sabato 30 luglio 2016

NON PREOCCUPARSI DEI BENI TERRENI

Commento al Vangelo della XVIII Domenica TO 2016 C (Lc 12,13-21)
Don Dolindo Ruotolo

Non preoccuparsi dei beni terreni
Mentre Gesù parlava per gettare nei suoi discepoli e nella sua Chiesa le basi granitiche d’un forte carattere cristiano di fronte alle lotte e alle persecuzioni, un giovane dalla turba lo interruppe, pregandolo d’intervenire con la sua autorità presso un suo fratello, per la divisione dell’eredità. Per simili questioni di testamenti e di eredità spesso i rabbini erano chiamati come giudici, e quel giovane, appellandosi a Gesù, volle appellarsi al più autorevole dei maestri.
Il Redentore guardava in quel momento i secoli futuri, considerava il cammino della sua Chiesa nel mondo, e gettava le basi del carattere cristiano di fronte alla vita terrena; si direbbe che era tutto preso da questa grande idea, e per questo si rifiutò di giudicare, dicendo: O uomo, chi mi ha costituito giudice o arbitro tra voi?
Egli era Giudice di tutti, e poteva essere arbitro, ma, in quel momento, si occupava della sua grande missione di Redentore, pensava alla sua Chiesa e protestava che Egli non era venuto per trattare di misere questioni di avarizia o d’interesse e non era costituito capo dell’umanità per questo.
Evidentemente quel giovane contendeva col fratello non per una questione di giustizia, ma di avarizia e domandava l’intervento di Gesù non per farlo arbitro assoluto, ma per avere da Lui una sentenza favorevole alla propria avidità; ora, Gesù non era costituito giudice e arbitro per assecondare l’avarizia e l’ingiustizia. Egli, poi, guardò più lontano e, rispondendo a quel giovane, volle gettare un’altra base del carattere cristiano, dicendo a tutti: Guardatevi con grande cura da ogni avarizia, poiché la vita dell’uomo non sta nella sovrabbondanza dei beni che possiede.
I beni materiali non sono la vita dell’uomo né possono costituire la sua meta, tanto meno può costituirla l’avidità di questi beni; il concentrarsi in questa sola preoccupazione è causa della viltà del carattere, poiché l’uomo non ha il coraggio di affrontare il mondo e la tirannide quando vuol salvare i propri interessi temporali, il proprio posto, l’impiego e la situazione nel mondo.
Egli, allora, diventa servile, accondiscende alla prepotenza degli empi, dissimula la propria fede e i propri doveri, è praticamente apostata della verità e del bene. Il non riporre la fiducia nei beni terreni e il non preoccuparsene è essenziale al carattere cristiano, perché l’arma preferita dai tiranni è proprio quella di spogliare e di affamare; per questo Gesù provò con una parabola quanto fosse vano riporre la speranza in quei beni che si debbono lasciare e quanto fosse stolto compromettere la propria situazione eterna per quello che è fugace e non può conservarsi.
Se ciò che si può avere in terra durasse sempre, sarebbe meno stolto attaccarvisi; ma, sapendo che inesorabilmente passa, e che è per noi una posizione provvisoria, è vera stoltezza stabilirvi il cuore.

La parabola di Gesù
Ecco la parabola che disse Gesù, la quale può applicarsi a ciascuna creatura. Ad un uomo ricco fruttò molto la campagna. L’abbondanza del raccolto gli dava una sicurezza incrollabile per l’avvenire e pensò di tutelare quella ricchezza per renderla stabile. Decise, perciò, di demolire i vecchi depositi, angusti e ristretti, e di fabbricarne altri più grandi. Era questa la sua sicurezza, e si riprometteva già una vita ricca e abbondante per parecchi anni, quando la voce di Dio gli si fece sentire, e gli disse che in quella stessa notte sarebbe morto.
A che cosa, allora, poteva servirgli quello che aveva raccolto se doveva lasciarlo? E di chi sarebbe stato il frutto delle sue fatiche? Non avendo egli pensato ai beni dell’anima che cosa poteva portarsi nell’altra vita, innanzi a Dio?
Ogni uomo si preoccupa di procurarsi un benessere materiale, una casa elegante, delle entrate sicure, delle comodità signorili, e fa spesso immensi sacrifici per riuscirvi, anzi a volte compromette persino l’anima sua. Ma i beni materiali non allungano la vita e tanto meno la rendono eterna; passano gli anni, i mesi, i giorni, e tutto deve lasciarsi. È un pensiero terribile che dovrebbe renderci sapienti.
Ci sono quelli che accumulano denaro, case, oggetti di arte, gioielli, monete d’oro, libri rari, e si attaccano a queste cose; ma a che servono? Dopo la morte vengono dilapidate dagli altri, e non danno altra eredità che una tomba! Chi si attacca a queste cose si preoccupa solo di conservarle, non ha il cuore libero in Dio, non ha un carattere capace di resistere al male e, posto nell’occasione, cade nell’abisso del peccato o dell’apostasia. A volte si teme più la privazione dei beni materiali che la morte stessa e, di fronte al pericolo di perdere la propria posizione, si rimane titubanti e si ricorre a tutti i sotterfugi dell’opportunismo.
È questa la vera causa dell’acquiescenza dei buoni alle prepotenze dei tiranni, ed è la causa per la quale questi finiscono per prendere il sopravvento. Si giunge ad ogni viltà e si accettano le più empie sopraffazioni, perché si teme per il posto, per la scuola, per l’avvenire materiale dei figli e si soggiace alle più turpi ed esiziali leggi anticristiane. Eppure basterebbe confidare in Dio e affrontare con intransigenza assoluta l’empietà, per costringerla alla resa.

Tutto è precario nella vita, fuorché la fiducia in Dio
Gesù Cristo, con parole tenerissime e paragoni mirabili esorta i suoi discepoli e i cristiani di tutti i tempi ad una fiducia così piena e illimitata in Dio da rendere il proprio carattere forte e incrollabile in qualunque prova: La vita vale più del cibo, e il corpo più del vestito; ora, Dio che ha dato la vita e che ha dato il corpo, non darà il cibo e il vestito a quelli che confidano in lui? Egli mostra la sua provvidenza persino negli animali e li provvede di cibo, benché essi non seminino, non mietano e non abbiano né dispense né granai. È un argomento perentorio sulla provvidenza di Dio, poiché è certo che nessun animale manca del suo cibo, pur non avendo speciali attitudini per accumularne riserve; esso va, lo cerca, e Dio glielo fa trovare; se si riscontra qualche eccezione a questa regola è proprio fra gli animali che convivono con gli uomini, e che dovrebbero essere più certi del loro sostentamento.
Per questo Gesù cita il paragone del corvo che vive liberamente nei campi. La sicurezza della provvidenza non viene dall’uomo ma da Dio, ed è proporzionata alla fiducia che si ha in Lui, non all’entità degli stipendi o delle entrate.
In questo il Signore ci vuole interamente abbandonati a Lui e mostra con i fatti come falliscono tutte le nostre iniziative per assicurarci una posizione materiale nel mondo. La nostra vera assicurazione sta in Dio, perché da Lui dipende la nostra vita.
Nessuno può accrescere la propria statura a furia di pensarci, se mai potrebbe diminuirla, consumandosi la salute nella preoccupazione. Ora se non si può fare quello che è meno, come si può pretendere di fare il più, provvedendo alla posizione stabile della vita? Quale posizione, poi, può essere mai stabile?
Se hai un posto, puoi perderlo o puoi ammalarti; se hai dei campi, possono isterilirsi; se delle case, possono crollare o essere oberate di tasse; se dei titoli di rendita, possono essere svalutati; se una persona cara che ti provvede, può venirti meno.
Tutto è precario fuorché la fiducia in Dio, il seguire la sua volontà, il servirlo e attendersi dalla sua bontà il sostentamento e il necessario alla vita.
Ecco i gigli del campo: non lavorano e non filano, eppure sono vestiti da Dio come neppure Salomone fu vestito nella sua magnificenza; ora, se Dio ha cura delle piante non l’avrà dell’uomo che lo serve e confida in Lui? Perché tormentarsi lo spirito nelle cose materiali, come fanno quelli che non credono in Dio? Pensare al proprio sostentamento sotto lo sguardo di Dio non è un male, ma tormentarsi lo spirito o, peggio, andare contro la divina volontà, presumendo di pensare meglio al proprio sostentamento e al proprio avvenire non è una vera pazzia?
Gesù, anzi, va oltre e insegna non solo a non tormentarsi lo spirito per accumulare o per procurarsi una posizione, ma ad allargarlo nella carità e nella generosità fatta per puro amore di Dio, e a cercare i beni eterni, per essere certi di avere anche quelli temporali. È una sublime legge della vita, questa, che rende l’anima veramente superiore a tutte le cose terrene, ed eroica nel conservare quei beni e quei tesori eterni che non periscono mai. Pensare che Dio si è compiaciuto di darci il regno, cioè costituirci come padroni nel mondo, confidando in Lui, e pensare che ci ha dato il regno, orientandoci alla vita eterna, è tale libertà e sicurezza di spirito da renderci dominatori del mondo, trionfatori della vita, e strumenti della divina provvidenza per gli altri.
Essere distaccati da tutto, vivere sempre provvisoriamente sulla terra, aspettare tutto da Dio e lavorare non tanto per guadagnare, quanto per compiere la sua volontà nella missione che ci dà: ecco il mirabile segreto di una superiorità placida di carattere e di una pace profonda che nessuno può turbare e nessuno può sopraffare.
Com’è commovente pensare: Dio si prende particolare cura di me, fino al capello del mio capo! Veder cadere un capello e pensare: Non è caduto senza la divina volontà ci fa sentire in pieno nelle braccia della divina provvidenza, e non ci fa apparire la vita come una confusione di eventi casuali o capricciosi.

Vivere non solo abbandonati alla divina provvidenza, ma esserne strumenti con la generosità, l’elemosina, il soccorso dato agli altri, guardando ai beni eterni che nessuno può sottrarci significa porre il proprio cuore nei cieli, cercarvi un eterno tesoro, e curare poco le violenze o le sopraffazioni degli uomini.
Padre Dolindo Ruotolo 

sabato 23 luglio 2016

La preghiera insegnataci da Gesù Cristo

Commento al Vangelo della XVII Domenica TO 2016 C (Lc 11,1-13)

La preghiera insegnataci da Gesù Cristo
Gesù Cristo, com’era solito, si era appartato in un luogo solitario per pregare, ed uno dei suoi discepoli, notando la grandiosa elevazione del suo spirito e l’illuminazione amorosa di tutta la sua persona, fu preso da un grande desiderio di pregare come Lui e gli disse: Insegnaci a pregare come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli. È chiaro, da questa domanda e da luoghi paralleli, che gli apostoli riconoscevano di non saper pregare e avevano un desiderio tanto più intenso di farlo, quanto più affascinante era il loro Maestro nell’orazione.
Allora Egli rifulgeva d’amore e di maestà e conquideva, suscitando desideri di unione con Dio; la trasfigurazione del Tabor in fondo, fu una delle manifestazioni più belle della sua preghiera e ci dà un’idea della grandiosa maestà che Egli aveva quando si rivolgeva al Padre.
Egli, infatti, non era figlio di adozione ma consustanziale al Padre; non lo pregava perché avesse bisogno di domandare, ma per lodarlo, benedirlo e amarlo in nostra vece, e mettere così per noi quella base di meriti che mancavano alla nostra preghiera.
Domandava per noi, amando, in una perfettissima unione col Padre, ammirando e adorando i suoi disegni nella stessa luce dell’infinita sua sapienza e rifulgeva di singolare e arcana bellezza che affascinava e conquideva.
Come uomo e Mediatore degli uomini Egli supplicava il Padre per le nostre necessità e aveva sul volto tutto il fulgore della carità; come Figlio di Dio, Egli lodava, benediceva e amava il Padre, e splendeva dell’eterna Luce. Aveva la maestà di Dio e la tenerezza della più soave dolcezza: immobile, con lo sguardo al cielo e le braccia aperte in un’espansione d’amore, aveva il sorriso della più profonda intimità con Dio, e nello stesso tempo lo sfiorava l’angustia delle nostre necessità; tutto questo costituiva uno spettacolo ineffabile per gli apostoli, benché essi non giungessero ancora ad apprezzarne il valore.
È evidente che Gesù Cristo, assentendo alla supplica rivoltagli dal discepolo in nome di tutti, offrì una formula di preghiera che era l’eco della sua medesima orazione. San Luca non la riporta alla lettera e tralascia qualcuna delle domande, abbreviandola, forse perché conosciutissima e di uso comune, ma nella medesima formula più sintetica che ce ne dà c’è la sostanza di quella preghiera, e nella sintesi stessa il Signore vuole ammonirci che non ha voluto darci strettamente una formula esclusiva di preghiera, ma ha voluto tracciarci le linee direttive di tutte le nostre preghiere. Il Pater noster se può dirsi così –, è come bussola che orienta nella giusta direzione le nostre preghiere, e per questo la Chiesa ce lo fa recitare sempre al principio e al termine di tutte le ore canoniche, quasi per determinare innanzi a Dio il preciso significato e l’intenzione di tutte le sue petizioni.

Il Padre Nostro

Padre, ecco il modo come l’anima deve orientarsi a Dio. Non deve considerarlo col terrore superstizioso che avevano i pagani della divinità, espresso a volte dalle stesse forme dei loro idoli né col timore servile dell’ebraismo di allora che aveva deviato dallo spirito dei patriarchi; doveva riguardarlo come Padre, quindi come Creatore di tutto e come proprio Creatore, provvido e amorosissimo.
Il padre naturale dà la vita al figlio, amando, e la conserva amando, quando non è ridotto allo stato brutale dal vizio.
Dio dà la vita attraverso un atto della sua volontà infinita che è Amore; e la conserva con la provvidenza che è amore; l’anima, dunque, prega, confessando la realtà di Dio, il suo Amore e la sua provvidenza, e confessandola in un atto di viva fede. Se non c’è questa fede che ci fa parlare a Dio come all’Essere infinitamente esistente, sapiente ed amante, se non si ha con Lui l’intimità filiale che viene dalla fede veramente e praticamente sentita e convinta, la preghiera non supera la nostra povera atmosfera e diventa più uno sfogo della propria impotenza che una fiduciosa domanda fatta a Dio.
La vacuità di tante preghiere che facciamo sta proprio nella mancanza della fede vera in Dio. Molti, moltissimi, pregando hanno ancora lo spirito idolatrico; credono e non credono a Dio, lo ammettono e non lo ammettono, esitano nel loro cuore e, inconsciamente, vorrebbero metterlo alla prova, come può mettersi alla prova l’efficacia di una medicina.
Padre, sia santificato il tuo nome. Ecco una seconda direttiva assolutamente necessaria alla nostra preghiera: considerare tutto alla luce della gloria di Dio e volere tutto secondo i fini della sua volontà. A volte noi giungiamo alla stoltezza somma di voler imporre le nostre vedute e i nostri interessi umani al Signore, e rimaniamo, quindi, inetti e impotenti, nell’ambito delle nostre povere forze. Quando l’anima crede veramente e apprezza Dio per quello che è, domanda in piena sottomissione alle esigenze della gloria di Lui che è diffusione di misericordia e di bene anche per noi.
Come potrebbe aversi il calore del sole sottraendosi ai suoi raggi, e pretendendo di ridurli nell’ambito della propria meschinità? Il trionfo della luce del sole, e quindi la rimozione degli ostacoli che ne impediscono la diffusione, è anche il conseguimento pieno del nostro desiderio di calore vivificante.
Nell’orazione bisogna, dunque, dare a Dio il posto che gli spetta, e desiderare la vita a ciò che è necessario alla vita, unicamente per la sua gloria e per il trionfo del suo amore in noi, nella pienezza del suo regno: Venga il tuo regno.
Se si pondera veramente la meschinità delle nostre aspirazioni nella preghiera, volta tutta al compimento del nostro egoismo, e se si pensa che la massa del popolo ignora quasi completamente che cosa significhi amare Dio e desiderarne la gloria, non suscita più meraviglia che tante preghiere rimangano nella nostra povera cerchia, e sono inesaudite.
Nel tracciarci la direttiva delle nostre preghiere, Gesù Cristo distingue nettamente le esigenze della vita dell’anima da quelle della vita del corpo nella nostra condizione naturale. Per questo il Pater noster ha due parti determinate; alla vita dell’anima è necessaria l’intimità filiale con Dio, per la grazia che la rende sua figlia: Padre. In questa semplice parola c’è la sintesi stupenda delle elevazioni dell’anima negli splendori della grazia che la restaura, la santifica e la eleva. L’intimità con Dio è amore nelle sue molteplici gradazioni e sfumature e questo amore si sintetizza tutto nel desiderio di glorificare Dio e di farlo regnare nella propria vita e in quella di tutti.
Noi, quindi, domandiamo a Dio lo stato di grazia, l’amore verso di Lui, lo zelo per la sua gloria, la santificazione delle anime e il suo regno in tutte nel dominio soavissimo dell’amore. Tutte le grandi manifestazioni della vita della santità e della vita della Chiesa stanno in queste brevi e mirabili parole.
Per la vita del corpo, ordinata a quella dello spirito, noi abbiamo bisogno dell’alimento e di tutto quello che serve all’ordine e alla missione temporale della medesima vita: Dacci oggi il nostro pane quotidiano; abbiamo bisogno della pace, bene assolutamente imprescindibile da una vita che non sia concepita, come si fa oggi, quale esasperante tramestio di prepotenze e di oppressioni.
Ora la pace non è fuori dell’anima, e tanto meno può considerarsi come l’oppressione del più forte sul più debole; essa è tranquillità dell’ordine, e questa tranquillità viene dall’armonia della coscienza e da quella della carità: Rimetti a noi i nostri peccati, come noi li rimettiamo ad ogni nostro debitore. Siamo tutti miserabili, e nessuno può presumere di essere dappiù di un altro; ci confessiamo peccatori per avere il perdono e promettiamo perdono a quelli che ci fanno del torto. Così viene stroncato nella radice quello che disturba la pace.
Grazia di Dio in noi e carità verso il prossimo sono due beni spirituali dai quali dipende la tranquilla prosperità temporale della vita; i peccatori non hanno mai bene; anche quando satana si sforza di farli apparire prosperati, e dove manca la generosa carità, manca la benedizione di Dio. Satana sfrutta la posizione di alcuni – molto pochi in realtà rispetto alle masse –, che, non essendo più capaci di beni eterni, raccolgono come tenue premio di qualche opera buona, i miseri beni temporali; egli li presenta come esseri felici nel male, ma è una menzogna anche in questi la pace, perché sono infelicissimi nel loro cuore ed è una menzogna maggiore il far credere o il supporre che il peccato porti la prosperità.
No, la massa dei peccatori sta in mille tribolazioni, e la massa dei prepotenti è infelicissima, perché è stretta dai rimorsi e dalle angustie interiori che tolgono loro la pace. Che cosa sono i beni temporali senza la pace? E come si può avere pace senza il perdono di Dio e senza la grazia? Come poi si può avere la grazia e il perdono senza darlo a chi ci è debitore?
Quando la nostra preghiera per i beni temporali non sta su queste direttive precise è una preghiera vana; quando cioè non si domanda ciò che serve alla vita, e non più, e non lo si domanda nell’armonia della grazia e della carità, la preghiera diventa vana, e a volte può farci credere, per illusione diabolica che produca anche l’effetto contrario. Quanti hanno l’anima piena di avidità, di odio, d’invidia e di peccati di ogni genere e domandano a Dio non ciò che serve al corpo per la vita dello spirito, ma ciò che serve al corpo per la vita materiale, e si lamentano, poi, di non essere esauditi!
Quanti hanno peccati impuri che disordinano la vita, anche occultamente e senza che nessuno lo sappia, e si lamentano della miseria corporale che ne è immediata conseguenza! Quanti sono spietati nel giudicare e più spietati nell’inveire contro il prossimo, e pretendono da questa bolgia far risuonare la loro preghiera nei cieli, dove tutto è armonia soavissima di carità!
La vita è una prova di pochi anni, nei quali dobbiamo meritarci, per la grazia di Dio, il premio eterno. Questa prova ci viene dalla condizione stessa nella quale viviamo e può venirci anche dalle insidie e dagli assalti di satana. C’è, dunque, un terzo elemento della nostra vita terrena: la difesa nei pericoli. Senza la difesa provvida che può venirci solo da Dio la vita dell’anima è travolta dalla colpa e la vita del corpo dalle sventure. Perciò Gesù Cristo ci fa domandare a Dio: Non ci indurre in tentazione, cioè non permettere che ci vinca la tentazione e, nel provarci, Tu donaci la forza di esserti fedeli, riducendo le prove a causa della nostra fragilità.

Condizioni per essere esauditi: perseveranza nel pregare e pieno abbandono alla bontà di Dio
Gesù Cristo, a complemento della sua istruzione sulla preghiera, espresse in una parabola e in una analogia la necessità di perseverarvi e di abbandonarsi alla divina bontà. La parabola ha un significato profondissimo, pur sembrando, a primo aspetto che non possa applicarsi completamente alla relazione dell’anima con Dio: un uomo riceve a mezzanotte la visita di un amico che, viaggiando, gli domanda ospitalità.
Gli Ebrei, quando era il tempo dei grandi calori, viaggiavano di notte, e quindi non c’è da meravigliarsi che questo pellegrino abbia domandato ospitalità a mezzanotte. Siccome in Palestina non si era soliti avere provviste di pane, cocendosene ogni giorno quel tanto che bastava, l’amico del viaggiatore se ne trovava sprovvisto e, per non mancare ai doveri di ospitalità, andò a domandarne in prestito ad un suo conoscente, e bussò alla sua porta. Ma l’altro gli rispose che era già a letto con i suoi figli, non voleva essere molestato, e non poteva alzarsi per non svegliarli dal sonno. L’amico non si perse di coraggio a quella repulsa, ma continuò a picchiare con tanta insistenza che l’altro, non tanto per amicizia quanto per toglierselo davanti, scese dal letto e gli diede i tre pani che domandava.
Gesù Cristo soggiunse, subito dopo aver raccontato la parabola: Ed io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto, poiché chi chiede riceve, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Dunque quella parabola aveva questo senso principale: Insistere per ottenere, insistere con la fede di ottenere, insistere perché Dio vuole da noi questa insistenza per esaudirci.
L’argomento generale di Gesù è dal meno al più: se l’amico che non voleva essere molestato e che non aveva la volontà di dare, finisce per assentire, se non all’amici-zia, almeno all’insistenza, quanto più Dio che vuol essere pregato e si diletta delle nostre insistenze filiali, ascolta ed esaudisce le nostre preghiere perseveranti.
Dio non si annoia delle nostre suppliche, non può annoiarsi, ma per esaudirci vuol essere pregato con l’insistenza che si avrebbe fino ad annoiare un altro.
Il Signore lo vuole per nostro bene, perché solo l’insistente preghiera ci addestra a parlargli filialmente e ci mette in comunicazione con Lui.
Se fossimo ascoltati alla prima domanda, le nostre preghiere sarebbero insignificanti.

Siamo come i motori che non si mettono in marcia se non vengono riscaldati dal medesimo movimento e abbiamo bisogno d’insistere nel domandare, per infiammarci il cuore e abituarlo a quello slancio d’amore che ci rende capaci di essere esauditi. Nella sua divina delicatezza, il Signore non vuole darci ciò che domandiamo per elemosina, ma richiede che la nostra insistenza sia come il contributo alla grazia che dobbiamo ricevere. Noi chiediamo alla sua potenza, cerchiamo alla sua sapienza e bussiamo al suo amore. Chiedendo insistentemente, la sua potenza sostiene la nostra debolezza; cercando, la sua sapienza guida le nostre forze; bussando il suo amore ci apre le porte della misericordia e supplisce quelle che le nostre colpe demoliscono.
Don Dolindo Ruotolo

sabato 16 luglio 2016

Marta e Maria

Commento al Vangelo della XVI Domenica TO 2016 C (Lc 10,38-42)
Santa Marcellina


Marta e Maria
Mentre Gesù andava verso Gerusalemme, sostò in un villaggio chiamato Betania, e si trattenne in casa di una famiglia a Lui devota, la famiglia di Lazzaro. Questi aveva due sorelle: Marta, forse la maggiore che si occupava principalmente delle faccende di casa, e Maria che comunemente s’identifica con la Maddalena, convertita già da Gesù. Marta, volendo fare gli onori di casa a Gesù, era tutta in faccende per preparare il desinare e, vedendo che la sorella stava ai piedi di Gesù, estasiata nell’ascoltarlo, ne fu contrariata e se ne lamentò col Signore.
Le sembrò un egoismo quello di Maria e anche un’oziosità, quando c’erano tante cose da fare. In quel momento, per lei le cose spirituali non avevano alcun valore. Ma Gesù dolcemente la rimproverò, dicendole: Marta, Marta, tu ti affanni e ti turbi per molte cose. Eppure una sola cosa è necessaria. Maria ha eletto la parte migliore che non le sarà tolta.
In queste parole, in apparenza così semplici, c’è tutta la valutazione della vita umana sulla terra, e un ammonimento agli uomini per il vano affannarsi intorno a ciò che passa. Quelle parole: Porro unum est necessarium, dovrebbero esserci scolpite nel cuore e diventare la regola delle nostre attività. I mondani, infatti, vivendo per questa terra soltanto, senza pensiero della vita eterna, credono non solo della massima importanza badare alle cose temporali, ma addirittura ozioso e vano occuparsi delle cose spirituali. Anche quelli che credono di avere una certa stima delle cose spirituali tengono in gran conto la vita attiva, e l’occuparsi soprattutto di soccorrere gl’infelici temporalmente, stimando inutile e vana la vita di preghiera e di contemplazione.
Eppure è perfettamente l’opposto.
La vita naturale e ciò che ad essa si riferisce è solo un mezzo per quella spirituale, e la vita spiritualmente attiva è un frutto di quella contemplativa ed interiore; è stoltezza dimenticare l’anima e badare solo al corpo, ed è ugualmente sciocco darsi alle opere esterne di bene senza alimentarle con la vita interiore e con la preghiera.
Se si pensa che tutto passa nella vita, chi può pensare o supporre che possa avere importanza ciò che finisce e possa valere nulla ciò che dura eternamente? Si può dire che tutto lo sconcerto della vita nostra è fondato proprio sulla poca o nessuna valutazione dei beni eterni e di ciò che ad essi ci conduce. La preghiera, la Messa, i Sacramenti, la Parola di Dio sono sempre l’ultima cosa per moltissimi uomini.
Per i genitori, per esempio, la scuola ha un’importanza capitale per i figli, dovendoli avviare verso una qualunque professione, ma tante volte per essi non ha alcun peso la vita spirituale che deve avviarli alla vita eterna.
Se una figlia deve sposarsi, tutto è poco: dote, corredo, spese di lusso, ma se deve farsi monaca tutto è esagerato. Non importa nulla che la figlia, sposandosi, se ne vada lontano; anzi si giudicano poco meno che isteriche le sue lacrime nel distacco; ma se, dandosi a Dio, deve per poco allontanarsi, quel dolore appare insopportabile e si cercano tutti i mezzi per impedirlo.
Se un figlio deve affrontare i pericoli più gravi per una professione, non fa niente, ma se deve fare una piccola rinuncia per farsi sacerdote, sembra una pazzia.
È una pena grande constatare questa incoscienza per ciò che è eterno, quasi che fossimo solo per questa vita e per questa terra. Gridiamolo al mondo che vorrebbe allettarci con le sue fantasmagorie: Porro unum, solo una cosa è necessaria; quello che è temporale ci viene tolto e quello che è eterno non ci viene mai sottratto. Chi si dà a Dio sceglie la parte migliore anche in riguardo alla vita presente, e questa non offre mai disinganni, ma è ricca di pace e di soddisfazioni incomparabili.

I valori veri della vita

Si potrebbe obiettare: con questo criterio e con questa valutazione, finirebbe tutta la vita presente, e la civiltà con le sue opere non avrebbe ragion d’essere. Rispondiamo, ritorcendo l’argomento che col criterio del mondo praticamente finisce ogni vita spirituale, ciò che è accidentale, diventa sostanziale e la famosissima civiltà sbocca inesorabilmente nelle barbarie. Se non ci fosse tutta, diciamo tutta, la storia umana a dimostrarlo, e se ci fosse in questo una sola eccezione, diciamo una sola, si potrebbe anche tollerare l’illusione della civiltà senza spiritualità; ma, dolorosamente, si sa dove sono andati a finire e dove finiscono i grandi imperi. È conosciuta la barbarie spaventosa degli Egiziani, degli Assiri, dei Babilonesi, dei Romani, ed è contemporanea quella degli imperi moderni.
Chi dissente da questo, nega l’evidenza, o crede civiltà l’assassinio, la sopraffazione, la corruzione dei costumi, il furto legalizzato, l’aborto, il divorzio, il meretricio, l’infanticidio, ecc.
Come la corruzione dell’organismo si manifesta nei gonfiori, nelle posteme, nei tumori e, nella migliore ipotesi, nell’obesità, così la corruzione delle nazioni si manifesta nell’imperialismo che culmina nella morte.
Oggi si gloriano dovunque dell’imperialismo ognuno per conto proprio, e non si pensa che questa elefantiasi dell’orgoglio è un prodromo della morte delle nazioni.
Porro unum, una sola cosa è necessaria: vivere onestamente, cristianamente, santamente.
Che ci sia o non ci sia il monumento grandioso è perfettamente accidentale; tanti paesi non li hanno e vivono meglio.
Che ci siano o non ci siano letterati eminenti, è completamente accessorio, poiché garantiamo che, anche senza i poeti o i romanzieri, il mondo va per la sua via.
Che in una città si possano sciorinare con più libertà i panni al sole e in un’altra no è più o meno accidentale all’ordine civico, ma è assurdo che non si possano spandere i panni e si possano mostrare spettacoli di degradazione morale che si tolga la spazzatura e si lasci il marciume impuro nelle vetrine che s’impedisca ad un’innocente capra di camminare per la strada supercivile, e vi si lasci camminare liberamente la donna corrotta e corruttrice.

Non diciamo di ritornare a forme primitive di vita – il che peraltro sotto molti aspetti sarebbe anche desiderabile –, ma diciamo di ricordare che porro unum est necessarium, e che cercare le alte mete dello spirito è il sommo della vera civiltà, e la civiltà è vero progresso solo quando favorisce e aiuta l’indipendenza dello spirito dalla materia.

Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo

sabato 9 luglio 2016

amare dio e il prossimo

Commento al Vangelo della XV Domenica TO 2016 C (Lc 10,25-37)

Amare Dio e il prossimo
Un dottore della Legge che seguiva Gesù per scrutarlo, e forse per vigilarlo, ascoltando le sue allusioni al compimento della speranza dei re e dei profeti e alla beatitudine di quelli che vi prendevano parte, volle metterlo alla prova, cioè con una domanda schiettamente spirituale. Egli volle vedere quali nuove teorie avesse insegnato in contrasto con le antiche. Il momento psicologico, diciamo così, del dottore fu questo: Gesù parlava del compimento del regno messianico, ma non diceva esplicitamente in quel momento che il Messia era Lui; il dottore volle scrutare quale fosse il suo preciso pensiero e domandò che cosa dovesse fare per possedere la vita eterna, per dissimulare la sua intenzione di scrutarlo e per vedere, dopo questa prima domanda, quale nuova concezione Egli avesse del regno trionfante d’Israele e in qual modo se ne dichiarasse propagatore.
Il dottore domandò: Maestro che devo fare per possedere la vita eterna? Si aspettava da Gesù una nuova esposizione di vie peregrine di salvezza e si aspettava che gli dicesse: «Devi credere in me, devi seguirmi, devi servirmi». Le parole di Gesù – ripetiamolo per maggior chiarezza –, che alludevano a nuove rivelazioni fatte ai piccoli, alla conoscenza del Padre per il Figlio e del Figlio per il Padre e alla beatitudine di chi assisteva al compimento delle antiche promesse, figure e profezie, gli erano sembrate estremamente presuntuose, e sperò, con questa domanda sulla vita eterna, di metterlo alla prova, cioè alle strette, fargli confessare il suo pensiero, e poi costringerlo a riconoscerne la falsità, secondo lui.
Gesù, però, non era venuto per distruggere la Legge ma per compierla e, invece di annunciare cose nuove, domandò Egli stesso al dottore che cosa stesse scritto nella Legge, rimandandolo così, per la risposta, a quello che Dio aveva già detto, e soggiunse: Come vi leggi tu? Che cosa cioè vi sta scritto su questa questione fondamentale, e come intendi ed interpreti la Parola di Dio? Il dottore rispose, citando quel precetto della Legge che gli Ebrei solevano recitare mattina e sera e che conoscevano benissimo: Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore con tutta la tua anima, con tutte le tue forze, e con tutta la tua mente e il tuo prossimo come te stesso (Lv 19,18). Gesù gli soggiunse: Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai.

La parabola del Samaritano
Il dottore si sentì umiliato d’avergli domandato una cosa di così facile soluzione e se ne sentì umiliato soprattutto innanzi al popolo che in quel momento avrebbe potuto tacciarlo d’ignoranza; perciò volle giustificare la sua domanda, dando ad intendere che aveva fatto quell’inter-rogazione per sapere chi era il suo prossimo, cioè verso chi avrebbe dovuto esercitare la carità. È evidente dal contesto che egli, rimasto confuso nel dover rispondere una cosa elementare, cambiò discorso con una nuova domanda che, in realtà, non aveva inteso fare nella sua prima interrogazione.
Gesù Cristo gli rispose con una parabola che probabilmente era un fatto realmente avvenuto in quei giorni: un uomo israelita, recandosi da Gerusalemme a Gerico, s’imbatté nei ladri. La strada che doveva fare era di circa 28 chilometri, e attraversava un deserto che anche oggi è infestato dai ladri; quindi non fu un caso straordinario per lui quella triste avventura. I ladri non solo lo spogliarono di tutto, ma lo percossero e lo ferirono, lasciandolo mezzo morto per terra.
Un sacerdote che veniva anch’egli da Gerusalemme dopo aver prestato servizio al tempio, vide quell’infelice così malconcio, e passò oltre, senza averne pietà. Non volle assumersi una responsabilità né prendersi fastidi per uno a lui sconosciuto, dimenticando che, come ministro di Dio, avrebbe dovuto usargli carità. Lo stesso fece anche un levita: si fermò un po’ per curiosità, forse poté avere anche qualche parola di commiserazione, ma poi andò oltre.
Passò, poi, un Samaritano che viaggiava dice il Testo –; quindi può supporsi che andava per affari e, ciononostante, sostò vicino al ferito, ne fasciò le piaghe, versandogli sopra, per lenirne il bruciore, vino ed olio, come solevano fare gli antichi; lo adagiò sul suo giumento e lo condusse all’albergo pubblico che doveva trovarsi ai confini di Gerico per comodo dei pellegrini.
In quel ricovero stette anch’egli durante la notte e prese personalmente cura del ferito; poi, dovendo partire il giorno seguente, lo lasciò affidato alle cure dell’oste, pagandogli due denari, e promettendogli di dargli, al ritorno, tutto quello che avrebbe potuto spendere in più. Gesù soggiunse, rivolto al dottore della Legge: Chi di questi tre ti sembra essere stato prossimo per colui che s’imbatté nei ladroni? E quegli rispose: Colui che gli usò misericordia. Replicò Gesù: Va’ e fa’ anche tu lo stesso.
Il Redentore volle dare una lezione delicata al dottore della legge.
I Samaritani erano odiati dagli Ebrei, e li ripagavano di pari avversione; eppure un Samaritano curò un ebreo; avrebbe fatto lo stesso un ebreo per un Samaritano?
Certamente no, perché né un sacerdote né un levita sentirono pietà di un loro connazionale, pur avendo cura delle anime per il loro sacro ministero.
È prossimo dunque a chi soffre chi gli usa pietà e lo aiuta, ed è, di conseguenza, prossimo a chi sta bene qualunque uomo che soffra, senza distinzione di nazionalità, di razze o di religione. Il dolore stabilisce una santa fratellanza tra gli uomini: quella della scambievole carità, e poiché il dolore regna sovrano nell’esilio, è necessario abbattere le barriere delle divisioni sociali e darci tutti l’abbraccio della carità che è il più saldo legame di pace tra le nazioni.
Noi viviamo in tempi ipocriti e crudeli, nei quali si abbonda di parole, di assistenza sociale e di iniziative per praticarla, ma si manca di carità perché l’assistenza diventa burocrazia, e si limita a pochi privilegiati dagli intrighi e dalle influenze, lasciando nello squallore quelli che veramente soffrono, e disprezzando quelli che si considerano estranei.
L’assistenza praticamente è una burla, sia pure involontaria, perché manca della base vera della carità, ispirata dall’amore di Dio. Se non si ama il Signore, non si fa la carità per Lui e sotto l’impulso della sua grazia; non si vede la ragione per la quale si deve beneficare il prossimo, perché, non guardandolo in Dio, il prossimo, in realtà, ci è estraneo, e può esserci anche avversario.
Oh, se il mondo, invece di perdere tempo in vane iniziative naturali per diminuire i dolori umani, amasse Dio e facesse venire dall’alto la vivificante rugiada della carità! Oh, se gli uomini si persuadessero che ogni iniziativa ispirata a vedute di civiltà e non a Dio è inesorabilmente destinata ad essere divorata dalla frode e dall’egoismo!
Le opere di assistenza si moltiplicano a basi fiscali e non a base di amorosa carità, e praticamente danno un frutto estremamente meschino, e a volte anche opposto alle loro finalità, perché divorate dai succhioni e dai malversatori.
La terra ha il sole come luce dei suoi giorni, e la luna come splendore delle sue notti; la nostra vita ha come sole l’amore a Dio, e come luna nella notte delle sventure l’amore al prossimo, riflesso dell’amore a Dio. Non si può concepire una vita diversa né si può pretendere che la pace e il benessere spirituale, corporale ed eterno possa venire da altre fonti. Non c’è alcun surrogato dell’amore di Dio, e dov’esso manca c’è la desolazione e la notte di una morte perenne.
L’umanità e le nazioni hanno fatto mille esperimenti più o meno cervellotici per raggiungere un grado soddisfacente di benessere nella vita, ma non hanno fatto ancora il pieno esperimento di convertirsi veramente a Dio, amandolo con tutto il cuore e glorificandolo con tutte le attività della propria vita.
Sorga, o Signore, sulla nostra valle desolata questo sole fulgente, si accenda nei cuori un amore vero e profondo a te, e fiorirà tra gli uomini la carità e la pace, il benessere temporale ed eterno.
Devi venire Tu, o Gesù a sanarci, e Tu non puoi venire se l’amor nostro non ti chiama.
Tu sei il pietoso Samaritano che sei venuto a sanarci, redimendoci, e ci hai condotti nella tua Chiesa per farci trovare la salvezza, e Tu puoi oggi venire sul nostro cammino, risanare le nostre piaghe e ridonarci la vita nella tua Chiesa.

Tu hai pagato una volta il prezzo del nostro riscatto, e Tu ce lo applichi continuamente per sottrarci alle ferite della nostra corrotta natura, Tu, dunque, puoi ancora salvarci, solo che noi ti amiamo veramente e ti attestiamo l’amore con una vita santa, perfettamente cristiana e pienamente conforme alle disposizioni della tua adorabile volontà. 
servo di Dio Don Dolindo Ruotolo