sabato 23 maggio 2015

LA VENUTA DELLO SPIRITO SANTO

Domenica di Pentecoste 2015 B (Gv 15,26-27; 16,12-15)
Messa del giorno

La venuta dello Spirito Santo
Annunciando la venuta dello Spirito Santo, Gesù Cristo disse che sarebbe stato mandato da Lui e dal Padre, e con questo disse chiaramente che lo Spirito Santo procedeva da Lui e dal Padre. Egli espresse proprio l’opposto di quello che gli eretici, negatori della processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio, pretesero dedurre dalle sue parole. Teologicamente, infatti, nelle Persone divine la missione, ossia l’essere mandata l’una dall’altra, indica proprio la processione di una dall’altra, o per generazione, come avviene nel Figlio, o per spirazione, come avviene nello Spirito Santo. Gesù, quindi, dicendo che avrebbe mandato lo Spirito Santo dal Padre, disse chiaramente che lo Spirito Santo procedeva da Lui e dal Padre, come notano sant’Ilario (cf De Trinitate, Lib. VIII,) e sant’Agostino (cf De Trinitate, capitolo XX, Libro IV); e implicitamente disse che procedeva per unica spirazione, essendo Egli una sola cosa col Padre.
Soggiunse, è vero: Lo Spirito di verità che procede dal Padre, ma sottintese sempre: Io manderò, e quindi sottintese che procedeva anche da Lui. Egli, del resto, come è detto nel capitolo seguente chiarissimamente (16,13), protestò che tutto ciò che aveva il Padre lo aveva anche Lui, e quindi che lo Spirito Santo procedeva dal Padre e da Lui. In questo capitolo, disse che lo Spirito Santo procedeva dal Padre, e nel seguente disse che riceveva da Lui: De meo accipiet. Ora, in Dio non c’è altra ragione di ricevere che il procedere, e quindi ricevere significava procedere. Dai due Testi, perciò, risulta chiaro che lo Spirito Santo procede dal Padre e riceve dal Figlio, ossia procede dal Padre e dal Figlio.
Gli apostoli dovevano rendere testimonianza a Gesù Cristo, attestando da testimoni oculari quello che avevano visto e udito. Ma la loro testimonianza sarebbe stata vana senza una conferma divina, e questa l’avrebbe data lo Spirito Santo con i doni e con i carismi. Gli apostoli avrebbero attinto la forza per operare dalla Santissima Eucaristia, e per Gesù Cristo avrebbero avuto la pienezza delle grazie dello Spirito Santo. Essi avrebbero così resistito alle persecuzioni e all’odio del mondo e, pur subendo dolori, angustie e morte ad imitazione del Maestro divino, avrebbero compiuto la loro missione.
Il pensiero poi che il Maestro divino li lasciava, li rattristava grandemente, perché erano come figliolini attaccati alle vesti materne. Che cosa potevano annunciare al mondo? A che cosa si riduceva la dottrina che avevano ascoltata? La loro mente era confusa e il loro spirito, anche inconsciamente, desiderava delle chiarificazioni. Per questo Gesù soggiunse: Molte cose ho ancora da dirvi, ma non ne siete capaci adesso. Quando verrà Spirito di verità, Egli v’insegnerà tutta la verità. Egli infatti non vi parlerà da se stesso ma vi dirà quanto ha inteso, e vi annuncerà le cose che dovranno succedere. Egli mi glorificherà, perché prenderà ciò che è mio e ve lo annuncerà. Tutto ciò che ha il Padre mio è mio; perciò vi ho detto che prenderà ciò che è mio e ve lo annuncerà.
Gesù voleva dire: Voi desiderate sapere che cosa dovrete dire al mondo, e vi preoccupate della vostra missione. Io, in realtà, non vi ho detto ancora tutto, e ho molte altre cose da rivelarvi, ma voi non sareste ora capaci di comprenderle. Vi manderò lo Spirito Santo ed Egli v’insegnerà tutta la verità. Egli non farà una nuova economia di provvidenza salvatrice né verrà per fondare qualcosa di diverso da quello che ho fatto già io, non vi parlerà da se stesso, ma vi dirà quanto ha inteso, cioè vi dirà quanto io ho detto e ve lo spiegherà, e vi annuncerà le cose che dovranno succedere, dicendovi quello che io non ho potuto ancora annunciarvi, e dandovi lo spirito di profezia. Voi così non sarete confusi né per ciò che avete visto e ascoltato né per ciò che vi avverrà.
Vi scoraggiate nella vostra missione, ma non siete voi che dovrete glorificarmi, quasi semplici testimoni di un fatto storico; lo Spirito Santo mi glorificherà in voi illuminandovi su tutto ciò che vi ho detto, e vi darà la luce di sapienza perché mi glorifichiate innanzi al mondo; la vostra missione, in altri termini, è soprannaturale, e voi, con la vostra fede, diffonderete in tutti la luce della fede, e con la vostra vita mi glorificherete amandomi e accendendo i cuori d’amore. Lo Spirito Santo procede da me, e riceve da me, con la natura divina, la sapienza divina per istruirvi.

Vi dissi già che Egli procede dal Padre (15,26), ma ora aggiungo che procede anche da me, perché tutto ciò che ha il Padre è mio; il Padre gli comunica la natura divina, e gliela comunico anch’io; procede dal Padre e da me come da unico Principio, e riceve dal Padre e da me la natura divina, la scienza ecc.… Egli, dunque, mi glorificherà solennemente non solo per ciò che ho compiuto come uomo, ma mi glorificherà come Dio: prenderà ciò che è mio e ve lo annuncerà, ossia vi annuncerà la verità della mia natura divina, di quella natura che Egli riceve da me come dal Padre, e vi farà intendere luminosamente che io sono veramente Figlio di Dio. 
Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo

sabato 16 maggio 2015

La missione degli apostoli

Commento al Vangelo – VII Domenica di Pasqua 2015 B (Mc 16,15-20)
Solennità – Ascensione del Signore

La missione degli apostoli
San Marco ricapitola in pochi versetti gli avvenimenti che si verificarono dopo la risurrezione, perché erano molto noti in mezzo ai fedeli, ai quali, prima di tutto, si annunciavano, predicando il Vangelo, a conferma della fede. Egli accenna all’apparizione fatta a Maria Maddalena, a quella che ebbero i discepoli di Emmaus, e a quella che ebbero gli apostoli, e conclude ricordando la missione che Gesù diede loro e la sua Ascensione al cielo; ma in questi pochi accenni quante mirabili scene sono sintetizzate, quante delicatezze del Cuore adorabile di Gesù e – bisogna pur dirlo –, quante ingratitudini da parte dei suoi discepoli! La morte dolorosa di Gesù li aveva disorientati, ed essi avevano perso talmente la fede nel suo trionfo, da credere impossibile la risurrezione. Credettero visionarie le pie donne tornate dal sepolcro, e stentarono a credere persino quando Gesù medesimo apparve ad essi. Anzi, le stesse testimonianze della risurrezione disorientarono talmente due di loro che pensarono di ritornarsene al loro villaggio di Emmaus, non avendo più speranza alcuna nelle promesse del Maestro divino.
È doloroso pensare tutto questo, ed è più doloroso constatare che il cuore umano è sempre duro di fronte alle amorose espansioni del Signore.
Si crede facilmente ai disseminatori di errori e di stoltezze, e si è sempre titubanti innanzi allo splendore dell’eterna Verità.
Eppure la fede è confermata da tali innumerevoli argomenti di luce che bisogna essere ciechi per non vederne l’importanza e la realtà. Non crediamo a favole più o meno dotte: crediamo alla verità, e camminiamo nella nostra povera valle, alla luce degli eterni splendori. La nostra fede ci fa cacciare veramente i demoni che infestano la vita presente, ci fa parlare il linguaggio del Cielo, ci fa vincere i vizi che come serpenti ci insidiano, ci libera dal veleno del male e ci rende forti e sani nelle vie del nostro pellegrinaggio. Credendo, noi abbiamo come meta gloriosa il Cielo, dove Gesù Cristo è asceso per prepararci la dimora della felicità eterna. Non siamo dunque duri di cuore, e ripetiamo spesso il nostro atto di fede al Signore, per essergli fedeli e vincere il mondo.

La fede vera
L’evangelizzazione delle nazioni non è terminata: continua e continuerà fino al termine dei secoli; abbiamo tutti il dovere di cooperarvi con la preghiera e con l’azione, affinché il regno di Gesù Cristo si dilati, e si formi di tutte le genti un solo ovile sotto un solo Pastore. Ogni anima cristiana deve preoccuparsi della salvezza delle altre, perché è inconcepibile un cristiano ristretto nel suo egoismo. Il mondo è duro di cuore e non presta fede a quelli che attestano la verità; ma noi dobbiamo vincere la sua durezza con la nostra fede e la nostra carità. Non basta per noi una fede superficiale, fatta più di una certa condiscendenza ad una tradizione nazionale o familiare, anziché di profonda convinzione e adesione a Dio che rivela e alla Chiesa che ci illumina e ci guida: occorre una fede piena, capace di manifestazioni grandi e potenti e di frutti miracolosi di grazia.
Gesù Cristo enumerò alcuni miracoli esterni che sarebbero stati segni della fede viva: cacciare i demoni, parlare nuove lingue, prendere in mano i serpenti, e in generale trattare anche con gli animali nocivi senza averne danno, essere immuni dai veleni e guarire gl’infermi.
Questi miracoli avvennero veramente nei primi tempi della Chiesa, e avvengono nelle missioni, a conferma della verità, anche oggi; ma quando non c’è bisogno di questi segni impressionanti, la nostra fede dev’essere così grande, da produrli spiritualmente in noi e negli altri; la nostra fede dev’essere piena, e tale da ripudiare ogni suggestione diabolica.
Demoni sono gl’insidiatori della fede; demoni i falsi profeti, i falsi filosofi e i creatori di ideologie anticristiane; ora, questi demoni dobbiamo avere la forza di cacciarli, e se non lo facciamo è segno che crediamo poco.
Il mondo ha un linguaggio ignobile e, nella migliore ipotesi, tutto naturale e ristretto nella materia; noi dobbiamo parlare la lingua del Cielo, e mostrare, nelle parole più comuni della vita, la nostra spiritualità.
Non possiamo appartarci dal mondo nel quale viviamo, ma dobbiamo passarvi senza riceverne nocumento, come chi maneggia i serpenti e non ne è morso, beve il veleno e non ne riceve danno.

Il mondo è pieno d’infermità corporali e spirituali, e noi dobbiamo curarle con la nostra fede che sboccia nella carità. Una fede senza carità è una fede paralitica o morta; i miracoli non sono solo quelli che fanno i santi per dono gratuito di Dio, ma sono anche quelli della carità. Un cuore che si espande per amore di Dio che consola che soccorre che muta un’anima abbrutita in un fiore del campo di Dio e un corpo dolorante in un’oasi di pace e di conforto mostra in sé una grande fecondità di fede, e glorifica la verità anche innanzi ai miscredenti.
Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo

sabato 9 maggio 2015

L’anima angustiata, provata, inaridita e il Sacramento dell’Amore

Commento al Vangelo: VI Domenica di Pasqua 2015 B (Gv 15,9-17)

L’anima angustiata, provata, inaridita
e il Sacramento dell’Amore
La dedizione piena di noi stessi a Gesù dev’essere fatta per amore, e deve essere corrispondenza piena e pratica al suo amore. Nell’Eucaristia, infatti, domina l’amore di Gesù per l’umanità e, per parteciparvi fruttuosamente, è necessario che il nostro amore per Lui sia pieno. Non può concepirsi che si riceva senza amore il Sacramento dell’amore né che quest’amore si restringa ad uno sterile sentimento. Per questo Gesù, per completare la sua mirabile esortazione, soggiunse: Come il Padre ha amato me, così io ho amato voi. Perseverate nel mio amore. Se osservate i miei precetti rimarrete nel mio amore, come anch’io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Il Padre ha amato il Figlio incarnato con un amore infinito e, per glorificarlo, non ha esitato a farlo camminare per la via del dolore. Il Figlio, poi, lo ha amato osservando i suoi comandamenti, cioè compiendo la sua volontà. Ora Gesù protesta di amare i suoi cari con lo stesso amore: dona loro la sua vita, li genera ad una vita superiore e soprannaturale e li porta per il cammino della croce in questa terra, perché possano conseguire l’eterna gioia del Cielo: Vi ho detto queste cose affinché la mia gioia sia in voi e la gioia vostra sia completa. Per rispondere a questo amore e conseguirne i frutti è necessario amare, camminando per la via del Calvario e compiendo la divina volontà nelle angustie della vita e nell'osservanza dei divini precetti.
È questo l’amore che deve portarsi all'Eucaristia.

Quando l’anima si sente angustiata, arida, provata, e va a Gesù con un pieno abbandono alla sua volontà, allora veramente ama, e allora il Sacramento dell’amore la vivifica. Si può dire giustamente che si riceve l’Eucaristia per unirsi in Gesù e con Gesù alla divina volontà, nelle pene e nelle tenebre del nostro cammino. L’Eucaristia non è il Sacramento dei beati comprensori, ma dei viatori e delle vittime. All'altare del Sacrificio ci si va meglio con una veste di sacrificio, e con un pieno abbandono al Signore per tutto ciò che dispone nella nostra vita. La gioia che si raccoglie all’altare è proprio la gioia di una più completa unione alla divina volontà.

Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo

sabato 2 maggio 2015

L'unione dell'anima con Gesù Cristo

Commento al Vangelo: V Domenica di Pasqua 2015 B (Gv 15,1-8)


L’unione dell’anima con Gesù Cristo
Gesù Cristo esortò gli apostoli ad alzarsi da tavola e andar via, ma non uscirono immediatamente, perché dovettero rassettare la sala del banchetto. Mentre raccoglievano i residui della mensa, Gesù continuò il suo discorso con loro. Egli, che già si chiamò pane di vita e si paragonò al granello di frumento, vedendo gli apostoli che toglievano i vasi del vino, o forse anche vedendo qualche tralcio disseccato di vite che poteva essere nella sala per attizzare il fuoco, esclamò: Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Gesù era il coltivatore divino della vigna novella che era venuto a piantare in mezzo al popolo eletto, ma in quel momento si era donato vivo e vero come Cibo e come Bevanda, ed era Egli stesso la vite che dava il frutto soave, e lo dava perché le anime, congiunte a Lui, avessero prodotto anch’esse il loro frutto, in Lui e per Lui. Dandosi sacramentalmente, Egli si era come moltiplicato e aveva promesso di darsi a tutti i suoi fedeli, unendoli a sé; era dunque, per l’Eucaristia, come una vite che doveva coprire dei suoi tralci tutto il mondo e i fedeli erano i suoi tralci, congiunti a Lui, per attingere da Lui il succo vitale e produrre il frutto. Il Padre suo, sotto questo aspetto, era il vignaiolo e il coltivatore di questa vite divina, poiché Egli aveva mandato il Figlio suo in terra perché, salvando le anime, le avesse congiunte a sé e le avesse rese come suoi tralci vivi e fecondi. Per mezzo dei Sacramenti, e soprattutto per l’Eucaristia, i fedeli, congiunti a Gesù Cristo come i tralci alla vite nel suo mistico Corpo, avrebbero attinto la sua vita e prodotto in Lui e per Lui frutti di eterna gloria.
L’espressione più bella della schiavitù d’amore al Re divino sta proprio nel paragone della vite e del tralcio, simbolo del Corpo mistico unito al suo capo in una dedizione piena che è in Lui legame d’amore e libertà piena da ogni vincolo di morte. Il tralcio non è libero quando è congiunto alla vite, perché la sua vitalità dipende da essa; ma questa dipendenza non è oppressione o mancanza di attività proprie, è invece espansione di vita, fioritura e produzione di frutto. Se il tralcio si stacca dal ceppo e pretende di vivere da sé, muore, è reietto, è schiavo del terreno in cui giace inerte, è schiavo di chi lo raccoglie per gettarlo nel fuoco ed è schiavo del fuoco medesimo che lo consuma. L’anima che si dona interamente a Gesù, senza restrizioni, rinuncia alla propria inerzia e, per la dolce schiavitù d’amore, è tutta vivificata da Lui. Essa, più che rinunciare alla propria libertà, dona a Lui l’intera libertà di elevarla e santificarla, e vive di una libertà divina, immensamente più vera e più bella della propria effimera libertà. Sta, infatti, nell’essenza della libertà, non tanto il potere di operare il male o di degradarsi, ma la possibilità di elevarsi in Dio senza restrizione, in una continua ascesa verso le vette della perfezione e della santità.
La libertà del male è un difetto della libertà non un vantaggio, com’è un difetto il servirsi di una tastiera libera di pianoforte per strimpellarvi note confuse e accordi stridenti.
Si è veramente liberi al pianoforte quando si è legati alla melodia e al ritmo, e quando vi si suona ogni specie di musica, senza esser costretto da un diaframma ad una sola suonata o, peggio, senza esser costretto dalla paralisi del braccio o delle dita a percuotere i tasti senza nesso alcuno.
Gesù Cristo è la vera vite, cioè è il vero centro della vita delle anime, congiunte a Lui nella Chiesa e per la Chiesa. Ora, come nella vigna l’agricoltore toglie via dalla vite quei tralci che non portano frutto e pota salutarmente quelli che ne portano poco, così Dio recide dal Corpo mistico del Redentore le anime che non portano frutto alcuno, perché non assorbono più la sua vita, e purifica con le tribolazioni, le prove e le tentazioni, le anime che danno con facilità corso alle proprie miserie, e si espandono nel mondo, come un povero tralcio che si allunga lontano dal tronco, si avvinghia agli sterili pali, e disperde tutto l’umore che dovrebbe farlo fiorire e fruttificare.

Se rimarrete in me e le mie parole rimarranno in voi,
qualunque cosa vorrete e la domanderete vi sarà concessa
Gesù, rivolto agli apostoli, disse che essi erano già mondi per la parola che aveva loro annunciato, perché i loro pensieri e la loro anima per quella parola di vita erano orientati a Dio. Tutto ciò che nell’antica Legge era simbolico e transitorio, era in loro già illuminato dalla realtà, e tutto quello che di arbitrario vi avevano frammischiato gli scribi e i farisei era stato illuminato, in loro, dalla luce della verità. Nel loro spirito Egli aveva come piantato il seme della carità e dell’universalità, di modo che non erano più isolati nella cerchia ristretta di una stirpe o di una nazione né erano presi dal disprezzo verso gli altri e dall'aborrimento verso i peccatori; aveva dato loro il nuovo precetto della carità perché avessero amato tutti, e li aveva designati ad un apostolato universale, per conquistare al suo Cuore tutto il mondo. Benché conservassero ancora le loro idee e le loro debolezze, la sua parola aveva determinato nell'anima loro un mutamento radicale che avrebbe portato il suo frutto, come lo porta un tralcio potato, al primo tepore della primavera. Non bastava, però, questo per portare il frutto che Egli voleva dal loro apostolato e dalla loro anima; essi dovevano rimanere in Lui e accoglierlo in loro, dovevano attingere la sua vita e cedere la propria, dovevano essere come tralci uniti alla vite feconda, poiché senza di Lui nulla di buono o di utile per la vita eterna potevano fare.
Evidentemente, Gesù parlava dell’unione eucaristica di Lui negli apostoli, e degli apostoli in Lui. Lo stesso paragone della vite e dei tralci vi aveva relazione, poiché Egli aveva loro dato, sotto le specie del vino, il suo medesimo Sangue, quasi vite divina che aveva donato il suo grappolo d’uva e il vino generoso che corrobora le forze. È impossibile portare un vero frutto di opere buone e di apostolato senza unirsi a Gesù Sacramentato e vivere di Lui e per Lui. È questo il grande segreto della santità personale e dell’evangelizzazione del mondo. Ma, per attingere la vita dall’Eucaristia, non basta semplicemente riceverla: occorre rimanere in Gesù, donandosi a Lui, e farlo rimanere nel proprio cuore, accogliendolo come Re dell’anima. Ora, non si può rimanere in Gesù senza donarsi né lo si può accogliere senza lasciargli la piena libertà di operare in noi, secondo i fini ineffabili del suo amore. Chi si comunica senza rinunciare a se stesso, ai suoi pensieri, alle sue idee, al mondo, allo spirito mondano e a tutto ciò che lo attrae alla terra rimane un tralcio sterile, è gettato via, inaridisce ed è buono solo per il fuoco eterno.
Per questo Gesù, dopo aver parlato dell’unione eucaristica con Lui, parla della necessità di custodire la sua parola: Se rimarrete in me e le mie parole rimarranno in voi, qualunque cosa vorrete, la domanderete e vi sarà concessa. Qualunque cosa vorrete, cioè qualunque frutto vorrete raccogliere dall’anima vostra, lo otterrete rimanendo in me nella Comunione eucaristica, e facendo rimanere in voi le mie parole, nell’unione ai miei pensieri e alla mia volontà. Questa duplice unione con Lui produce la vera ricchezza delle opere buone, rende l’anima vera sua discepola, e la rende glorificazione di Dio nella vita e nelle opere.

Anche in questo passo evangelico, Gesù non promette l’esaudimento di qualunque preghiera, ma l’esaudimento delle preghiere fatte per ottenere la santificazione dell’anima e il frutto dell’apostolato, per la gloria di Dio. Ci lamentiamo della nostra miseria e della nostra debolezza; eppure, se ci uniamo veramente a Gesù Sacramentato, rinnegando noi stessi, i nostri pensieri e la nostra volontà otterremo qualunque aiuto e potremo progredire nella via della santità e dell’apostolato, per la divina gloria, unica meta della nostra vita in terra.
Padre Dolindo Ruotolo