sabato 31 gennaio 2015

L'indemoniato


Commento al Vangelo: IV Domenica del TO 2015 B (Mc 1,21-28)

La dottrina di Gesù. L’indemoniato
Dopo la chiamata dei primi quattro apostoli, Gesù andò in loro compagnia a Cafarnao, ed essendo giorno di sabato, entrò nella sinagoga e cominciò ad insegnare. Tutti rimanevano stupiti della sua dottrina – dice il Sacro Testo –, perché Egli insegnava come uno che ne aveva l’autorità, a differenza degli scribi che si rimettevano a ciò che insegnava la Sacra Scrittura, appoggiandosi alla sua autorità. Gesù Cristo annunciava un nuovo patto fra Dio e l’uomo, e spingeva le anime alla ricerca della Verità eterna, parlando come uno che agiva per una precisa missione divina, mentre gli scribi si limitavano a citare Mosè, e si trattenevano a parlare minutamente solo di usi e di prescrizioni esterne che attanagliavano lo spirito, anziché spingerlo al Signore.
Gesù Cristo parlava con autorità, e la sua parola si appoggiava a Lui stesso, Verbo eterno di Dio ed eterna Verità, suscitando nelle anime una grande pace e un immenso desiderio di Dio, ciò che non producevano gl’insegnamenti degli scribi. Lo stupore che provavano quelli che lo ascoltavano non era poi una sterile ammirazione, ma proveniva da una grande vita interiore che sbocciava sotto il calore della sua grazia e nei raggi della sua bontà.
La parola di Gesù era luce a se stessa, perché veniva dalla sfolgorante fonte della sua infinita sapienza.
Satana tentò di oscurare questa luce, e finse di volerla glorificare, sostituendo la propria testimonianza tenebrosa a quella della Verità per essenza. C’era, nella sinagoga, un uomo posseduto dal demonio, il quale, ascoltando Gesù che predicava, gridò: Che abbiamo noi a che fare con te, Gesù Nazareno? Sei venuto a perderci? Io so chi sei tu, il Santo di Dio.
Satana voleva sostituire alla fede che la divina Parola suscitava nei cuori, la fede nella propria parola; voleva che avessero riconosciuto Gesù per Messia non per la testimonianza della divina verità, ma per la propria tenebrosa testimonianza, perciò non ebbe ritegno di dichiararsi estraneo al Signore, di mostrarsi terrorizzato di Lui, e di proclamarlo il Santo di Dio, cioè il Messia. Se il popolo l’avesse ascoltato, avrebbe creduto non per la divina autorità che si svelava, ma perché l’aveva detto satana. Per questo Gesù gl’impose di tacere e gli comandò di lasciare l’infelice che tormentava.
A primo aspetto sembra strano che il Signore abbia imposto silenzio a satana che lo proclamava Santo di Dio; ma la fede, come tale, non può appoggiarsi che sull’autorità di Dio che rivela, perché è assenso della ragione e dedizione della volontà a Lui per amore; qualunque altra testimonianza della verità non fa sorgere in noi la fede, ma tutt’al più uno sterile consenso a quello che sembra autorevole e sorprendente.
Satana ripete il suo triste gioco nello spiritismo, quando dai tavoli parlanti mostra di avere terrore della divina maestà e conferma la verità della fede; gli spiritisti vanno in giolito a quelle affermazioni, sembrando loro un argomento irrefutabile della bontà delle loro pratiche superstiziose, e non si accorgono che partono dal tavolino, credendo a satana più che a Dio, e che credono con un senso di sterile spavento che spegne in loro ogni scintilla d’amore.
Satana si mostrò per quello che era quando abbandonò il poveretto che ossessionava; egli, infatti, lo straziò, e uscendo da lui urlò forte come belva ferita; non poteva dare che tormenti, essendo spirito infelicissimo, e non poteva che urlare, non portando mai pace. Gesù Cristo, cacciandolo con piena autorità negli abissi con una sola parola, si manifestò Re potentissimo, tanto che le turbe rimasero stupefatte e, piene di gioiosa ammirazione, divulgarono in breve il fatto per tutta la Galilea

Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo

sabato 24 gennaio 2015

Gesù annuncia il Regno di Dio



Commento al Vangelo: III Domenica del TO 2015 B (Mc 1,14-20)

Gesù annuncia il regno di Dio
San Marco sintetizza i discorsi di Gesù Cristo in poche parole: È compiuto il tempo e si avvicina il regno di Dio; fate penitenza e credete al Vangelo.
Egli mostrava che, secondo le profezie, era proprio quello il tempo nel quale doveva venire il Messia, e che, quindi, si avvicinava il regno di Dio, cioè la glorificazione di Dio nel cuore degli uomini e sulla terra. Con questo, risuscitava, nei cuori, la fede e la speranza nelle divine promesse, il desiderio di una vita migliore, condizione indispensabile per accogliere la grazia di Dio. Per questo soggiungeva: Fate penitenza, e credete al Vangelo. La penitenza era il rinnovamento interiore, nel rammarico di aver peccato, nel desiderio di riparare le proprie colpe, e nell’imposizione e nell’accettazione, liberamente fatta, di opere penose, in riparazione dei peccati.
La penitenza era il nuovo orientamento dell’anima al Signore, nel riconoscimento della divina Maestà, nell’umiliazione profonda al suo cospetto, nel desiderio di amarlo con tutto il cuore e sopra tutte le cose.

Lo spirito di vera penitenza
Gesù Cristo non predicava una penitenza esteriore, come quella dei farisei, ma voleva che l’anima si pentisse, si umiliasse, riparasse, e si presentasse al cospetto di Dio pura, fiduciosa, umile e confidente, vivendo una vita nuova. La penitenza corporale, del resto, non è tale se non in quanto produce o aiuta a produrre gli atti interni. Un rigore tutto materiale è fachirismo, non è amore; l’anima non punisce il corpo per mostrare in esso una forza di resistenza fisica, ma per contenerlo nei limiti, e aprire libero il varco allo spirito; non lo priva di un cibo per severità, ma perché sia minore il frastuono dei sensi, non lo percuote per sadismo, ma per scuotere attraverso la pena il torpore spirituale, e per unirsi alla Passione di Gesù Cristo; non gli inibisce la comunicazione col mondo per mancanza di gentilezza, ma proprio per non rendersi scortese col suo Signore. La penitenza è purificazione, ordine, disciplina dello spirito che produce nell’anima e nel medesimo tratto esterno una soavità gentilissima, facendo, per così dire, affiorare sul corpo stesso la luminosità interiore.
Era questa la penitenza che Gesù predicava, e perciò non impose ai suoi apostoli alcun rigore di vita, volendo che il loro cuore si formasse a mano a mano e si orientasse a Dio in una vita totalmente nuova. Egli esortava, pertanto, tutti a credere al Vangelo, cioè a prestare attenzione alla sua predicazione, e metterla in pratica, poiché, dalla sua parola, doveva venire l’indirizzo ad una vita nuova, e i suoi insegnamenti dovevano demolire tutto quello che di falso o di arbitrario gli scribi e i farisei avevano preteso aggiungere alla divina Parola.

Gesù chiama i primi apostoli

Quando Gesù predicava, la gente gli si affollava intorno, lo ascoltava, ne rimaneva più o meno commossa, secondo le proprie disposizioni; ma, presa dal vortice delle occupazioni terrene, difficilmente conservava nel cuore i suoi insegnamenti. Egli, perciò, credé necessario eleggere alcuni uomini, i quali, liberati dalle preoccupazioni temporali, avessero potuto seguirlo dovunque, raccogliere i suoi insegnamenti e trasmetterli agli altri. Egli non volse gli occhi ai sapienti, ai forti e ai grandi del mondo, ma a poveri pescatori, cioè a gente semplice, schietta, abituata ai pensieri del Cielo, perché dimorante nei pericoli del mare.
Dalle statistiche giudiziarie risulta che la classe dove è minore o quasi nullo il numero dei delitti, è proprio quella dei pescatori; Gesù, dunque, si rivolse a cuori sani per quanto ancora rozzi e difettosi, a cuori lontani dallo spirito del mondo, abituati alle silenziose solitudini marine, agli orizzonti vasti che dilatano l’anima in orizzonti più vasti. D’altra parte i pescatori erano abituati alle pazienti attese nel cercare il frutto della pesca, alle prudenti mosse nel difendersi dalle tempeste, alla costanza forte nel pericolo, ed Egli volle che queste belle qualità diventassero il carattere dei suoi apostoli; volle portare nel campo dello spirito le doti che un pescatore ha nel campo della vita naturale ed elesse, come pietre fondamentali dell’edificio che incominciava ad elevare, quattro pescatori.

La vocazione al sacerdozio o alla vita religiosa

La vocazione di Dio è un mistero altissimo di grazia, è l’attrazione che Egli esercita personalmente su di un’anima, inducendola soavemente a seguirlo e a dargli la libera volontà e il libero consenso nei disegni che vuole sviluppare su di essa. È una luce interna che le fa vedere il cammino che deve percorrere, non solo come una via facile, ma anche come la propria via, la propria gioia, il proprio centro di vita.
Dio, chiamando, dà all’anima le disposizioni fondamentali della vocazione cui la elegge, e l’anima si sente disposta a quello che Egli le domanda, sebbene preveda asprezze o difficoltà nel suo cammino; non si sente solo affascinata, ma si sente convinta e persuasa, il che è sommamente importante; non obbedisce quasi ad un istinto cieco, ma segue una scia luminosa tracciatale da Dio, nella quale la ragione è profondamente illuminata; la vocazione, quindi, è tale placida luce interna che induce prontamente la volontà ad assentire alla divina volontà, e ad abbracciare i sacrifici che comporta il suo compimento.
Da questo, si capisce facilmente la natura delle false vocazioni a qualsiasi stato, determinate dall’insinuazione altrui, dall’illusione di trovare il proprio comodo, da calcoli d’interesse, o da fantasie fanciullesche, frutto più di volubilità di carattere che di mozioni interne. L’attrazione verso la forma particolare di vita, o di abito o di attività di un particolare stato può essere anche un segno della chiamata di Dio, o un’attrattiva che orienta l’anima verso la divina volontà, e la dispone alla sua chiamata.
«Venite: vi farò pescatori di uomini»
Gesù Cristo, passando lungo il lago di Genesaret, chiamato anche Mare di Galilea, vide Simone e suo fratello Andrea che gettavano le reti e, poco più avanti vide Giacomo e Giovanni che, insieme col padre e con i garzoni, rassettavano le reti. Questa circostanza c’induce a credere che, in quel giorno, avessero trovato difficoltà a pescare. Mentre, infatti, Simone e Andrea, di condizione meno agiata, gettavano le reti per tentare di nuovo di pescare qualche cosa, Giacomo, Giovanni e il loro padre Zebedeo, i quali, avendo dei garzoni con loro, dovevano essere più agiati, rassettavano le reti, avendo perso la speranza di prendere qualche pesce e non avendo bisogno d’insistere nel gettare le reti.
Gesù Cristo scelse questo momento di delusione, nel quale, psicologicamente, doveva sembrare più penosa la loro arte, e nel quale, quindi, era per essi più facile rinunciarvi. È naturale, infatti che, dopo una delusione sofferta in una speciale professione, si desideri abbandonarla, e che, offrendosi l’occasione di mutare stato, la si accolga come una liberazione.
I quattro apostoli avevano già sentito parlare di Gesù Cristo e lo avevano ascoltato; quando lo videro sulla riva con quella sua dolcissima maestà che li attraeva, illuminandoli, dopo aver visto poco proficua la loro professione che sarebbe stata, se remunerativa, l’unico vero ostacolo a seguirlo, non esitarono un momento e, abbandonato tutto, andarono dietro a Lui.
È evidente, dal contesto, che essi abbandonarono tutto non inconsideratamente, ma dovettero affidare a qualcuno la barca e le reti; Giacomo e Giovanni rimisero ogni arnese al padre che era con loro e ai garzoni, e Simone e Andrea forse affidarono tutto a loro; certo, san Pietro conservò poi la barca per uso del Maestro divino e, prima di darsi interamente all’apostolato, continuò, di quando in quando, a tratti, il suo mestiere; ma, nel momento della chiamata, tutti sentirono tale attrazione verso il Redentore che pensarono solo a seguirlo. Probabilmente non capirono il significato di quelle parole: Vi farò pescatori di uomini; ma capirono che era per loro una grazia e un onore grande seguire il Nazareno, la cui notorietà cresceva sempre più in mezzo al popolo.
Vi farò pescatori di uomini: essi che pescavano i pesci dando loro la morte, sottraendoli dal loro elemento di vita e spacciandoli poi come merce, dovevano pescare gli uomini, sottraendoli alla morte e donandoli a Dio come frutti d’amore. Dovevano allettarli con l’esca delle promesse soprannaturali, e far sì che, di loro libera volontà, fossero andati dal Signore; dovevano tirarli fuori dal mare del peccato e farli morire alla vecchia natura per rivivere nella grazia.

Vi farò pescatori di uomini: parola arcana che è stata il programma della vita della Chiesa in tutti i tempi, e lo sarà fino al termine dei secoli; essa getta sempre le sue reti con la predicazione, con l’apostolato e con la carità, e trae alla riva della vita eterna le anime; come il pescatore raccoglie nella rete i pesci buoni e cattivi, così anche la Chiesa raccoglie, nel suo seno, buoni e cattivi, e attende che il suo Re faccia poi la cernita nell'ultimo giorno.
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 17 gennaio 2015

La Vocazione dei primi discepoli

Commento al Vangelo: II domenica del TO B 2015 (Gv 1,35-42)


La vocazione dei primi discepoli
San Giovanni, stando con due dei suoi discepoli nel luogo stesso dove aveva additato Gesù quale Agnello di Dio, cercava sempre occasione per eclissarsi, e per orientare le anime verso il Redentore.
Quand’ecco lo vide passare e, mirandolo, disse nuovamente: Ecco l’Agnello di Dio; lo disse per invitare i due discepoli a seguirlo. Essi, infatti, gli andarono dietro da lontano, per raggiungerlo a casa e parlargli con maggiore intimità. Gesù Cristo, però, conoscendo già i loro desideri, si voltò e disse loro: Che cercate voi? Essi risposero chiamandolo col nome affettuoso di Maestro mio, Rabbì, e gli domandarono dove abitasse, per potergli parlare. Gesù li invitò a seguirlo dove era ospite, perché non aveva abitazione propria. Stettero con Lui tutto quel giorno, e parlarono certamente del regno di Dio.
Fu un momento d’immensa gioia per il loro spirito, e san Giovanni che certamente era uno dei due discepoli, nota l’ora di quella santa chiamata, l’ora decima, cioè circa le quattro di sera che fu per la sua vita di decisiva importanza.
Andrea, l’altro discepolo che seguì Gesù, s’incontrò col proprio fratello Simone, e gli disse: Abbiamo trovato il Messia, e lo condusse da Gesù. Questi, fissandolo in volto e considerando la missione che voleva dargli di pietra fondamentale della Chiesa, gli disse: Tu sei Simone, figlio di Giona; tu sarai chiamato Cefa, ossia Pietro.

La nostra vocazione
e sulla vocazione in genere
Le circostanze nelle quali furono chiamati i primi apostoli sembrano accidentali, eppure erano particolari disposizioni di Dio che ci fanno intendere come siamo chiamati anche noi nelle vie del Signore.
Andrea e Giovanni, sentendo chiamare Gesù Agnello di Dio, lo seguirono per parlargli nella casa dove abitava; quella visita fu il primo anello dell’incomparabile grazia dell’apostolato. Andrea s’incontrò col fratello Simone, e gli annunciò di aver trovato il Messia, conducendolo egli medesimo da Gesù. Filippo fu chiamato direttamente da Gesù con una parola energicamente precisa: Seguimi, ed egli lo seguì senz’altro. Natanaele fu chiamato da Filippo, e seguì l’invito a stento e con un senso di prevenzione che si dileguò, poi, innanzi alla luce che gli venne dalle parole stesse di Gesù Cristo.
Tutto era disposto dalla Provvidenza, e tutto sembrava naturale e normale.
Così sono chiamate le anime ad una particolare missione o vocazione: una parola di fede ascoltata da un’anima buona e accettata con umiltà, una visita a Gesù Sacramentato fatta con vero amore può determinare nell’anima un indirizzo nuovo di grazia. Il Signore si può servire dell’amore fraterno per indurre un’anima a seguirlo, può servirsi di una parola di amicizia, come fece Andrea con Simone e con Natanaele, e può chiamare con un’ispirazione diretta, come fece con Filippo.
Tacciare di fantasia una vocazione religiosa determinata dall’esempio o dall’invito di un fratello o di una sorella, tacciare di superficialità una vocazione determinata da una parola amica, e credere segni di nessuna vocazione le prime difficoltà che l’anima oppone alla grazia, è completamente falso.
La vocazione sacerdotale o religiosa a volte è come una di quelle sementi campestri che vengono portate dal vento sui ruderi di un edificio e, alle prime piogge, si schiudono e danno il loro fiore. Pretendere che tutte le vocazioni siano frutto di calcolo spirituale o di ponderazione umana e naturale significa ridurre una delicata funzione di grazia soprannaturale alla scelta di un mestiere o di una professione di proprio gradimento.
La vocazione è un dono di Dio, e si possono benissimo invitare i giovanetti e le giovanette a dissodare le loro anime e vedere se vi alligna, poi, il germe di una vocazione vera mandata da Dio.
Non è una sopraffazione e tanto meno un tradimento preparare le anime con una vita cristiana e perfetta a maggiori altezze spirituali. La sopraffazione e il tradimento, semmai, hanno luogo quando si curano poco i virgulti novelli, e si riducono i seminari o i noviziati a miseri collegi laici, col pretesto di evitare le esagerazioni della pietà e della devozione.
Non siamo tutti chiamati alla perfezione? E non è un vantaggio incamminarsi per la via del Cielo? E se anche per errore – come dice sant’Alfonso de’ Liguori –, si abbracciasse una vocazione perfetta, e si fosse costretti così ad una vita distaccata dal mondo, potrebbe questo chiamarsi un danno? Il danno sta proprio nell'opposto, quando si conduce una vita mondana, avida di beni terreni e di piaceri fugaci e traditori.

La vita passa, e tutto ciò che ne forma l’attrattiva passa in un baleno; trovarsi al suo termine senza avervi raccolto quello che passa, e constatare di avervi, anche con stento o a malgrado, raccolto beni imperituri, è un grandissimo dono di Dio e un’immensa consolazione. 
Sevo di Dio Don Dolindo Ruotolo

sabato 10 gennaio 2015

La voce del Padre nel Giordano



Commento al Vangelo – Domenica dopo l’Epifania (Mc 1,7-11)
                                  Battesimo del Signore - Festa

La voce del Padre nel Giordano
San Marco sintetizza, in brevi parole, due grandi avvenimenti della vita di Gesù Cristo; il suo battesimo nel Giordano e la sua tentazione nel deserto. Avendo parlato della voce che gridava nel deserto per preparare la via del Signore, è attratto dal ricordo della voce del Padre che risuonò sul Giordano, e accenna appena alla voce di satana che tentò troncare la missione del Redentore. Una voce la preparava, una voce la proclamava, una voce tentava arrestarla. Le circostanze di questi fatti sono quasi accidentali, e l’evangelista vi si trattiene poco.
Giovanni aveva detto che il Redentore avrebbe battezzato nello Spirito Santo, e Gesù Cristo volle consolarlo, iniziando quel battesimo proprio per le mani di lui. Andò a ricevere il battesimo della penitenza per accogliere su di sé i nostri peccati, e andò a santificare le acque con la sua presenza e con quella del Padre e dello Spirito Santo, perché si fossero mutate in lavacro di rigenerazione e di grazia. Scese nelle acque come novello Mosè, e aprì il mare della divina misericordia con la sua potenza d’amore, attraendo sulla terra lo sguardo del Padre; i cieli si aprirono e discese visibilmente lo Spirito Santo, come discese al principio del mondo sulle acque per fecondarle nella vita; si compiva solennemente quello che era stato un lontano e misterioso annuncio nella creazione, poiché il Verbo fatto uomo discendeva nell’acqua per rigenerare tutto in Lui, lo Spirito Santo discendeva sul Verbo fatto Vittima, per fecondare l’opera sua, e il Padre faceva sentire la sua voce, compiacendosi del Figlio divino che lo amava, e amandolo nella fiamma dell’infinito Amore.
Fu un momento solenne, nel quale la gloria della Santissima Trinità illuminò nuovamente la terra; il Redentore si umiliò discendendo nell’acqua e, in quell’atto di umiliazione, riconobbe la gloria di Dio, esaltandolo sopra tutte le cose; alla voce del suo amore si aprirono i cieli, cioè sparirono quasi nella immensa luce che si diffondeva, e dalle profondità luminosissime venne come una candida fiamma che sembrava una colomba; era l’infinito Amore che rispondeva all’Amore del Verbo Incarnato, era la compiacenza del Padre che spirava col Verbo l’infinito Amore, era la testimonianza del Cielo che si univa a quella della terra, e confermava la voce di Giovanni.
Si deve notare che l’evangelista descrive la scena in poche parole, perché essa fu quasi come un lampo di luce sfolgorante; in un attimo avvolse tutta la terra, poiché per tutta la terra si diffuse la voce placida e potente della divina Bontà che abbracciò le sue creature, rappresentate dal Redentore, oggetto della sua infinita compiacenza.
Nel mondo, però, satana non era stato ancora sconfitto, e nella gloriosa manifestazione del Giordano aveva dovuto sogghignare beffardamente, perché aveva ancora la preda fra gli artigli, e si riprometteva, nel suo orgoglio, di non farsela sfuggire. Ecco perché subito lo Spirito Santo che aveva santificato tutta l’umanità del Redentore con nuovi doni, lo spinse nel deserto perché avesse dato a satana la prima sconfitta, digiunando e ricacciandolo nell’abisso.
San Marco non racconta minutamente la tentazione di satana: non aveva bisogno di farlo; gli importava opporre al primo Adamo il secondo, al peccatore il Riparatore, al ricercatore del godimento il Penitente divino che, spinto dall’amore per il Padre, va nel deserto invece che nell’Eden; digiuna invece di appetire il frutto proibito; ricaccia satana che lo tenta invece di farsi lusingare dalla sua voce infernale; rimane con le fiere invece di cercare il seducente sorriso di Eva, come fece Adamo, compiacendola, e fu servito dagli angeli, perché, proprio in questo, elevò la natura umana, rendendola compagna degli angeli di Dio.
Ecco tracciato il nostro cammino di resistenza allo spirito infernale. Dobbiamo umiliarci, riconoscendoci peccatori, sottomettendoci agli altri, e cercando unicamente la gloria di Dio. Dobbiamo offrire al Signore un cuore puro, perché la grazia dello Spirito Santo lo inondi e lo renda compiacenza di Dio.
Quello che impedisce l’effondersi della grazia in noi è proprio l’impurità, figlia dell’orgoglio e l’orgoglio maledetto della carne. Non è necessario cadere nel baratro per essere chiusi alla grazia, bastano anche quelle miserie volontarie che distraggono vanamente l’anima nelle creature. La curiosità morbosa che ci ferma esternamente nell’ammirazione della forma estetica, e che internamente ci attrae al senso con vane compiacenze e con desideri di male spesso semicoscienti, è una barriera che si frappone tra noi e la grazia, e può da sola renderci infecondi spiritualmente, e sospingerci verso gli abissi del male.
Ritiriamoci nel deserto con la modestia degli sguardi, e formiamo in noi la solitudine, impedendo che il mondo ci si avvicini attraverso quegli spettri che si formano in noi per gli sguardi dissipati. Non crediamo che sia poi un male, magari, il non vedere un oggetto che ci può sembrare d’arte; non ci facciamo illudere dalla necessità di osservare o dal bisogno di ammirare ciò che è bello; tutte queste scuse non impediscono di respirare l’aria mefitica della carne, e ci attraggono pesantemente nelle sfere dei sensi.
Quando l’aeroplano gira su se stesso, si avvita come si dice in termine tecnico –, e quando si avvita fa precipitare nel vortice della morte; similmente, quando ci rivolgiamo su di noi o sulle creature, la carne ci avvita, e precipitiamo facilmente nella mota, dove la divina Colomba non può fermarsi.
         Andiamo nella solitudine, appartandoci da tutto ciò che è vano e curioso, da tutto ciò che ci distrae nell’ansietà di voler vedere, osservare, ammirare; lo diciamo proprio per la salvezza e la santificazione delle anime, e per renderle oggetto di compiacenza innanzi a Dio; amiamo la solitudine interiore, facciamolo almeno per prova; rifuggiamo dagli sguardi che fanno giungere a noi le voci di satana, alimentiamo l’anima nelle placide visioni del Cielo, e sentiremo nel cuore e nei sensi una libertà dolcissima che ci farà volare fino a Dio, e ci farà conversare con gli angeli. 
Padre Dolindo Ruotolo

martedì 6 gennaio 2015

I Magi l'adorazione del nato Redentore



Commento al Vangelo

Epifania del Signore 2015

I Magi: l’adorazione del nato
Redentore

        Quando nacque Gesù Cristo, regnava nella Giudea Erode, chiamato il Grande, si direbbe per una storica ironia, perché se fece molti lavori pubblici, fu un crudelissimo tiranno, e ottenne il regno a furia d’intrighi col senato romano. L’evangelista fa notare intenzionalmente che regnava Erode, un Idumeo straniero che rappresentava per di più l’autorità dei Romani, per far notare che Gesù Cristo, secondo la profezia di Giacobbe (cf Gn 49,10), era nato quando lo scettro regale era stato tolto a Giuda. Erode era padre di quell’Erode, tetrarca della Galilea che fece poi decapitare il Battista e schernì Gesù Cristo nella sua Passione. Alla sua morte, infatti, il regno venne diviso dai Romani in quattro tetrarchie e dato ai suoi figli; terminò così anche quella parvenza di regno che egli era riuscito a conquistare.
        Gesù Cristo nacque a Betlemme di Giuda, chiamata anche Efrata, piccola borgata situata a circa due ore di cammino a sud di Gerusalemme. Vi era un’altra Betlemme situata nella tribù di Zabulon in Galilea, e l’evangelista aggiunge al nome della città la regione cui apparteneva, per mostrare che il Redentore era nato nella città di Davide come suo discendente, e aveva compiuto, con la sua nascita, la profezia di Michea, ricordata ad Erode stesso dai principi dei sacerdoti.
        Non può dirsi con precisione da quanto tempo era nato il Redentore, quando alcuni sapienti dell’oriente, chiamati perciò con parola generica Magi, si recarono a Gerusalemme per adorare il nato Re, essendo stati chiamati alla sua culla da un astro fulgentissimo che era apparso nel cielo.
        Questi Magi studiavano astrologia, e non ignoravano la profezia di Balaam (cf Nm 24,17), con la quale si annunciava l’apparizione di una nuova stella in Giacobbe alla nascita del promesso Messia. All’apparizione della stella che era come una meteora luminosa, si sentirono internamente ispirati ad andare a Gerusalemme per far ricerca del nato Re, e intrapresero il lungo viaggio. Essi venivano probabilmente dall’Arabia e, secondo la comune tradizione, erano tre, sapienti e principi, tenuti in grande considerazione nel loro paese. La stella quasi li invitava al viaggio, perché si librava nell’atmosfera come un segno che indicava la direzione del cammino da intraprendere, e mostrava di muoversi in quella direzione. Non era dunque un astro che aveva un moto circolare, non poteva essere un’illusione, non poteva essere un segno confondibile con un fenomeno sidereo qualunque: era un segno celeste, una chiamata di Dio.
        La fede dei Magi fu grande, perché il viaggio non era facile, e fu grande soprannaturalmente, perché essi non avrebbero avuto interesse ad andare a conoscere un neonato re, se non avessero sentito e creduto che quel Re era il Salvatore promesso. Era la primizia dei pagani che il Signore chiamava alla fede – come dice la Chiesa –, era la rappresentanza del mondo che veniva a rendere omaggio all’Uomo Dio, e veniva a scuotere un po’ l’indifferenza con la quale era stato ricevuto in terra che pur lo aveva aspettato.
        È evidente dalla Tradizione e dal medesimo contesto del Vangelo che la stella li accompagnò durante il viaggio, e che si eclissò forse quando entrarono nella terra d’Israele.
        Dio che è infinita economia e non compie opere superflue, fece eclissare il segno straordinario dove era possibile essere guidati dai lumi naturali di chi stava al pubblico potere. Potrebbe anche supporsi che le nubi avessero eclissato la meteora e che essa rimanesse solo occultata nell’atmosfera. Comunque sia, i Magi, non sapendo dove andare, si rivolsero al re Erode, come a colui che avrebbe dovuto essere informato della nascita dell’atteso Messia. Con la semplicità che caratterizzava i popoli orientali, essi domandarono dove fosse nato il re dei Giudei, avendo visto la sua stella in oriente. Erode che aveva consumato tanti delitti per avere e conservare il regno, fu costernato a questa notizia, perché sapeva benissimo che gli Ebrei aspettavano un liberatore, e che da tutti si diceva prossimo l’evento. Dissimulò, pertanto, il suo turbamento e, nel suo crudele animo, fece già il piano di sbarazzarsi del nato Re, uccidendolo. Chiamò i capi delle classi sacerdotali e i dottori della Legge, e domandò loro con insistenza dove sarebbe dovuto nascere il Cristo. La sua domanda suscitò un turbamento in tutta Gerusalemme, perché la carovana degli stranieri che vi erano giunti, l’annuncio del compimento delle promesse, e forse soprattutto il timore della crudeltà del tiranno, sconvolto dall’annuncio della nascita del re aspettato, faceva temere al popolo qualche brutta sorpresa. L’ingratitudine umana, poi, non ha limiti, dolorosamente; il popolo si era adattato al regime di oppressione e, come tutti i popoli decaduti, preferiva rimanere supinamente oppresso, anziché venire in urto con chi lo dominava.
        Il Vangelo dice espressamente che Erode si turbò e con lui tutta Gerusalemme; non fu dunque un moto di commozione per l’annuncio del nato Re, ma un timore grande di nuove oppressioni da parte del tiranno, e di complicazioni penose che rese il popolo solidale col perfido monarca.
        Il prestigio dei Magi non doveva essere indifferente, se Erode prese in tanta considerazione la loro domanda, e la stimò così vera, da radunare il consiglio dei sacerdoti e degli scribi, per sapere da loro la risposta che avrebbe dovuto dare. Si sapeva che le profezie riguardanti il Redentore erano determinate, e questo non poteva ignorarlo lo stesso Erode; non era dunque difficile rispondere ai Magi, facendo capo alle Scritture. Il consiglio dei sacerdoti e degli scribi, infatti, fu unanime nell’affermare che il Redentore doveva nascere a Betlemme di Giuda, secondo la profezia di Michea.
        L’evangelista non cita letteralmente la profezia, ma il senso che dà è preciso. Michea dice che Betlemme è piccola fra le mille città di Giuda ma, nascendo da essa il Redentore, è grande; san Matteo dice nel medesimo senso che essa non è la minima tra le città principali di Giuda, perché da essa esce il condottiero che deve reggere il popolo d’Israele.
        Avuta la risposta, Erode chiamò segretamente a sé i Magi, perché volle evitare che il popolo li accompagnasse e andasse dal nato Messia, e s’informò minutamente del tempo nel quale era loro comparsa la stella. La risposta dei sacerdoti lo aveva anche di più insospettito e preoccupato, perché essa aveva un grande valore innanzi al popolo, e avrebbe potuto provocare una sommossa contro la sua usurpata autorità. Astuto com’era, finse di volersi recare anch’egli ad adorare il nato Re, e mandò i Magi a Betlemme perché l’avessero ricercato, e gli avessero riferito minutamente intorno al luogo dove si trovava. Voleva saperlo per poi farlo uccidere, e s’informò del tempo della comparsa della stella perché, al suo animo crudele, abituato alle stragi, già balenava l’idea di non ucciderlo direttamente attirandosi l’odiosità popolare, ma di coinvolgerlo in una strage comune.
        Appena udita la risposta del re, i Magi partirono, ed ecco che la stella, visto nell’oriente ed eclissata ai loro sguardi, riapparve nel cielo, con immensa gioia del loro animo, indicò la via da percorrere e si fermò sulla grotta dov’era ricoverato Gesù; è probabile, infatti, che la Vergine Santissima fosse stata costretta a rimanere in quella grotta, continuando l’affluenza dei forestieri a Betlemme per il censimento. Forse la dolcissima Mamma si fermò perché Gerusalemme era poco distante da Betlemme, ed attese il compimento dei giorni legali per presentare al tempio il Bambino; forse fu disposizione di Dio che il Verbo Incarnato rimanesse ancora in quella povertà estrema, per manifestarsi così ai pagani. Il fatto certo è che Maria stava ancora a Betlemme all’arrivo dei Magi, e si trovò sola col Bambinello, essendo andato san Giuseppe o a lavorare o a disbrigare faccende.
        I Magi non videro nulla di straordinario, ma videro ciò che era immensamente straordinario da ferire l’anima d’amore: videro Maria col suo Bambino divino e furono talmente colpiti dalla santità della Madre e dalla maestà del Figlio che si prostrarono e lo adorarono, non a mo’ di saluto, perché non avrebbero potuto salutare un infante, ma lo adorarono come Re e come Dio, e gli offrirono doni, come soleva farsi ai re, e doni particolari che si addicevano al Redentore: l’oro, l’incenso e la mirra. Con l’oro lo riconobbero Re, con l’incenso lo confessarono Dio, con la mirra riconobbero la sua condizione di Vittima.
         Innanzi a Gesù Cristo e a Maria Santissima si sentirono infiammati d’amore, provarono una felicità mai sentita nella loro vita e, avvertiti in sogno di non ritornare da Erode, temendo di essere vigilati dal tiranno, se ne ritornarono per un’altra strada, segretamente, al loro paese
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 3 gennaio 2015

Il Verbo e il Logos



Commento al Vangelo – II Domenica dopo Natale 2015 (Gv 1,1-18)

Il Verbo e il Logos
        L’evangelista intende stabilire bene il fondamento della nostra fede in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, affinché non si fosse potuto formare un Cristo arbitrario né si fosse potuto confondere il Verbo eterno, consustanziale al Padre con la povera ombra intuita da Platone nel tentare, con i lumi della sola ragione, di scrutare le profondità di Dio.
        San Giovanni scrisse il suo Vangelo ad Efeso, centro di cultura, dove era conosciuto il famoso logos di Platone, prima, lontana intuizione imperfetta del Verbo di Dio, avuta da Platone certamente per un lume di grazia naturale, quasi per preparare le menti alla sublime rivelazione della fede. Platone, considerando Dio come infinitamente intelligente, lo chiamò mente, e la sua intellezione la chiamò logos, cioè idea della mente divina, secondo la quale Egli creò tutte le cose, e ne rifletté in sé l’ardore, perché creò il mondo per amore di sé, onde quel detto famoso del filosofo che sembra un’ombra lontana della Trinità.
        Il logos di Platone era ben lungi dalla concezione del Verbo di Dio, consustanziale al Padre e Persona distinta da Lui, ma san Giovanni designò il Verbo eterno con la stessa parola, sia perché gli eretici avevano dovuto già cominciare ad abusarne, e sia perché non si fosse confuso con l’idea di Platone; per questo, dopo aver detto che il Verbo era eterno, era Persona distinta dal Padre, era Dio Egli stesso, soggiunge che Egli era nel principio presso Dio, cioè non era solo un’intellezione transeunte della mente di Dio, come è transeunte un atto della nostra mente, ma era eterna conoscenza del Padre, eternamente presso il Padre, cioè sussistente ed eternamente distinto da Lui. Non era solo un’idea della mente divina, secondo la quale furono create le cose, ma era onnipotente come il Padre e per Lui furono fatte tutte le cose, e senza di Lui nulla fu fatto di ciò che è stato fatto. Il Verbo era presso Dio, in greco omoúsion, cioè uguale al Padre; non era, dunque, il logos di Platone, concepito come prima creatura di Dio, ma era Dio come il Padre, Dio onnipotente e Creatore, per cui furono fatte tutte le cose, e senza di Lui nulla fu fatto di ciò che è stato fatto o, secondo il greco, neppure una cosa di ciò che è stato fatto; Egli non era la creatura prima fra le creature, secondo il concetto di Platone che presiedeva alla creazione delle altre; era il Verbo eterno per cui tutto fu fatto. Non era ministro della creazione, ma ne era causa col Padre e lo Spirito Santo.
        L’evangelista dice che tutto fu fatto per mezzo di Lui, perché nel Verbo eterno sono i prototipi di tutte le cose create.
        L’artefice fa tutto per la sua idea, per la sapienza che ha e per il concetto che si forma di ciò che vuol fare, cioè fa tutto attraverso il Verbo della sua mente; Dio crea secondo i prototipi della sua mente infinita, e i prototipi sono nel Verbo a Lui consustanziale, sua conoscenza sussistente, Figlio suo generato da Lui ab aeterno. Il Verbo riceve dal Padre, con l’essenza divina, l’onnipotenza e l’azione, la stessa del Padre, col quale e con lo Spirito Santo crea tutto.

Dall’eternità al tempo
        San Giovanni passa perciò dall’eternità al tempo, e accenna alla creazione di tutto attraverso l’eterna e increata sapienza. Mosè disse: In principio Dio creò il cielo e la terra, e non poté sondare il grande mistero nella sua fonte, ma udì la parola creatrice di Dio che popolava il tempo e lo spazio di meraviglie; san Giovanni penetrò più in fondo l’arduo mistero e, in quella Parola onnipotente che risuonò prima sul vuoto del nulla e poi sulla informe massa del caos, ravvisò l’infinita potenza creatrice di Dio che, attraverso il suo Verbo, creava tutte le cose.
        Chi può scrutare quell’arcano momento nel quale venne fuori la creazione, e chi può intendere la grandiosa, immensa poesia di quella settimana di giorni, di anni, di secoli, di miliardi di secoli che vide sorgere ad una ad una tutte le meraviglie dell’universo?
        Chi può, anche lontanamente, intuire che cosa grande fu il passaggio repentino dal non essere all’essere?
        Ne abbiamo un’idea nella potenza delle parole della Consacrazione eucaristica, poiché il Verbo Incarnato le dice, attraverso il sacerdote, sul pane e sul vino, realizzando, con poche parole, il più grande miracolo, ma i nostri sensi non ne percepiscono nulla.
        La Chiesa, nel suo ammirabile linguaggio, quasi dimentica della parola dogmatica che designa questo arcano prodigio d’amore, transustanziazione, lo riguarda, per così dire, come una nuova formazione del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo, e fa dire al sacerdote: Ego volo celebrare Missam, et confìcere Corpus et Sanguinem Domini nostri Jesu Christi.
        Il sacerdote non produce certo il Corpo e il Sangue di Gesù, ma produce la transustanziazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Gesù Cristo; le sacre parole, perciò, hanno una potenza produttiva che dà un’idea della potenza creatrice del Verbo di Dio nell’atto in cui chiamò all’essere e all’ordine le creature.
        In Dio, tutto è in atto, poiché Egli è Atto purissimo, tutto è presente perché Egli è eterno; la creazione era già tutta nei prototipi della sua mente infinita e, diremmo con frase ardita, Egli, nel diffondere la sua bontà, anziché accrescerla di una grandiosa manifestazione della sua potenza, della sua sapienza e del suo amore, dovette quasi ridurla amorosamente, per proporzionarla alle creature alle quali voleva dare l’essere. Avrebbe potuto e può creare milioni e miliardi di mondi e di meraviglie, ma limitò la sua creazione secondo i fini di gloria e di amore che, nei suoi arcani disegni, voleva raggiungere nelle creature.
        Il Verbo eterno, sua glorificazione infinita, diffuse la sua bontà per partecipare la vita e la felicità alle creature, per renderle glorificazione del Padre, e per effondere in esse la sua stessa voce di glorificazione; ma, nel diffondere l’infinita bontà, limitò il numero delle creature. Ad extra produsse un’immensa armonia di glorificazione ma, nella profondità di Dio, Egli fu solo voce d’infinita glorificazione, e per questo volle effondere questa voce di gloria in tutte le creature; e riparò la deficienza di quelle senz’anima e le miserie di quelle ragionevoli, incarnandosi. Si fece uomo e si donò all’uomo, arricchendolo di preziosissimi doni, perché egli avesse potuto lodare Dio degnamente, attraverso le stesse opere della creazione. Per questo san Giovanni soggiunge che in Lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini.
        Il momento della creazione è un mistero che dà le vertigini; ma l’evangelista ci dà in mano la chiave per vederlo almeno in sintesi, dicendo: Per mezzo di Lui furono fatte tutte le cose.
        Elèvati anima mia in alto e contempla.
        Ecco Dio, ecco Dio, Uno e Trino, tutto in sé, tutto compiaciuto di sé, in umiltà divina, oserei dire, perché se l’umiltà è verità, nessuna umiltà è più profonda quanto quella della verità eterna che conosce Se stessa infinitamente, generando l’eterno Verbo.
        Conoscendosi, Dio si ama, infinitamente si ama, e l’amor suo è sussistente, è Persona distinta, è diffusione infinita del Padre al Figlio e del Figlio al Padre, è Fiamma d’eterno ardore che, unendo il Padre al Figlio e il Figlio al Padre, rende Dio tutto fiamma d’amore, lo rende carità: Deus charitas est.
        Dio, conoscendo se stesso, conosce la sua onnipotenza, e conosce i prototipi della sua infinita mente, secondo i quali la sua onnipotenza può diffondersi ad extra, li conosce nel Verbo che è sussistente conoscenza di sé.
        È una conoscenza semplicissima e tutta in atto, ma noi dobbiamo immaginarla come successiva per averne una lontana idea, dobbiamo paragonarla, per lontana analogia, alla mente di un artista che contempla in sé gli ideali che ha, e che li vede quasi in atto nel suo pensiero.
         Dio solo compie le sue opere secondo i suoi prototipi, le vede e se ne compiace, perché sono buone: Vidit Deus quod esset bonum; e anche quando esse, per la malizia della creatura ragionevole, si disordinano, Egli cava dal disordine una nuova armonia, e dalle rovine una nuova fioritura di bene. Egli, quindi, non fallisce mai nei suoi disegni, pur lasciando alle sue creature la piena libertà; Egli tutto prevede e ordina le sue opere a quello che vuole.
Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo