moltitudine che prima l’aveva accolto trionfante e, al grido di benedizione: Benedetto Colui che viene nel nome del Signore, era subentrato quello di morte: Sia crocifisso.
Eppure quella massa di gente, che così gridava, era stata, per la maggior parte, ricolma di benefici spirituali e temporali dal Redentore, e gli era corsa dietro tante volte, con un amore che sembrava incrollabile!
È terribile! È per noi disgustante considerarlo, eppure così sono tante volte gli uomini, così siamo stati noi cento volte col Re divino! In un momento di fervore l’abbiamo benedetto, accogliendolo in trionfo, e in un momento di tenebre, nel contrasto di qualche nostro interesse o di qualche passione malsana, lo abbiamo rigettato, e con la colpa lo abbiamo tante volte crocifisso nel nostro cuore!
Giuda non poté rimanere indifferente alla sorte del suo Maestro, e dovette informarsi dell’esito del processo. Forse si aggirò intorno alla casa del sacerdote, sperando sempre in qualche colpo di scena provocato dal Signore. Aveva perso la fede in Lui, ma non aveva potuto dimenticare le cose mirabili che aveva visto in tre anni; riguardava Gesù come un profeta fallito, ma inconsciamente credeva ancora che avesse potuto sgominare, con un prodigio, i suoi avversari. Lo credeva e lo sperava, perché già il rimorso gli saliva nel cuore come una marea soffocante. Egli aveva pattuito con i sacerdoti il tradimento ma era rimasto scontento anche della ricompensa avuta, poiché si aspettava e aveva sognato una grande ricchezza per quel colpo di mano. Vedendosi ricompensato solo col prezzo di uno schiavo, s’era adirato contro il sinedrio, e auspicava che fosse stato confuso da Gesù con un atto di potenza. Forse gli rimaneva ancora un amore naturale verso il Maestro divino, non potendo dimenticare certi ineffabili momenti di vita spirituale passati con Lui; perciò, quando lo vide passare tra gli sgherri, coperto di sangue e di sputi, insultato, malmenato, vilipeso, eppure placido e rifulgente di bontà; quando vide che andava verso il pretorio, e che dopo poco sarebbe stata ratificata la sentenza di morte, fu preso da grande disperazione.
Non riacquistò la fede in Gesù, non lo credé Figlio di Dio, ma lo compassionò come un buon uomo, innocuo e pacifico che non meritava quel trattamento; si sentì sconvolto dal rimorso di averlo consegnato in mano a gente così scellerata; pensò di poterlo far liberare ritrattando il suo turpe contratto, e corse dai principi dei sacerdoti, dicendo: Ho peccato, avendo tradito il sangue innocente. Nel tradirlo e venderlo ne aveva detto certamente gran male, perché aveva voluto, in qualche modo, giustificare il suo vile mercato; al suo animo sconvolto dai pensieri dell’orgoglio e dell’interesse insoddisfatto, Gesù era apparso spregevole ma, il vederlo condannato a morte, gli faceva nascere nel cuore il rimorso di averlo accusato e denunciato ingiustamente, e perciò lo proclamò innocente di quello che poteva meritare la morte: Ho peccato, avendo tradito il sangue innocente. Se si fosse interamente ricreduto sul conto del Redentore, sarebbe andato, prima di tutto, a gettarsi ai suoi piedi; non lo fece perché volle seguitare a non credergli, e pensò solo d’intervenire per impedire che fosse trascinato a morte.
Nel suo orgoglio aveva voluto persuadersi di aver reso un servigio alla causa d’Israele tradendolo, cioè facendo cessare, secondo lui, un insieme d’ingenuità sognatrice e d’inganni; s’illudeva d’aver avuto importanza presso i sacerdoti, e andò da loro per far valere la sua incompleta ritrattazione. Il modo sprezzante col quale fu accolto finì di sconcertarlo e di gettarlo nella disperazione. Essi mostrarono di essersi serviti di lui semplicemente come di un manutengolo che non importava loro il suo nuovo orientamento verso il Signore, essendo affare che riguardava lui. La sua rettifica, del resto, era una condanna del loro operato, perché, come giudici, avrebbero dovuto constatare l’innocenza del condannato, e questo accrebbe il loro dispetto nel rispondergli.
Giuda si sentì sconvolto da quella risposta sprezzante, andò al santuario e vi gettò per terra le monete ricevute; corse come forsennato per la valle della Geenna; fu assalito certamente da violentissime tentazioni diaboliche e, trovato un albero, vi passò un laccio, forse la sua stessa cintura, e s’impiccò. Negli Atti degli Apostoli (1,18) è detto che gli si aprì il ventre e si sparsero tutte le sue viscere; questo avvenne certamente perché, spezzatosi il ramo dal quale pendeva, sbatté contro le pietre col ventre già rigonfio per la morte violenta.
Questa fu la fine del traditore, fine disperata che lo condusse alla perdizione eterna!

La rovina spirituale non viene in un momento…
Giuda aveva avuto grazie immense stando vicino a Gesù; aveva anche fatto miracoli, quando fu mandato con gli altri apostoli a preparare il campo al Signore; aveva ascoltato la parola di vita, ma non ne aveva fatto profitto anzi, al suo intelletto turbato, era apparsa persino un insieme di frottole. Si era fatto dominare dal proprio giudizio, dalla propria volontà, dalla propria brama di vantaggi temporali, non aveva ascoltato i rimproveri e le esortazioni di Gesù e, per attanagliarsi maggiormente ai propri giudizi, s’era chiuso in un mutismo strano, ed era caduto fino al fondo dell’abisso!
La perdizione di un’anima non viene in un momento, ma procede a gradi; satana, nell’accalappiarla, fa come il serpente che tira a sé l’incauto uccello. L’animaletto si lascia prendere dal bagliore ipnotizzante di quegli occhi, e non sa staccarsene; dimentica di avere le ali, e diventa preda dell’insidioso. Così avviene all’anima incauta: il serpente l’ha nel suo stesso intelletto; comincia a farsi affascinare da false luci, diventa critica e ipercritica sulle cose divine, dà importanza ai propri pensieri, non vede che in se stessa, non ascolta consigli, anzi reagisce agli stessi consigli dell’obbedienza, si crede vittima d’inganni, vede la sua via come oppressione e infelicità, la provvidenza del suo dolore e delle sue prove come una fatalità, si lascia trascinare in un’atmosfera naturalistica, nella quale le passioni germinano come in proprio ambiente, si allontana dalla preghiera e dai Sacramenti, concepisce un certo senso di noncuranza e persino di disprezzo per i mezzi di salute, e cade nel fondo della perdizione!
Bisogna vigilare attentamente sui primi movimenti di dissesto dell’anima e, invece di allontanarsi da Gesù, bisogna ricercarlo con maggiore ardore, attaccandosi a Lui con amore vivo e immolandosi nel compimento della divina volontà. Quello che ci agita non viene da Dio, ma dal maligno, e l’orgoglio maledetto è il tristissimo frutto che satana fa spuntare nel cuore che vuol affascinare. Umiliamoci, preghiamo, lasciamoci guidare dai sacerdoti, confidiamo in Dio, viviamo nel cammino della croce, e guardiamo con sospirato amore alla Meta eterna!

L’eredità del traditore
I principi dei sacerdoti raccolsero le monete gettate da Giuda, ma non vollero metterle nel tesoro del tempio, essendo prezzo di sangue. Era proibito offrire al Signore denaro di cattivo acquisto, ed essi, senza volerlo, venivano a confessare la turpitudine del patto stipulato con Giuda. È evidente, poi, che, non volendolo riporre nel tesoro, essi l’avevano rilevato di là, quasi spesa fatta per liberare la religione dalle insidie di un seduttore. Stabilirono, quindi, di comprare il Campo del vasaio, cioè un piccolo appezzamento di terreno situato a sud di Gerusalemme, sul versante meridionale della valle di Ben-Hinnon che era stato sfruttato da un vasaio, ed era posto in vendita; questo campo, acquistato con denaro immondo, fu adibito ad un uso riguardato da essi immondo, cioè alla sepoltura dei forestieri. Esso fu chiamato dall’aramaico: Aceldama, cioè Campo del sangue, e rimase come monumento inalienabile del tradimento di Giuda e delle loro perversità. Un campo venduto come sepolcreto, infatti, non poteva ritornare più al padrone neppure in occasione del Giubileo, e rimaneva sempre adibito a quell’uso, come terreno immondo.
L’evangelista soggiunge che, con quella compra, si avverò ciò che era stato predetto dal profeta Geremia, e cita il testo della profezia. Questo testo non si trova né in Geremia né in Zaccaria, e perciò doveva far parte di qualche profezia di Geremia non giunta fino a noi, come crede lo stesso san Girolamo, il quale attesta di averlo letto in un libro apocrifo che lo riportava. A noi sembra che questa sia la spiegazione più semplice e più naturale, perché i Testi di Geremia e di Zaccaria, ai quali si riportano alcuni, non parlano dell’acquisto del campo del vasaio fatto col prezzo dell’apprezzato dai figli d’Israele. In Geremia (32,7.8) si parla dell’acquisto di un campo di Anatot, fattogli fare dal Signore per annunciare che ancora si sarebbe venduto e comprato, in Israele, e in Zaccaria si parla dei trenta denari dati come mercede del ministero del profeta (11,12-13). Ora è chiaro che questo prezzo non poteva essere annuncio di quello dato a Giuda, perché il traditore lo ricevette come ricompensa del proprio misfatto, non come apprezzamento del ministero di Gesù Cristo.
I sacerdoti non pensarono ad apprezzare neppure con una moneta spregevole un ministero che essi non solo non riconoscevano, ma che stimavano un’insidia per la religione.
Giuda, dunque, che aveva sognato grandezze e ricchezze temporali, e che per questi sogni si era reso infedele al suo Maestro e l’aveva tradito, non raccolse dal suo tradimento che la morte disperata, e non lasciò, come eredità del suo delitto, che un campo di morte!
Questa è l’eredità di chi tradisce il Signore per aspirare alle vane illusioni della vita materiale e peccaminosa: disperazione e morte desolata! Cerchiamo Dio solo, e nelle tribolazioni della vita solleviamo a Lui il nostro cuore, sospirando alla Patria eterna! La sete dell’interesse e del denaro può distruggere in noi ogni santa aspirazione, e può abbrutirci fino all’estrema degradazione. Diamoci a Dio con tutta l’anima, e sulla terra teniamo fisso il cuore al Calvario che è la via maestra che ci conduce alla felicità eterna.

Gesù Cristo innanzi a Pilato
I Romani erano soliti amministrare la giustizia per le cause criminali allo spuntare del giorno, e i principi dei sacerdoti, dopo aver condannato il Redentore, lo condussero a Pilato per la ratifica della sentenza. Accortisi però che il preside romano non era per nulla disposto a sottostare alle loro pressioni – come si rileva dal Vangelo di san Giovanni –, presentarono la causa sotto l’aspetto politico e accusarono il Redentore di sedizione, come colui che si era dichiarato Re.
Gesù era tutto sfigurato dai maltrattamenti della notte, ma il suo aspetto aveva una singolare maestà che incuteva rispetto; Pilato, vedendolo credé di avere davvero, davanti a sé, il Re spodestato dai Giudei, e glielo domandò. Dal modo come lo aveva interrogato, i principi dei sacerdoti capirono che era stato favorevolmente impressionato da Lui, e perciò cominciarono ad accusarlo in tutti i modi, per distruggere quella buona impressione. A quelle accuse, Gesù non rispose nulla.
Che cosa avrebbe potuto rispondere a calunnie architettate appositamente per condannarlo?
Avrebbe dovuto spiegare innumerevoli cose, delle quali nessuno avrebbe potuto intendere il vero significato, avrebbe parlato invano, perché i suoi nemici erano già decisi a sopprimerlo; Egli, dunque, tacque. Ma nel suo silenzio, quanta dignità, quanta maestà, quanta eloquenza d’amore che non sfuggì, inconsciamente, al preside, e suscitò in lui una grande meraviglia.
Egli era abituato ai clamorosi dibattiti dei processi criminali e, specie quando gli si portava a ratificare una sentenza di morte, sapeva, per esperienza, quanto il condannato gridasse e cercasse difendersi con tutte le sue forze; ora, invece, si trovava di fronte ad una calma maestosa, serena, amorosa e paziente che gli suscitava stupore grandissimo.
Quel silenzio, poi, era la più eloquente affermazione d’innocenza, e faceva un contrasto vivo con l’irruente odio dei sacerdoti, i quali, nel loro stesso modo di parlare, si svelavano, e manifestavano l’invidia che li ossessionava.
Il popolo assisteva con grande curiosità, come suole avvenire in simili circostanze, ma taceva; Pilato credé di capire che non c’era identità di vedute tra la moltitudine e i sacerdoti, e pensò di rendere vana la trama della congiura, appellandosi al popolo, e liberando il prigioniero con un atto di clemenza che di per sé avrebbe troncato il processo.
Durante le feste di Pasqua, in memoria della liberazione del popolo dalla schiavitù, si soleva liberare un carcerato, a richiesta di popolo; i Romani avevano mantenuto questa antichissima usanza. Ora si trovava imprigionato un pessimo soggetto, chiamato Barabba che significa: figlio del padre e, secondo alcuni codici, Gesù Barabba; era un delinquente pericoloso e prepotente che in una sedizione aveva commesso un omicidio, ed era in attesa della condanna capitale. Pilato pensò che per far liberare Gesù, da lui già conosciuto come benefattore del popolo, e che era tutto mansuetudine e carità, sarebbe bastato proporlo alla moltitudine, per la rituale liberazione, di fronte a Barabba, ladrone, sedizioso e omicida.

L’avviso della moglie di Pilato
Pilato fece la proposta al popolo, e attese che avesse risposto. Mentre, attendeva, la moglie gli mandò a dire che non s’impicciasse di quel giusto, perché essa aveva avuto molti sogni penosi a causa di Lui. Non sappiamo di qual natura siano stati i suoi sogni né si può dire che siano venuti da Dio. Molti lo suppongono, ma altri credono che siano stati una suggestione di satana, il quale, sospettando in Gesù il Redentore promesso, avrebbe voluto impedirne la morte. Secondo questa opinione, l’arcana pazienza del Signore convinse satana della missione di Lui, e cercò impedirne il compimento; quando vide vano il suo sforzo, allora irruppe in tutta la sua ira, per tentare almeno di vendicarsi.

Giudice il popolo, Pilato se ne lava le mani
Pilato non diede troppa importanza alle parole della moglie, perché credeva ormai di aver trovato il modo di uscire d’impaccio; non aveva pensato alla malignità dei sacerdoti, degli scribi e farisei che non aveva confine; questi, col denaro, comprarono il voto del popolo, e lo indussero non solo a domandare la liberazione di Barabba, ma a pretendere la morte di Gesù.
Finché il popolo avesse chiesto la liberazione del ladro sedizioso e omicida, sarebbe stata un’enormità, ma non un assurdo, dato che il popolo poteva scegliere; ma domandare a gran voce la morte di un innocente, proprio nella solennità della liberazione, a Pilato sembrò tale mostruosità che non seppe trattenersi dal dire con forza: Ma che ha fatto Egli di male? Prima aveva detto: Che cosa dunque farò di Gesù, chiamato il Cristo?, per indurre il popolo a riflettere alla richiesta che faceva; in seguito ne proclamò apertamente l’innocenza, e quasi chiamò la moltitudine a giudicare con lui.
Avrebbe dovuto imporre la sua sentenza, anzi avrebbe dovuto punire i falsi testimoni, ma non ne ebbe il coraggio. Il popolo aveva gridato, erigendosi a giudice, ed egli, quasi esautorandosi, aveva mostrato di non poter contraddire quel giudizio; ricorse perciò ad un gesto che doveva esprimere il suo disinteressamento, e si lavò pubblicamente le mani, dicendo che egli era innocente del sangue di quel giusto. Nel Deuteronomio (21,6) è prescritto ai sacerdoti di lavarsi le mani, per attestare di non aver preso parte all’uccisione di un uomo, trovato morto; forse Pilato s’ispirò a questa cerimonia alla quale aveva dovuto assistere molte volte, ma non rifletté che, con questo, si dava in balìa del popolo che da lui solo reclamava la sentenza di morte, e di morte di croce.
Tutta la moltitudine gridò come un solo uomo, invocando che il Sangue di Gesù cadesse su di essa e sui suoi figli, e non si accorse che, con questo, reclamava da Dio la sentenza di un terribile castigo, poiché al Signore, certo, non poteva essere nascosta la maligna intenzione che esso aveva nel reclamare la morte dell’Innocente.

In Pilato, la “giustizia” degli uomini
Pilato era come la rappresentanza di tutte le ingiustizie che i giudici avrebbero consumate nel corso dei secoli. Di carattere debole, servile e opportunista, cercò di difendere l’innocenza in modo da non compromettere se stesso; cedette per timore, e credé di aver provveduto sufficientemente alla sua coscienza, lavandosi le mani. Gesù Cristo subiva e riparava e, sottomettendosi all’ingiustizia, consolava, in tutti i secoli, gli innocenti condannati dalla malignità umana.
Quante volte l’anima nostra, ascoltando il grido delle passioni, e cedendo alle loro pretese, condanna Gesù alla morte nel suo cuore! Preferisce a Lui la degradazione, la miseria, l’impurità, la violenza e si priva della sua dolcissima grazia!
Quante volte, nella società umana, quelli che governano si lasciano trascinare dalle correnti diaboliche delle sette, e manomettono i sacrosanti diritti di Dio e della Chiesa! Non si rifiuta Gesù Cristo senza condannarlo, ed è impossibile rimanere neutrali o indifferenti innanzi a Lui. Chi si lava le mani, disinteressandosi della sua gloria e dei suoi diritti, li rinnega, li manomette e li conculca. È necessario acclamare Re Gesù Cristo, e vivere della sua vita e del suo amore, condannando il male e le suggestioni diaboliche che tentano di separarci dal suo amore!

Gesù flagellato
Pilato, prima di abbandonare Gesù definitivamente al popolo perché fosse crocifisso, lo fece flagellare, nella speranza di soddisfare la furia sanguinaria di quelli che ne reclamavano la morte. La flagellazione era un supplizio crudele: si legava il paziente ad una bassa colonna, affinché fosse costretto a star curvo e con la pelle bene distesa, e lo si percuoteva aspramente con le verghe o con i flagelli che erano funi di cuoio, terminanti con pezzi di osso o con palle di piombo. I colpi avrebbero dovuto essere limitati, ma praticamente non era così, specie quando la flagellazione precedeva l’esecuzione di una sentenza capitale.
Per Gesù fu asprissima, perché i sacerdoti, avendo capito che il governatore l’avrebbe voluto liberare, dovettero certamente aizzargli contro i soldati e forse li pagarono, perché il supplizio fosse stato mortale.
Come furie, i manigoldi si gettarono addosso al mansuetissimo Agnello, ed Egli fu, in breve, tutto inondato di sangue. La sua pena immensa riparava le impurità della carne, le immodestie e le nudità, ed Egli volle come ammantarsi di un paludamento di obbrobrio e di dolore!
Oh, se si capisse la gravità di certi peccati, e anche di certe semplici immodestie, non si avrebbe il coraggio di unirsi alla crudele masnada dei flagellatori di Gesù! Tu, o anima cristiana, flagelli il Redentore nel tuo medesimo corpo, mostrandoti agli altri per vanità, e così inveisci contro Colui che tanto ti amò! A che serve mostrarti? Che cosa ricavi dallo sguardo impuro che si ferma su di te? E come hai il coraggio di essere pietra di scandalo per tanti che per te dimenticano gli eterni beni del Cielo? Tu, illudendoti, dici che ciò che è bello deve mostrarsi, e non rifletti che non è bellezza ma orrore mostrare la materia ornata di gemme, e nascondere agli sguardi altrui la bellezza spirituale, anzi mostrarla agli occhi di Dio, tutta deturpata e avvilita!

La coronazione di spine
La flagellazione di Gesù Cristo ebbe luogo in pubblico, davanti al palazzo del pretorio; i soldati, ascoltando le grida d’insulto che la moltitudine lanciava contro il Redentore, e specialmente quelle dei sacerdoti che volevano sfatarne ogni prestigio, pensarono diabolicamente di parodiarlo nella regale dignità che tutti gli rimproveravano di essersi attribuita. Lo trascinarono nel pretorio, cioè nell’interno del palazzo del governatore dov’erano di guardia e, radunata tutta la coorte, ossia i cinque o seicento uomini della guardia, lo spogliarono della veste che gli avevano rimessa dopo la flagellazione, e gli misero addosso una clamide rossa di soldato come un manto reale; quindi, intrecciata con giunchi una corona di lunghe e acutissime spine, gliela calcarono sul capo, in modo da ferirlo orribilmente e, come scettro, gli posero nelle mani una canna. Era uno spettacolo terribile, poiché quei barbari si divertivano a schernirlo, a sputargli addosso, e a percuotergli il capo violentemente con la canna, mentre tutta la coorte sghignazzava, mai sazia di tormentarlo gli dava la muta nello schernire il Re divino!
E Gesù taceva, pregava e riparava per i peccati dei capi e dell’orgoglio dei potenti! Subendo quell’obbrobrio spaventoso Egli ridonava all’uomo la corona della sua dignità e, nel medesimo tempo, si coronava Re d’Amore in tutti i secoli. Se si riflette bene, non c’è altra corona che sia per Lui più regale di quella di spine. La corona d’oro e di gemme quasi non gli sta, e quasi lo diminuisce; coronato di spine, invece, è bellissimo, è attraente, è pieno d’ineffabile dolcezza che commuove anche i cuori più ostinati.
Egli, poi, ci ha comunicato la bellezza ineffabile del suo dolore, poiché ogni umiliazione, sofferta per suo amore, e ogni obbrobrio, raccolto per Lui, ci rende coronati di una gloria che nessuna corona regale potrebbe darci.

Caricato della croce
Dopo averlo schernito lungamente per circa due ore, in attesa dei preparativi della crocifissione, lo rivestirono di nuovo della sua veste e lo trascinarono al Calvario. Gli lasciarono la corona di spine, certamente, perché fu ritrovata sul Calvario da sant’Elena insieme alla croce, e lo caricarono del grave peso della croce, come si era soliti costringervi ogni condannato. Lungo la strada, temettero che venisse meno per i gravissimi maltrattamenti subiti, e costrinsero un uomo robusto di Cirene che passava di là, a prenderla per un tratto di strada sulle sue spalle.
Tutto sembrava un avvenimento di comune condanna, e le sue circostanze sembravano fortuite; eppure Gesù Cristo segnava, col suo Sangue preziosissimo, la nuova via che l’umanità doveva percorrere: Egli porta la croce redimendoci, e noi dobbiamo portarla dietro a Lui, compiendo in noi quello che manca della sua Passione. Se non fosse andato Lui avanti, con quale cuore avremmo noi percorso il nostro duro cammino! E se il Cireneo non lo avesse aiutato, non avremmo imparato a portare la nostra croce giornaliera e quelle più gravi che ci capitano, dietro al nostro dolcissimo Signore.
Chi si illude che la vita sia un cammino di gioie materiali, e si getta negli abissi della colpa, si accorge ben presto di percorrere un Calvario più penoso, e va insieme con Gesù come ci andavano i ladri condannati alla medesima pena infamante.
A volte si cade sotto il peso della croce come cadde Gesù, e si stenta a riprendere la via senza un aiuto particolare; ricorriamo a Gesù per sollevarci, e abbiamo la carità di aiutare chi soffre a sopportare con pace maggiore il suo dolore. Una parola di bontà è balsamo nel dolore e lo è soprattutto l’immedesimarci delle pene altrui come se fossero nostre; l’anima non è tanto desiderosa di aiuti materiali, quanto di soccorsi spirituali, e bisogna consolarla prima di tutto con la dolcezza della bontà e della carità.

Crocifisso
Gesù Cristo, strapazzato, insultato e vilipeso in tutti i modi, giunse su di una piccola collina a nord-ovest di Gerusalemme, chiamata Calvario o Golgota, perché aveva la forma di un cranio decalvato; là venivano giustiziati i condannati più pericolosi, affinché la loro morte fosse servita di esempio agli altri. A quelli che dovevano essere crocifissi si dava a bere una miscela di vino e di mirra, per inebriarli e rendere loro meno penoso il supplizio. Il Testo latino dice che a Gesù diedero a bere vino mescolato col fiele, ma nel testo greco la parola tradotta in latino per fiele, ha il significato generale di bevanda amara; san Marco dice esplicitamente che gli diedero da bere del vino mirrato (15,23). La bevanda, per quanto amara, non era disgustosa, anzi era bevuta avidamente dai condannati, consci della terribile crudeltà del loro supplizio. Gesù Cristo l’assaggiò soltanto e non volle berla, per conservare in pieno la sua sensibilità e la sua coscienza, e soffrire maggiormente per nostro amore. Oh, com’è grande questo gesto d’amore sconfinato, e quale vergogna deve fare a noi che misuriamo sempre con estrema grettezza quello che diamo al Signore!
Spogliato violentemente delle vesti, Gesù venne conficcato alla croce. C’erano tre forme di croce; la decussata, in forma di X, la commissa in forma di T, e l’immissa in forma . Siccome sul capo di Gesù fu appiccata la tabella con la condanna, è evidente che la sua croce era immissa.
Al centro della croce ordinariamente c’era un piolo o cavalletto, per sostenere il corpo del condannato quando veniva crocifisso sulla croce già eretta e infissa al suolo. Non risulta che la croce di Gesù abbia avuto questo piolo, perché fu crocifisso a terra e poi sollevato in alto. Da studi recentissimi fatti sulla sacra Sindone di Torino, dov’è impresso il Corpo del Redentore, si è potuto rilevare con certezza come Egli fu crocifisso. I chiodi delle mani furono confitti fra la prima e la seconda linea degli ossicini, là dove i forti tendini anteriori e posteriori del polso congiungono gli ossicini del corpo, quasi in un’unica massa, e dove ha origine un robustissimo legamento che potrebbe sostenere tutto il peso del corpo. Il chiodo, introdotto sotto il lembo inferiore di questo tendine, attaccava la mano in modo irremovibile, e ne rendeva impossibile l’asportazione sia casuale che volontaria.
Come è risultato da un’esperienza fatta su una mano amputata di fresco, il chiodo, penetrando così, non scalfiva neppure le ossa. I piedi vennero forati nel secondo intervallo, alla base delle ossa del metatarso, proprio sotto il malleolo, nel mezzo della convessità del piede. Dalle impressioni della sacra Sindone si rileva scientificamente che i piedi vennero prima forati, e poi sovrapposti e trapassati da unico chiodo. La gamba destra venne fortemente stirata e la sinistra si piegò leggermente al ginocchio, apparendo sulla Sindone più corta di 3 o 4 centimetri della destra. Il chiodo dei piedi, più lungo di quelli delle mani, dentellato nelle coste laterali, si conserva a Napoli nella Chiesa di san Gregorio Armeno.
Spogliato delle vesti per essere crocifisso, apparve in tutta la sua crudeltà lo scempio che s’era fatto del Corpo del Redentore nella flagellazione e nella coronazione di spine.
Nei deprecati tempi del modernismo si tentò di sminuire la grande testimonianza dell’amore di Gesù nella sua Passione, ma le cervellotiche asserzioni vennero smentite dallo studio accurato della sacra Sindone, dopo che fu possibile fotografarla nel 1898, e lo studio scientifico condusse alla più luminosa conferma del racconto evangelico. Stando all’accurato esame che se ne è fatto, il capo di Gesù fu coronato da una calotta di spine che lo trafissero, perforando le vene e le arterie, senza molta lacerazione esterna, ma con molta penetrazione interna. La corona di spine ferì maggiormente il capo nella parte posteriore e propriamente nella zona della nuca, e questo ci fa intendere che Gesù fu crocifisso con la corona di spine, e fu crocifisso a terra; il peso del capo e i colpi del martello che lo fecero rimbalzare sul tronco laterale confissero penosissimamente le spine in tutta la zona posteriore del capo, si riscontrano maggiori grumi di sangue a sinistra della zona della nuca, il che ci può far supporre che Gesù, nell’essere crocifisso, aveva il capo rivolto al cielo, inclinato indietro sul lato sinistro.
I rigagnoli di sangue lasciati dalla corona di spine sul capo del Redentore e impressi nella Sindone confermano, in modo irrefutabile, che Egli fu crocifisso con quella corona perché, se gli fosse stata tolta, il sangue si sarebbe fuso in un unico ammasso.
La guancia destra era gonfiata notevolmente per i colpi ricevuti, il volto era sfigurato dalle percosse e dagli sputi, le labbra erano gonfie. La spalla destra, in confronto della sinistra, era abbassata, come si osserva nella Sindone, con solchi e ferite prodotte da schiacciamento di un corpo pesante, testimonianza della croce da Lui portata su quella spalla, del peso di circa un quintale che aveva dovuto sostenere. Su quella spalla s’era formata una dolorosissima piaga. Solo chi non ha visto la Sindone potrebbe dire che i colpi della flagellazione furono limitati. Il Corpo era tutto striato di colpi crudeli e di piaghe, cominciando dal petto; il ventre, le mani, i fianchi, le gambe, e dietro le spalle la schiena, le reni e i muscoli del bacino, tutto era solcato da innumerevoli ferite, alcune delle quali, specialmente quelle sulle cosce, erano disposte a ventaglio. Queste ferite s’intrecciavano, s’incrociavano, si sovrapponevano, in modo da non lasciare parte sana, e da testimoniare che i colpi erano stati innumerevoli e rinnovati continuamente. Tra le piaghe spiccavano – e spiccano tuttora sulla Sindone –, a due a due, ferite di tre centimetri di lunghezza, inferte con straordinaria ferocia; se ne contavano circa 80, e corrispondevano ai quaranta colpi dati col flagrum romanum che aveva due palle di piombo, riunite da una corta sbarra, dove si attaccava la striscia di cuoio che partiva dall’impugnatura. Il flagello aveva due strisce di cuoio, e non solo strappava la pelle, ma lacerava i muscoli e scopriva le costole e le ossa. Gesù non aveva ricevuto solo i 39 o 40 colpi della legge, ma i carnefici si erano accaniti contro di Lui, fino a formargli veramente una veste di sangue. Così apparve sul Calvario nella sua nudità lacrimevole, e così fu crocifisso!
Quale cuore dato al peccato, e specialmente all’impurità, non si spezza, pensando a tanti dolori inauditi? E chi non s’infiammerà d’amore, pensando all’amore infinito che Gesù Cristo ci ha portato? Come si può ardire di correre dietro alle lusinghe della carne, quando si vede Gesù ridotto in tale stato?

Le derisioni dopo la crocifissione
Per legge, le vesti del condannato spettavano ai carnefici, i quali se le dividevano; perciò i quattro soldati, che avevano crocifisso Gesù, presero le sue vestimenta, e gettarono la sorte sulla tunica inconsutile per non romperla.
Poi si misero a fare la guardia militare al condannato e a due ladroni che frattanto erano crocifissi con Lui. Sulla parte sporgente della croce, in alto, fu posta una tavoletta di legno sulla quale, invece del motivo della condanna, Pilato scrisse in tre lingue: ebraica, greca e latina che quel crocifisso era il Re dei Giudei. Quella scritta contrariò non poco i nemici di Gesù Cristo, i quali videro in essa quasi una sfida alla loro malignità; perciò, non potendo ottenere da Pilato che l’avesse rimossa, cominciarono a schernire il Crocifisso, e tentarono di far passare come una suprema ironia quel titolo.
I soldati o quelli che avevano sentito dire nel processo la calunnia sulla distruzione del tempio, schernirono Gesù su ciò, esortandolo a salvare se stesso dal supplizio che gli era stato inferto. I principi dei sacerdoti, volendo sfatare la soprannaturalità dei miracoli da Lui compiuti, affermarono che Egli, che aveva salvato gli altri, non poteva ora salvare se stesso. Con raffinata malizia, vollero far notare che Dio non lo aiutava in quel supremo momento, nonostante Egli avesse detto di confidare in Lui e di esserne amato; questo, secondo loro, era la dimostrazione che Egli non era Figlio di Dio, e per far risaltare tale conclusione, lo sfidarono a dare la prova della sua divinità, scendendo dalla croce. Lo stesso dicevano i ladroni esasperati di non vedere un miracolo di liberazione, nel quale forse avevano sperato di essere beneficati anch’essi. Gesù non discese dalla croce perché vi era salito per salvarci, e ai ladri rispose con una speciale illuminazione di grazia che fu raccolta solo da uno di essi. Il Padre rispose, però, alla tracotanza degli schernitori, e fitte tenebre avvolsero tutta la terra da mezzogiorno alle tre, seminando tra essi principalmente il terrore.

La Morte
Il Cuore di Gesù era stato soprattutto ferito dall’allusione fatta dai sacerdoti all’abbandono nel quale Dio lo aveva lasciato; con un grido, Egli volle mostrare che, in quell’abbandono, si verificavano le prime parole del salmo 21, e cominciò a recitarlo ad alta voce. Le prime parole Elì, Elì, lamà, sono citate in ebraico dall’evangelista, l’ultima è citata in aramaico; san Marco (15,34) le cita tutte in aramaico: Eloi, Eloi, lamma sabactani?
Egli volle anche giustificare la mancanza dell’intervento del Padre, nonostante la fiducia che in Lui aveva avuta, dichiarandosi abbandonato da Lui, quasi come peccatore e proclamando il mistero di quell’abbandono nell’amorosa interrogazione che gli fece.
L’abbandono era testimonianza dell’immolazione della Vittima; l’interrogazione amorosa: perché mi hai abbandonato? era la testimonianza dell’innocenza della Vittima. Certo, Gesù era in profondissime tenebre interiori, fra spasimi terribili di cuore e di corpo, ma il suo grido al Padre fu tutto uno slancio di fiducia, di amore e di sottomissione. Al suo grido rispose ancora una volta lo scherno dei circostanti, i quali, parodiando le parole del salmo, dissero che Gesù forse invocava Elia per essere liberato. Un altro, ascoltando il suo lamento di aver sete – perché l’arsura della febbre e della perdita di sangue lo consumava –, andò a inzuppare una spugna nella posca dei soldati romani, cioè in una miscela di aceto e d’acqua che essi bevevano, e su di una piccola canna gliela l’offrì. I derisori del suo grido d’angoscia, però, non gli permisero oltre di bere e, staccando la spugna dalle sue labbra, dissero all’uomo pietoso che gliel’aveva porta che era meglio aspettare che Elia venisse a liberarlo. Gesù aveva preso un po’ d’aceto, e in quell’atto s’erano compiuti tutti i vaticini; il suo sacrificio era completo, ed Egli, emesso un alto grido per affidare al Padre il suo spirito, chinando il capo, spirò!
Nell’atto stesso nel quale il Redentore esalò il suo spirito, il velo che copriva il Santo dei Santi nel tempio si squarciò, per dimostrare che la Legge antica era finita, e s’era aperto il cielo, figurato nel Santo dei Santi. La terra tremò, per mostrare così il suo disgusto per il delitto consumato dai Giudei, e le pietre si spezzarono. Nello sconvolgimento tellurico si aprirono anche molti sepolcri, e san Matteo aggiunge che dopo la risurrezione di Gesù Cristo molti corpi dei santi risorsero. Questi corpi di santi, risorti gloriosi dopo tre giorni che la loro tomba era stata aperta dal terremoto, entrarono in Gerusalemme, apparvero a molti per predicare la divinità di Gesù Cristo, e poi ascesero trionfanti con Lui nel Cielo. Forse risorsero i corpi dei patriarchi che più avevano sospirato la redenzione, forse con essi risorse san Giuseppe… Noi non sappiamo nulla in proposito; sappiamo solo che la vittoria di Gesù Cristo sulla morte che lo rese primizia dei risorti – come dice san Paolo (cf Col 1,18) –, trasse dalla tomba molti santi defunti, primizia a loro volta della risurrezione futura di tutti gli uomini.
I fenomeni che avvennero nella morte del Redentore non erano tali da potersi scambiare per fatti naturali e casuali; si sentiva, nella medesima atmosfera, per così dire, la solennità di quello che era avvenuto. Il centurione e i soldati che erano con lui a fare la guardia se ne impressionarono, e riconobbero, nel Crocifisso, il Figlio di Dio. Le pie donne erano in lontananza e piangevano amaramente. In poco tempo il Calvario fu solitario, e le prime ombre della sera cominciarono ad avvolgere tutto.
Quale spettacolo grandioso e solenne era il Crocifisso! Sospeso tra la terra e il cielo, col volto maestosamente sereno e rifulgente d’amore, con le braccia aperte, col capo chinato verso la terra, Egli era la Vittima d’amore che parlava con la sua stessa Morte, e intercedeva per gli uomini.
Se la sola immagine del Crocifisso ci fa tanta impressione, quanto non doveva farne Gesù stesso? Chi può scrutare il mistero di quella morte che fu vita, di quella sconfitta che fu trionfo, di quel silenzio che fu parola eloquente d’amore, ancora viva nei secoli sempre attuale e sempre eterna?

Giuseppe d’Arimatea fa seppellire Gesù nella sua tomba nuova
I corpi dei condannati, secondo la legge romana, venivano lasciati sul patibolo fino a che si fossero putrefatti o fossero stati divorati dalle fiere e dai rapaci. Secondo la legge ebraica venivano tolti e sepolti nella fossa comune, a meno che parenti o amici del condannato non li avessero richiesti al governatore romano. I sacerdoti e gli anziani del popolo avevano premura di togliere dalla croce il Corpo di Gesù e dei due ladri, perché già cominciava la solennità del sabato, e soprattutto avevano premura di seppellire Gesù in modo così obbrobrioso che non si fosse mai più parlato di Lui. Il fatto che Giuseppe d’Arimatea, membro del sinedrio e discepolo nascosto di Gesù, si sia affrettato a domandare a Pilato il Corpo del Maestro, ci fa supporre che qualcosa di sinistro si era progettato nel sinedrio.
Giuseppe era uomo ricco e, come tale, aveva un sepolcro nuovo in una sua proprietà vicino al Calvario, sepolcro che aveva fatto scavare nella pietra.
Per rispetto a Gesù, stabilì di adoperare per Lui quella tomba e, involtone il Corpo in un lungo lenzuolo, ve lo ripose, chiudendone l’entrata con un grande masso. I sacerdoti e i farisei dovettero essere molto contrariati da questa sepoltura onorata, resa a Colui che credevano di aver vinto per sempre, o la premura con la quale ne era stato chiesto a Pilato il Corpo li insospettì e fece loro ricordare la profezia che Egli aveva fatta sulla sua risurrezione. Perciò il sabato andarono dal governatore e gli domandarono che avesse fatto custodire la tomba fino al terzo giorno, per timore che i suoi discepoli ne sottraessero il Corpo divulgando, poi, la voce della sua risurrezione. Pilato si mostrò annoiato di questa domanda e, poiché essi, per la solennità della Pasqua, avevano già molti soldati a disposizione, rimise loro la cura di custodire il sepolcro. Certamente i sacerdoti e i membri del sinedrio si accertarono prima che nella tomba ci fosse il Corpo perché, senza quest’accertamento, sarebbe stata inutile la loro disposizione. Accertata la presenza del Corpo, richiusero la tomba, suggellarono la pietra, e vi posero un drappello di soldati. Non si accorgevano di preparare, loro malgrado, l’argomento irrefutabile della risurrezione del Signore innanzi a tutti i secoli, e di essere, senza volerlo, gli umili servi della divina provvidenza.
Padre Dolindo Ruotolo