sabato 25 ottobre 2014

IL COMANDAMENTO PIU' GRANDE



 Commento al Vangelo della XXX Domenica TO 2014 A (Mt 22,34-40)
Don Dolindo Ruotolo
Il comandamento più grande
          I farisei, saputo che Gesù aveva ridotto al silenzio i sadducei, ritornarono nuovamente all’assalto per conto loro, sperando di confonderlo sulla Legge, e perciò lo fecero interrogare da un dottore sul massimo precetto del Signore. Il Vangelo non ci dice chi sia stato questo dottore, ma da ciò che dice san Marco si arguisce che doveva essere retto di cuore, e che interrogò Gesù per sincerarsi sulle sue vere intenzioni. Aveva sentito dire tante cose sul conto di Lui, e temeva che potesse manomettere l’onore di Dio. Questo si rileva chiaramente dalla soddisfazione che provò, sentendo dire da Gesù che bisognava amare Dio solo, come è detto in san Marco (12,32-33). L’entusiasmo col quale assentì alle parole del Redentore, mostra in lui un amore a Dio profondo e sincero che gli meritò la lode del medesimo Gesù. I farisei incaricarono questo dottore della Legge d’interrogare Gesù, forse proprio perché notarono la preoccupazione che aveva sull’insegnamento di Lui, e forse anche perché stimarono che la sua rettitudine lo rendesse meno sospetto al Signore.
        La domanda fatta non era delle più semplici, benché apparentemente non sembri. I rabbini elencavano 613 comandamenti della Legge, divisi in 248 precetti e 365 proibizioni. Tanto i precetti quanto le proibizioni erano distinti in gravi e leggeri, senza però determinarli distintamente. Di qui derivavano interminabili questioni e casi morali. Non tutti, poi, si accordavano sull’eccellenza di un precetto sull’altro; c’era, per esempio, chi stimava l’osservanza del sabato il massimo dovere e chi credeva, invece, che fosse la circoncisione, moltiplicando le dispute senza venir mai a conclusioni uniformi, con danno gravissimo delle anime. La risposta di Gesù fu solenne, e il modo stesso come la diede non ammetteva repliche.
        Si sente, nelle sue parole, l’amore grande del quale ardeva per il Padre, e il desiderio che aveva di unire tutti gli uomini in questo unico amore; perciò soggiunse che c’era un altro precetto simile al primo, ossia quello di amare il prossimo come se stessi. Amare Dio, disprezzando o manomettendo la sua immagine viva non è possibile, e chi vuol testimoniargli l’amore deve onorarlo nel prossimo. Sull’amore di Dio e del prossimo è fondata la Legge che riguarda questi due doveri, e sono fondati i profeti che richiamano le anime all’osservanza di questi due precetti fondamentali.
        La risposta che Gesù aveva dato aveva confuso ancora una volta i farisei, i quali si sarebbero aspettati chi sa quali discussioni, e dovette indurre in molti di essi un sentimento di resipiscenza. Stimavano il Redentore un pericoloso ribelle, e dovevano riconoscere, dall’accento medesimo delle sue parole, che Egli amava Dio; qualcuno corse col pensiero al Messia futuro, e poté anche pensare che poteva essere proprio Lui; certo ci fu nell’ambiente un momento di ponderazione, e Gesù volle utilizzarlo per costringerli a confessare che il Messia doveva essere Figlio di Dio, e per orientare la loro anima verso questa grande e fondamentale verità. Citando il principio del salmo 109, nel quale Davide chiama suo Signore il Messia, e nel quale annuncia da parte di Dio il trionfo di Lui sopra tutti i nemici, Egli proponeva loro una difficoltà ardua: se il Messia è Figlio di Davide, come mai questi lo chiama suo Signore? La risposta poteva essere una sola: lo chiama suo Signore perché è veramente Dio, ed è Re che domina ogni regno. Ma evidentemente i farisei si confusero, non seppero che cosa rispondere, e non osarono più interrogarlo.

Per la nostra vita spirituale
        Siamo chiamati dal Signore al banchetto della vita eterna, e non possiamo rifiutarci di prendervi parte senza essere puniti severamente. A che servono le aspirazioni terrene? Le occupazioni della vita presente ci rendono schiavi e sono piene di spine; occorre volgere gli occhi al Cielo, e occuparci, prima di tutto, di conquistarlo.
         Dolorosamente la vita vertiginosa delle nazioni moderne concentra gli uomini negli affari materiali, o li rende asserviti a Cesare: o s’idolatra la materia, come si fa negli Stati apostati, o s’idolatra l’uomo, il potere e lo Stato, come avviene spesso nelle nazioni cosiddette d’ordine; bisogna invece sottomettersi a Dio e persuadersi che dobbiamo amarlo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente. In questo sta il sommo Comandamento della Legge, in questo la suprema ragione della nostra vita. Tutto è vanità fuorché amare Dio, e tutto ci è di angustia fuori di Lui. Il prossimo dobbiamo amarlo per amore di Dio, non per simpatia naturale o, peggio, per semplice convenienza; è necessario riguardare in lui l’immagine del Signore, e rispettarlo come tempio vivente di Dio. È questa la vera base dell’armonia umana, è la legge suprema che non può dimenticarsi senza andare incontro alla rovina, come lo abbiamo sperimentato e sperimentiamo tuttora in tutta la terra. Disinganniamoci sulle concezioni della vita che ci danno gli uomini moderni, i quali l’hanno resa insopportabile tanto nelle nazioni in rivolta quanto in quelle cosiddette d’ordine. Volgiamo gli occhi a Dio e pensiamo che Egli solo è tutto per noi. Al grido scellerato degli apostati, opponiamo il grido del nostro amore, alle chimere della fantasia umana opponiamo la nostra fede, ad aspirazioni folli, a felicità ipotetiche opponiamo la nostra incrollabile aspirazione alla vita eterna.

sabato 18 ottobre 2014

A Cesare quel che è di Cesare a Dio quel che è di Dio

Commento al Vangelo della XXIX Domenica TO 2014 A (Mt 22,15-21)

A Cesare quel che è di Cesare,
a Dio quel che è di Dio

I farisei, temendo, col porre le mani addosso a Gesù, di suscitare nel popolo una rivolta, si consultarono insieme per trovare il modo di farlo capitare tra le mani dell’autorità romana. Ordirono, perciò, un inganno ben architettato, e lusingando Gesù sulla sua veridicità e lealtà, e sulla sua ferma intransigenza di fronte alla verità e al dovere, gli domandarono, per mezzo dei loro discepoli, se era lecito o no pagare il tributo a Cesare. Dopo l’occupazione romana della Palestina, ogni ebreo era costretto a pagare il tributo all’imperatore che, con nome generale, veniva chiamato Cesare. Questo tributo era odiosissimo per gli Ebrei, essendo il segno palese della perdita della loro indipendenza. Si pagava in moneta romana, sulla quale c’era l’effigie di Tiberio.
I farisei, sapendo che Gesù si proclamava il Messia, erano certi che egli avrebbe biasimato il pagamento del tributo; supponevano che il Messia dovesse essere un restauratore dell’indipendenza nazionale, e credevano che Gesù non potesse approvare il pagamento del tributo, senza rinnegare la sua qualità di Messia, alla quale credevano che tenesse per fanatismo e per illusione. D’altra parte pensarono che se Egli l’avesse approvato, sarebbe riuscito inviso al popolo, e che in ogni caso l’avrebbero costretto a smetterla. Per tutto questo insieme subdolo, Gesù, rispondendo, li chiamò ipocriti, smascherandoli così nelle loro intenzioni maligne. Per confonderli, poi, domandò che gli mostrassero la moneta del tributo e, dopo che l’ebbero mostrata, chiese di chi era quell’immagine e quell’iscrizione. Alla loro risposta che era di Cesare, disse quelle memorande parole che li lasciarono stupefatti: Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio.
Circolando nel popolo la moneta imperiale di Roma, era evidente che la nazione sottostava di fatto a Cesare; il tributo si dava come concorso alle spese di amministrazione e, permanendo l’impero di Cesare, era giusto darlo a lui. Sotto qualunque sovranità, infatti, si pagano le tasse, perché esse sono parte dell’amministrazione comune e contributo ai vantaggi comuni che ne derivano; pagare le tasse non significa giustificare un sopruso, ma sottostare a una situazione di fatto; non si trattava di sapere se si poteva o non pagare, perché si doveva pagare; era dunque logico che si rendesse a Cesare ciò che era di Cesare, cioè che si sottostesse a uno stato di fatto che non riguardava la coscienza, ma una necessità fiscale imprescindibile. Gesù soggiunse subito: Rendete a Dio ciò che è di Dio, per far riflettere al popolo che per non essere stato fedele al Signore, aveva avuto, come castigo, la dominazione straniera, e che, invece di pensare a ribellarsi a Cesare, dovevano piuttosto pensare a riconciliarsi con Dio.
Sotto qualunque dominazione, l’anima deve essere di Dio, e tributargli l’amore e l’onore che gli è dovuto; le condizioni politiche della nazione nella quale si vive non possono in nessun modo dispensare da questo dovere che è il principale; pagare o non pagare il tributo, dunque, non era una questione essenziale, ma era imprescindibile dare a Dio ciò che è di Dio, anche se si fosse dovuto urtare l’autorità di Cesare.
Il potere civile e religioso
Le parole di Gesù Cristo sono state in ogni tempo la regola dell’armonia del potere civile e di quello religioso; il potere civile ha le sue attribuzioni, ma esse sono limitate a ciò che è temporale, e sempre subordinatamente a quello che è spirituale. Il potere civile, strettamente parlando, non domina ma serve, perché è ordinato al bene comune e al bene individuale di quelli che formano la nazione; dovrebbe rappresentare un potere paterno in mezzo alla famiglia umana, con tutte le prerogative della potestà paterna. Ogni potestà viene da Dio, ed è assurdo pretendere che venga dal popolo; il potere civile rappresenta la divina provvidenza negli affari temporali, in quanto questi sono ordinati alla vita presente e a quella futura, il potere religioso rappresenta la divina autorità che domina tutto nell’amore, e guida le anime alla vita eterna, pur non prescindendo dalla loro condizione di vita sulla terra. Il potere religioso che è uno solo, di diritto divino, quello della Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana è immensamente superiore a quello civile, e deve moderarlo nel suo esercizio, affinché non esorbiti e non diventi tiranno.
Rendere a Cesare ciò che è di Cesare, non significa riconoscere a Cesare un potere indipendente dal controllo materno della Chiesa, e tanto meno significa ammettere un’autorità che possa esigere di controllare la Chiesa, ma comporta solo il dovere di dare all’autorità civile il contributo che le spetta per l’amministrazione dello Stato, e di conseguenza osservarne le giuste leggi. Estendere le parole di Gesù oltre questi limiti significa alterarne il senso. Anche nel campo della legislazione, lo Stato non può superare i limiti dell’amministrazione temporale, di modo che è assurdo che esso presuma di dettare leggi che riguardano direttamente o indirettamente i valori morali o religiosi. È invalsa troppo la mania, spesso delittuosa, di presentare come legge qualunque capriccio o qualunque sopruso di chi governa. La legge non può ispirarsi che a quella di Dio, e non può prescindere dalle supreme direttive della Chiesa. Per questo nell’antico patto non fu Mosè che legiferò, ma fu Dio che gli dettò le leggi. I tempi sono mutati, la società si è confusa, le teste si sono annebbiate, ma questo non significa che si siano mutate le basi che reggono l’umanità. Cesare amministra, non crea e, come amministratore, deve sottostare alle supreme leggi di Dio, Creatore e Padrone di tutto, rispettare la Chiesa che lo rappresenta.
Si deve notare che i farisei non andarono direttamente a domandare a Gesù se era lecito pagare il tributo a Cesare, ma fecero andare da lui alcuni dei loro discepoli insieme a parecchi rappresentanti della setta degli erodiani, favorevoli al dominio di Roma, affinché Egli avesse parlato innanzi a testimoni già ammaestrati, i quali avrebbero potuto riferire alle autorità romane la sua risposta e comprometterlo. Era dunque una mossa politica la loro, una di quelle mosse delle quali purtroppo è intessuta la politica moderna. La menzogna anche sfacciata, l’inganno, la turlupinatura, e la miseria morale sono spesso la base della politica, e da questo si può misurare quanto essa è lontana da Dio; perciò, invece di idolatrare lo Stato, fino a crederlo unica autorità suprema, bisogna pensare, prima di tutto e sopra di tutto, a rendere a Dio ciò che è di Dio, prestando ossequio all’autorità della Chiesa. Questo è tanto più necessario oggi che dall’idolatria del cosiddetto popolo sovrano si sta passando all’idolatria dei dittatori e degli Stati totalitari, con immenso danno delle anime e specialmente della gioventù. Rendiamo a Dio quel che è di Dio, diamogli tutto il nostro cuore e tutta la nostra vita, perché tutto è suo, e tendiamo, con tutta l’anima nostra, alla vita eterna
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 11 ottobre 2014

I nuovi chiamati nel Regno di Dio



Commento al Vangelo della XXVIII Domenica TO 2014 A (Mt 22,1-14)

I nuovi chiamati nel regno di Dio
        Gesù Cristo volle, con un’altra parabola, annunciare il passaggio del regno di Dio ai popoli pagani e, nello stesso tempo, proclamò questa legge provvidenziale che concede ai poveri e agli abbandonati le ricchezze spirituali rifiutate dai primi chiamati. La fondazione e lo sviluppo della Chiesa possono paragonarsi veramente alle nozze del Figlio del gran Re eterno, di Dio, poiché egli così ha sposato l’umanità che vuol congiungersi a Lui, per essere fecondata dalla sua grazia e dai suoi meriti.
        Secondo gli usi orientali, le nozze si celebravano col banchetto nuziale, e a quelli che vi erano stati invitati in un primo momento veniva rinnovato l’invito, poco prima del banchetto, dai servi del capo di casa. Se le nozze erano regali, i servi portavano a ciascuno un abito di circostanza, per accrescere splendore alla festa.
        Il Signore aveva invitato gli Ebrei alle nozze del proprio Figlio, eleggendoli come prima famiglia della sua Chiesa; ad essi sarebbe spettata per diritto di elezione questa santa eredità e, per raccoglierla, avrebbero dovuto prepararsi al dono di Dio con una vita profondamente spirituale. Invece si concentrarono tutti nella vita corporale e materiale e, venuto il tempo, non solo non si curarono dell’invito ricevuto, ma disprezzarono i servi del Signore che li chiamavano, e giunsero fino ad ucciderli. I profeti, e particolarmente san Giovanni, avevano parlato chiaramente del Redentore, ma gli Ebrei non li ascoltarono e rifiutarono la grazia. Allora il Signore punì gl’ingrati per mezzo delle milizie romane, disperdendoli; e mandò i suoi servi, cioè gli apostoli ai crocicchi delle vie, ossia nei principali centri del mondo, affinché avessero chiamato alle nozze ogni genere di persone, buoni e cattivi, cioè preparati e impreparati alle nozze, invitandoli al banchetto già pronto.
        Gesù Cristo esprime nella parabola, come un fatto già avvenuto, quello che doveva ancora avverarsi dopo la sua Ascensione al cielo. Quando gli apostoli si sparsero per il mondo, infatti, tutto era già preparato: era immolato l’Agnello divino, erano istituiti i Sacramenti, erano comunicati i doni dello Spirito Santo, e si attendevano solo quelli che avrebbero dovuto usufruire di tante ricchezze di grazia.
        Gli apostoli andarono per tutta la terra, e chiamarono le genti al banchetto di vita, dando loro, con la grazia, quella veste nuziale di santificazione che doveva renderle capaci di poter comparire al cospetto del Signore.
        L’invitato mancante della veste nuziale figurava e rappresentava quelli che avrebbero preteso far parte della Chiesa senza mutare abito, cioè senza uniformarsi allo spirito nuovo che il Signore voleva come caratteristica del cristiano e, di conseguenza, sarebbero stati cacciati fuori del banchetto, nelle tenebre esteriori cioè nelle tenebre della vita naturale, estranea alla vita della grazia, legati mani e piedi, ossia privi di libertà vera, tra gli orrori e il pianto causati dalla pretesa civiltà senza-Dio, infelici, e ripudiati.
        Gesù Cristo concluse la sua parabola dicendo che molti sono i chiamati al regno di Dio e pochi gli eletti. Questa sentenza non può riferirsi, evidentemente, a colui che era stato escluso dal banchetto, perché egli rappresentò anzi un’assoluta minoranza, una minima percentuale di fronte a quelli che avevano partecipato al banchetto. Le parole di Gesù sono una sentenza generale che riguarda l’economia della salvezza eterna in quelli che sono chiamati al regno di Dio. Molti furono chiamati al banchetto, ma si rifiutarono di parteciparvi; moltissimi furono nuovamente chiamati e vi parteciparono per misericordia, rivestiti della veste nuziale donata dal re; uno solo fu escluso perché non si curò di vestirsi di quell’abito nuziale. Gli eletti non furono quelli che parteciparono al banchetto che furono molti, e riempirono la sala nuziale; gli eletti sono quelli che, tra gl’invitati, diventano gli amici del re e i privilegiati della sua corte, ossia i santi e le anime privilegiate. Non ci sembra che si possa contorcere la frase di Gesù per discutere sul poco numero degli eletti, perché il suo senso genuino è proprio l’opposto, come si rileva dal contesto.
        Gli Ebrei erano stati chiamati per essere i privilegiati del nuovo patto, e avrebbero dovuto essere grandi santi; invece si rifiutarono di far parte della Chiesa, e fra essi furono pochi gli eletti, i santi che ne fecero parte e la fondarono. I pagani, e con essi la massa dell’umanità, furono chiamati e parteciparono in massa al banchetto, ma tra essi, relativamente al loro immenso numero, furono e sono pochi gli eletti, cioè quelli di vita veramente santa. La misericordia di Dio, in tal modo, chiama tutti al suo regno, e non c’è popolo o anima che non sia capace di farne parte; sono esclusi quelli che non vi vogliono entrare positivamente, e quelli che ne rifiutano le grazie. Il numero dei chiamati, cioè di quelli che per misericordia raggiungeranno la Patria eterna è immenso, è tanto grande che può dirsi la maggioranza degl’invitati al banchetto della vita.
        Se si pensa a quelli che solo in punto di morte ricevono i Sacramenti e fanno con Dio una pace affrettata, poggiata unicamente sulla generosità divina, e se si riflette che la Chiesa medesima li riguarda come salvati e li benedice fin nella tomba, si deve dire che, per divina bontà, non sono molti quelli che si perdono, e che il Signore ha mille porte di misericordia per salvare anche quelli che sembrano perire come disgraziati, nei flagelli comuni che colpiscono l’umanità.
         La salvezza è espressa sotto il simbolo di un banchetto, proprio per indicarne la relativa facilità, perché non ci vuol molto a rispondere ad un invito, quando si trova già tutto pronto. Il Banchetto eucaristico che è la vera tavola imbandita per farci partecipare alle nozze del Re divino e darcene la vita, è di per sé già colmo di ogni bene spirituale, e chi vi si accosta vi trova quanto gli serve per sostentarsi spiritualmente e per poter raggiungere la Patria eterna. La vera sventura delle anime è sempre e solo il distaccarsi dal Banchetto eucaristico, con la scusa delle occupazioni materiali della vita; la mancanza di Cibo eucaristico porta immediatamente il rilassamento interiore ed esteriore della vita cristiana, e riduce le anime nelle tenebre degli errori e negli abissi delle passioni. Le vertiginose e fatue attività della civiltà moderna, rendendo più comune la scusa di non poter partecipare al Banchetto della vita, hanno ridotto l’umanità nello stato degradante e penosissimo nel quale la vediamo. Per risorgere, non ci vogliono riforme e tanto meno nuove forme di pretesa civiltà: bisogna tornare in massa al Banchetto eucaristico e partecipare così, intimamente, alla vita di Gesù Cristo. In questo sta la salvezza del mondo.
Padre Lino Pedron

sabato 4 ottobre 2014

Gesù svela la cattiva disposizione dei suoi nemici



Commento al Vangelo della XXVII Domenica TO 2014 A (Mt 21,33-43)

Gesù svela la cattiva disposizione dei suoi nemici
        I principi dei sacerdoti, cioè i capi delle 24 famiglie sacerdotali, e gli anziani del popolo, cioè i membri del sinedrio appartenenti al popolo, erano sommamente adirati nel vedere che Gesù insegnava, sembrando loro un arbitrio, e perciò gli si avvicinarono, domandandogli con quale potestà compiva quel ministero. Non glielo chiedevano per indagare, ma per dirgli, con quell’espressione, che egli usurpava un potere che non aveva. Gesù Cristo non avrebbe potuto rispondere loro che insegnava per propria divina autorità, perché essi ne avrebbero preso motivo per tacciarlo di bestemmia; non poteva venire a discussione con loro, perché erano mal prevenuti; Egli allora, per convincerli che erano mossi da malafede, disse che voleva prima da loro una risposta precisa sulla natura del battesimo di san Giovanni. Se avessero agito per vero zelo non sarebbero dovuti ricorrere a sotterfugi, ma dire apertamente la verità; essi, invece, risposero che non sapevano da dove provenisse il battesimo di san Giovanni, e Gesù, di rimando, disse che neppure Egli avrebbe detto loro con quale potestà operava.
        Con delicata carità, volle richiamare la loro attenzione sulle vere disposizioni della loro coscienza, e su quelle della sinagoga, e volle indirettamente rispondere alla loro domanda; perciò propose le parabole dei due figlioli e dei cattivi vignaioli. Essi si mostravano così zelanti dell’osservanza della Legge, ma a parole soltanto; in pratica non ne facevano nulla, mentre i peccatori e le meretrici, trasgressori della Legge, ascoltavano la Parola di Dio, si pentivano, riparavano le loro pessime azioni, e praticamente operavano il bene più di quelli che se ne mostravano zelanti.
        Giovanni venne da parte di Dio a richiamare i peccatori alla conversione, e ci riuscì, mentre essi, pur protestandosi fedeli, rifiutarono di credergli, rinnegando così le medesime Scritture che lo avevano annunciato. Si erano meravigliati che Egli insegnasse senza la loro autorità, ma avevano dimenticato che in ogni tempo Dio aveva mandato profeti straordinari, con autorità ricevute da Lui immediatamente?
        Egli, allora, aveva inviato lo stesso suo Figlio e, invece di congiurare contro di Lui, avrebbero dovuto ascoltarlo e riverirlo più di qualunque profeta. In realtà, anch’essi seguivano l’esempio dei loro padri che avevano perseguitato i profeti, e già si accingevano a cacciare fuori di Gerusalemme Lui stesso e ad ucciderlo. Perciò sarebbero stati puniti come vignaioli infedeli, sarebbero stati privati dei benefici divini, mentre Egli, posto come pietra angolare del regno di Dio, sarebbe passato ai pagani, fondando la Chiesa sulla ferma roccia, incrollabile edificio della nuova alleanza.
        Gesù Cristo parlò severamente ai suoi oppositori, perché essi non cercavano la verità, e difatti, a conclusione dei suoi discorsi, cercarono di mettergli le mani addosso. È vero che essi si trovavano di fronte a un fatto nuovo e singolare che in quel caso appariva loro come l’arbitrio di un uomo, ma si trovavano anche innanzi ad argomenti di verità luminosissimi che avrebbero potuto e dovuto approfondire. Noi, troppo abituati a vedere anime false o illuse, potremmo quasi trovare giustificata l’opposizione degli scribi, dei farisei e dei sacerdoti; se vedessimo oggi un profeta forse lo lapideremmo anche noi, e forse lo lapidiamo realmente; ma non dobbiamo dimenticare che Gesù Cristo era Dio, e che, conversando con Lui, avendo solo un po’ di rettitudine e d’umiltà, sarebbe stato impossibile non scorgere l’immensa luce che da Lui emanava, e non sentirsi conquisi dal suo ineffabile amore.
Per la nostra vita spirituale
        Noi viviamo in un’epoca d’intensa persecuzione contro Gesù Cristo e la sua Chiesa; ascoltiamo da ogni parte le grida frenetiche degli scalmanati che rifiutano il regno di Lui, e che portano in trionfo il male e i più spregevoli fra gli uomini. In tanta tempesta di apostasia e d’ingratitudini dobbiamo essere tutti come asine e asinelli che portano in trionfo il Re d’Amore. Lasciamo ciò che è terreno, rinneghiamo noi stessi, formiamo nel mondo stesso come un tappeto d’onore al Re divino, spogliandoci di noi e, nonostante tutto, portiamo Gesù in trionfo. I gloriosissimi martiri moderni ce ne danno l’esempio: Gesù avanza ed essi hanno rinunciato alla loro vita e gli hanno formato, per così dire, con i loro corpi e col loro sangue un cammino d’onore per farlo trionfare. In un’atmosfera così calda, anzi arroventata, di sedizione e di orrori, eleviamo anche noi le palme del trionfo sul mondo e su tutte le eresie moderne, e gridiamo: Osanna al Redentore divino, benedetto colui che viene nel nome del Signore. Osanna! S’impone al nostro cuore una fedeltà incrollabile, fino alla morte, e diremo pure una serietà di vita, perché, in un ambiente di angustie e di eroismi singolari, non possiamo rimpicciolirci in tante stupidaggini d’interessi, di sport, di moda né possiamo eccessivamente preoccuparci delle nostre velleità. Quello che deve preoccuparci veramente è il trionfo di Gesù Cristo su tutte le miserie dell’apostasia moderna.
        La nostra fede sia piena, viva e ricca di opere; se siamo come il fico infruttuoso, tutto apparenze, meritiamo la maledizione del Signore. Saremmo pieni di foglie se ci contentassimo di un apostolato esterno e trascurassimo quello interno, se fossimo osservanti di una disciplina organizzatrice e trascurassimo quella della perfezione d’animo.
        Tempio vivo di Dio siamo noi, e non possiamo farci profanare dalle preoccupazioni della vita terrena. Chi non conosce altra occupazione che quella riguardante i beni temporali – comprare, vendere, possedere –, è tempio profanato. Come potrebbe esserci una Chiesa senza la Santa Messa, l’Eucaristia, la preghiera, la Confessione? E come può vivere un’anima, tempio di Dio, senza ascoltare la Messa, confessarsi, comunicarsi e pregare? Una giornata, passata solo tutti intenti al lavoro materiale o agli affari, rappresenta una giornata di profanazione per il tempio dell’anima.
        In questi tempi difficili e amarissimi, Dio ci chiama in tanti modi alla conversione, e manda anche oggi, nella sua vigna, anime straordinarie per farci risorgere a nuova vita cristiana; non siamo come i vignaioli infedeli! Non ricacciamo sistematicamente tutto ciò che sa di straordinario e di soprannaturale, perché, facendo così, ricacceremo anche Gesù Cristo che ci visita.
         L’infedeltà ai doni del Signore può renderci indegni del regno di Dio, e può farlo passare agli altri popoli, come già vediamo. Umiliamoci e riconosciamoci peccatori; convertiamoci a Dio quando i santi ci richiamano a Lui; mostriamoci gelosi della ricchezza della nostra fede che è un tesoro insostituibile, e siamo fieri del carattere cristiano, senza cercare altre bandiere sotto le quali percorrere il nostro cammino mortale. Persuadiamoci che Gesù Cristo è la pietra angolare del mondo, e che Egli vive solo nella sua Chiesa e nel Papa; chi urta contro di Lui è sfracellato, e chi presume di erigersi sopra di Lui è schiacciato dalla sua maestà e potenza. È la storia di venti secoli che ce lo conferma, è la storia contemporanea che noi stessi viviamo: tutto rovina in quel regno o in quella coscienza dove Gesù Cristo è perseguitato e dove è disconosciuta la Chiesa e il Papa che ne è capo; le nazioni decadono, s’imbarbariscono, sono rese schiave, muoiono; gli individui si abbrutiscono, si sconvolgono, marciscono, rovinano; è la legge della storia che non fallisce e non fallirà mai! 
Don Dolindo Ruotolo