sabato 30 aprile 2016

Se uno mi ama osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e verremo a lui e faremo dimora presso di lui.

Commento al Vangelo: VI Domenica di Pasqua C 2016 (Gv 14,23-29)

Sugli errori circa la salvezza e lasantificazione
        Gli apostoli credevano che Gesù dovesse invece manifestarsi gloriosamente e politicamente al mondo, in un’affermazione di dominio temporale, ed erano certi che tutta l’opposizione che gli faceva il sinedrio si sarebbe conclusa in uno smacco vergognoso. Orasentendo parlare di una sua manifestazione all’anima, nel misterioso silenzio dell’amore, se ne stupirono, e perciò Giuda, chiamato Taddeo o Sebbeo, gli domandò a nome di tutti: Signore, come avviene che manifesterai te stesso a noi e non al mondo? Questo apostolo capì che Gesù parlava di una manifestazione interiore alle anime e, non supponendo che potesse parlare di altri fuori che loro, chiese che cosa fosse avvenuto di nuovo per cui Egli riduceva il suo trionfo ad una semplice illuminazione fatta nell’intimità del loro piccolo gruppo.
        Per questo Gesù ritornò sul grande concetto di un trionfo interiore di Dio nelle anime, e soggiunse: Se uno mi ama osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e verremo a lui e faremo dimora presso di lui. Ecco, in sintesi luminosa, l’essenza del trionfo di Dio: abitare da Re trionfante, con la magnificenza della sua gloria, Uno e Trino, nell’anima che, amandolo, compie la sua volontà e gli si dona.
        Dicendo questo, Gesù guardò quegli eretici illusi che avrebbero preteso stabilire con Lui e con Dio un’intimità di grazia senza compiere il bene, e che avrebbero preteso glorificarlo con una sterile fede e con una tracotante fiducia; perciò, per eliminare ogni equivoco, soggiunse: Chi non mi ama così, non osserva la mia parola, e quindi chi non osserva la mia parola non mi ama; ora laparola mia che v’impone di amare osservando i miei comandamenti,non è mia, ma del Padre che mi ha mandato; non è un modo di vedere qualunque o un’opinione cioè, ma risponde al medesimo disegno di Dio nella salvezza delle anime; è un comando di Dio, una Legge che non può né avere eccezione né essere deformata da pensiero umano.
        Rispondendo all’apostolo Giuda Taddeo, Gesù proclamò un grande principio che da solo basta a dissipare le oscure nebbie degli errori protestanti sulla salvezza e sulla santificazione, e da solo c’impegna ad essere veramente anime amanti di Dio.
        Il trionfo di Dio in noi non consiste in uno sterile trionfo di misericordia che ci trascina, inerti e lerci come siamo, nel suo regno; ma è un trionfo d’amore che risponde al nostro amore, e ci rende capaci di operare soprannaturalmente o – come dicono i teologi –, ci abilita a fare atti deiformi. Si noti l’abisso che corre tra la verità e l’errore; questo afferma l’inutilità di operare il bene, anzi l’utilità di operare il male, presumendo così di glorificare la grazia che salva, e la verità, invece, proclama che Dio, andando incontro all’anima che l’ama e osserva fedelmente i suoi comandamenti, abita in lei nella gloria della sua Trinità, e produce in lei un organismo soprannaturale che, soprannaturalizzando l’anima, l’abilita a fare atti deiformi.
        La vita cristiana, infatti, è una partecipazione alla vita stessa di Dio, ed è evidente che Egli solo la può conferire; ora, Egli ce la conferisce venendo ad abitare nelle anime nostre e dandosi interamente a noi affinché possiamo rendergli i nostri ossequi e lasciarci docilmente guidare da Lui a praticare le disposizioni e le virtù di Gesù Cristo. Questa mirabile abitazione della Santissima Trinità in noi si attua quando noi amiamo Gesù, e noi lo amiamo principalmente quando gli chiediamo perdono dei nostri peccati attraverso il sacramento della Penitenza e quando ci comunichiamo eucaristicamente con Lui sacramentato. Andiamo da Lui per amore, e perché lo amiamo il Padre ci ama; siamo da Lui attivati soprannaturalmente, e diventiamo tempio vivo della Santissima Trinità che, vivendo in noi, rende deiformi le nostre azioni con la grazia. Dio ci adotta come figli, non per una semplice finzione giuridica, com’è l’adozione legale, ma elargendo a coloro che credono nel suo Verbo la divina filiazione: diede il potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome (Gv 1,12). Questa filiazione non è nominale ma effettiva: affinché siamo chiamati figli di Dio (1Gv 3,1) noi entriamo in possesso della divina natura. Questa vita divina è certamente in noi soltanto una partecipazione e una somiglianza che fa di noi non degli dèi, ma degli esseri deiformi; ma è anche una realtà, una vita nuova, non uguale, ma simile a quella di Dio.

Nelle incomprensioni, affidarsi ai lumi dello Spirito Santo.
        Gli apostoli si mostrarono un po’ disorientati alle parole di Gesù; non le comprendevano appieno e non sapevano come metterle in pratica. Gesù, però, non parlava perché avessero praticato tutto ciò che diceva allora stesso, né parlava solo per loro: si rivolgeva a tutti gli uomini e alla sua Chiesa futura, della quale essi erano le primizie; non dovevano dunque turbarsi per la loro incomprensione attuale, ma aspettare con fiducia le illuminazioni dello Spirito Santo. La santità, infatti, non è un edificio morto che si eleva a via d’industrie, ma è come il germinare, il crescere, il fiorire e il fruttificare di una pianta che si compie sotto i raggi del sole, per vita interna. L’anima è istruita da chi la guida, ed ha l’impressione di dimenticare tutto ciò che ascolta né sa vedere come possa metterlo in pratica. Ciò che ascolta, però, non è una lezione ma una semina, non è uno studio arido di problemi spirituali o psicologici, ma è come l’aprirsi di un orizzonte e il delinearsi di una strada, a percorrere la quale occorre, poi, la guida e il veicolo.
        L’anima, quasi sempre, come avveniva anche agli apostoli, dimentica ciò che ascolta o ciò che legge e, povera com’è, non sa come cominciare e proseguire il suo cammino di perfezione. Essa non deve disorientarsi, o stillarsi il cervello ma, offrendosi tutta a Dio, deve confidare nei lumi dello Spirito Santo. È proprio quello che Gesù disse agli apostoli: Queste cose vi ho detto mentre mi trovavo ancora in mezzo a voi; cioè, voleva dire, io vi ho detto molte cose per profittare del tempo nel quale sono con voi, ma voi non vi preoccupate di non ricordarle, o di ricordarle in parte; verrà poi lo Spirito Santo che il Padre manderà nel nome mio, ed Egli vi insegnerà ogni cosa, spiegandovi quello che non avete capito, e vi ricorderà, a mano a mano che vi occorrerà, tutto quello che vi ho detto, e che avete dimenticato.
        Questa soave provvidenza nella formazione e nella perfezione dell’anima possiamo constatarla continuamente: noi ascoltiamo e leggiamo qualcosa di vitale, ne esultiamo, e poi dimentichiamo tutto o quasi tutto. Quel nutrimento spirituale non è perduto, ma è come la concimazione o l’innaffiamento della pianta: rimane in noi e, ai raggi salutari dell’azione dello Spirito Santo, affiora nelle parti avvizzite del cuore, e le vivifica. A volte si trasforma, diventa un pensiero che par che nasca da noi, ed è invece l’elaborazione venuta dalla grazia di un pensiero vitale, rendendolo come linfa appropriata alle nostre disposizioni particolari, e ai fini che il Signore vuol conseguire nella nostra vita. Quando l’anima si dona interamente a Dio nella soave schiavitù dell’amore, lungi dal preoccuparsi nel suo cammino di perfezione, deve rimettersi alla grazia dello Spirito Santo e confidare, con la ferma volontà di rispondere e di fare tutto ciò che Egli le ispira, nella luce di chi la guida nel cammino della santità.

Bando agli estetismi dello spirito!

        La preoccupazione, in questa via d’amore, può spegnere precisamente l’amore, diventare ansietà orgogliosa di vedersi buoni, diventare vanità di spirituale estetica, e togliere la pace dal cuore. È questa la ragione dell’agonia che tante anime hanno nel cammino spirituale: esse non si affidano alla grazia dello Spirito Santo ma alle loro attività, non cercano la gloria di Dio ma inconsciamente la loro gloria, e vanno cercando la pace nelle pieghe del loro cuore inquieto, anziché nel caldo soave e materno della divina volontà. Per questo Gesù, dopo aver parlato agli apostoli della futura azione dello Spirito Santo nella loro santificazione, soggiunge: Vi lascio la pace, vi do la mia pace; non ve la do come la dà il mondo. Il vostro cuore non si turbi né si sgomenti. La pace che dona Gesù è la tranquillità dell’anima data interamente a Dio, è la calma nelle prove che nasce dall’unione alla divina volontà, è l’intima gioia di sentirsi di Dio anche quando la povera natura agonizza, è il dolore stesso e la pena illuminati dalla luce della bontà divina, e dalla speranza dell’eterna gloria. Gli apostoli erano turbati e sgomenti perché Gesù aveva accennato loro alla sua prossima dipartita dal mondo; ebbene, neppure questo doveva turbarli, quando pensavano che Egli se ne andava al Padre, e che la sua umanità, minore del Padre, andava alla gloria. Come Dio, Egli era nel Padre e il Padre in Lui; era suo Verbo consustanziale e stava immutabilmente nella divina gloria; ma, come uomo, era minore del Padre, era pellegrino, angustiato, afflitto, e prossimo a subire l’estrema immolazione. Se essi l’amavano veramente, dovevano godere che la sua addolorata umanità andava ad immergersi nella gloria del Padre.

«Vi lascio la pace, vi do la mia pace»

        Dicendo questo, Gesù apriva alle anime desolate l’orizzonte eterno, e alle anime vittime la visuale della pace imperturbabile nell’eterna gloria. Certo, le pene della vita sono gravi, e a volte ci danno l’impressione di una fitta oscurità senza uscita e senza scampo. Ci accoriamo di noi, e ci sentiamo sgomenti; eppure basta pensare che l’angustia passa e che viene presto la pace eterna, per sentirsi rianimati. Basti a ciascun giorno il suo affanno; il domani mettiamolo interamente nelle mani di Dio, e orientiamo l’anima nostra al domani eterno che ci attende. Quando ci uniamo alla divina volontà e viviamo in questa soave speranza, i giorni amari diventano come una spinta maggiore verso gli eterni orizzonti, ci astraggono dal mondo, ci appartano dalle realtà umane, e ci uniscono a Dio in modo così profondo, e in un abbandono così completo che satana non può aver nulla di comune con noi né può esercitare in noi quel tristo dominio che ha sui peccatori, fonte di disperata agitazione.
        Gesù accennò velatamente alla sua Passione e morte, riparlando della sua dipartita dal mondo, e l’accennò perché gli apostoli, vedendola avverata, non si fossero turbati; Egli, però, protestò che il principe di questo mondo, cioè satana, non aveva nulla in Lui, e che, quello che avrebbe fatto contro di Lui, Egli lo avrebbe permesso, per dimostrare al mondo il suo amore al Padre nell’immolazione, e per compiere il suo grande disegno della redenzione umana: Non parlerò ancora molto con voi – soggiunse –,perché me ne andrò vittima della macchinazione infernale di Giuda, mosso da satana; non vi turbate, però né crediate che io sia sotto il suo dominio quando sarò tormentato e posto a morte. Satana non può nulla senza il mio permesso, e non ha nulla in me, perché non può colpirmi e raccogliere da me neppure un’impazienza; quello che avverrà, e di cui vi prevengo, avverrà per l’amore infinito che porto al Padre e per il quale m’immolo, e sarà da parte mia il compimento pieno della sua volontà.
        Dicendo queste parole, Gesù esortò gli apostoli ad alzarsi e a disporsi ad andar via, perché Egli voleva recarsi all’orto a pregare, e iniziare così la sua Passione. Non disse loro di uscire immediatamente, perché continuò a parlare né volle esortarli semplicemente a muoversi ma, essendo essi afflitti e timorosi, volle dir loro: Non vi accasciate, e non temete che, uscendo di qui, troviate subito qualche agguato; siate forti, seguitemi, e unitevi a me come soldati coraggiosi che seguono il capitano nel cammino della lotta. Siamo tutti di Dio, offriamoci a Lui come schiavi d’amore, nel pieno abbandono della sua volontà, e satana non avrà nulla di noi, quantunque egli muova contro di noi lotte gravi e atroci per sconcertarci.
         Operiamo e soffriamo come vittime d’amore e non come vittime di fatalità, come esecutori del piano ammirabile della divina volontà in noi, e non come schiavi di eventi crudeli. C’immoli l’amore, non satana, e ci metta in croce il Signore per i suoi fini d’amore, non la perfidia diabolica per i suoi fini di rovina spirituale.
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 23 aprile 2016

« Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri »




Domenica 24 aprile 2016:

« Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri »

Domenica 2 maggio 2010
V Domenica di Pasqua Anno C

Gv 13,31-33a.34-35
† Dal Vangelo secondo San Giovanni
Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito.
Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.
Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».
L’esultanza dell’amore di Gesù per il suo sacrificio imminente
Giuda uscì dal cenacolo ed era notte, dice il Sacro Testo; notte naturale nel luogo, e notte nell’anima del traditore, figlio delle tenebre che usciva per andare incontro all’abisso e alla notte eterna della perdizione.
Era invece luce fulgente nell’anima di Gesù, erano splendori di fiamma nel suo ardentissimo Cuore, ed Egli, vedendo che stava per compiersi il suo desiderio ardente d’immolarsi per la gloria di Dio e per la salvezza di tutti, esclamò: Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in Lui. Se Dio è stato glorificato in Lui anche Dio lo glorificherà in se stesso, e lo glorificherà presto. Psicologicamente, se può dirsi così trattandosi di Gesù, nella sua umanità Egli ebbe un tale schianto per la partenza di Giuda che per non venir meno ebbe bisogno di volgersi ai grandi fini della redenzione. Dal contesto si rileva che il suo Cuore era sommamente intenerito, chiamando i suoi apostoli figliolini miei; ora la tenerezza paterna, anzi diremmo materna, gli fece sentire nel Cuore uno strappo angoscioso per Giuda e, quasi per dominarsi e non apparirne vinto, per non contristare i suoi apostoli e per dare al suo Cuore che scoppiava d’angoscia uno sfogo d’amore, Egli riguardò la gloria che avrebbe avuto Lui stesso morendo, e che sarebbe ridondata nel Padre col suo sacrificio.
Nell’enfasi del suo amore, guardò al futuro come ad un fatto già avvenuto, e usò il tempo presente nelle sue parole: Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in Lui. Egli, in realtà, si era già offerto eucaristicamente, e la sua santissima Umanità era stata glorificata sommamente in quel mistero d’amore, diventando cibo di vita. Il Corpo e il Sangue, allora ancora mortali, erano diventati Cibo e Bevanda di vita immortale ed eterna per tutti gli uomini in tutti i secoli. Non c’era un’incorruttibilità più grande, un’elevazione più sublime e un regno più universale, come non c’era una glorificazione più grande di Dio in un sacrificio che era identico a quello del Calvario, ma non era consumato dall’irruzione dell’empietà e dalla scelleratezza dei carnefici, bensì dall’amore più grande che potesse elevarsi innanzi a Dio e dalla fiamma più ardente di carità.
Nell’impeto del suo amore, Gesù soggiunse: Se Dio è stato glorificato in lui cioè nel Figlio dell’uomo, anche Dio lo glorificherà in se stesso, e lo glorificherà presto. L’offerta che Gesù aveva fatta di se stesso al Padre e la sua volontà d’immolarsi era già una glorificazione piena di Dio; l’imminente sacrificio del Golgota, in realtà, non era che la consumazione. La vittima per onorare Dio doveva essere consumata, perché un agnello non poteva offrirsi con la volontà; ma la Vittima divina era già offerta nell’atto della sua volontà, e Dio, anche prima del sacrificio del Calvario, ne era stato glorificato. Ora, come Gesù aveva glorificato il Padre, e come avrebbe consumato questa sua glorificazione sulla croce, così il Padre l’avrebbe glorificato in se stesso, elevandolo alla sua destra, cioè nello splendore della divina gloria e facendolo Re di tutto l’universo.
Questa glorificazione sarebbe avvenuta presto nell’Ascensione al cielo, e nella dilatazione della Chiesa e sarebbe avvenuta anche sul Calvario, per i grandi prodigi che avrebbero accompagnato la sua morte.
Agli occhi degli uomini, infatti, la croce fu obbrobrio, ma agli occhi di Dio fu grande glorificazione, perché, sotto l’umiliazione tremenda e gli spasimi atroci, rifulgeva la potenza di Gesù Cristo, vittorioso del peccato e di satana, splendeva la sua sapienza infinita, e ardeva il suo amore; la stessa dolorosissima immolazione era come una fiamma di santità e un profumo di preghiera che mai da nessuna creatura s’erano elevati a Dio, poiché erano carità e preghiera divina. Il Signore, dando alla morte il suo Figlio, il suo Verbo Incarnato, lo glorificava nello splendore di quella medesima umanità torturata che attraverso i dolori dava i frutti più belli e più grandi, ed era come vita lussureggiante di grappoli maturi, e come campo ripieno di messe.
La gloria della croce
È proprio quello che avviene in piccolo nelle anime immolate, vilipese, calunniate e colme di dolori anche nel loro corpo. Il dolore e la croce sono gloria incomparabile quando diventano un’offerta dell’amore; attraverso il dolore rifulge tutta la bellezza dell’anima, e splende mirabilmente la grazia che l’adorna.
Mai l’anima, su questa terra, è così glorificata innanzi a Dio che quando agonizza, è disprezzata dal mondo, è ridotta come un verme innanzi ai superbi, è considerata come stravagante, ed è crocifissa dal dolore. Allora è tutta luce, tutta sapienza, tutta amore, ed elevata negli splendori della grazia forma la compiacenza di Dio. Il mondo questo non lo capisce, e giunge a credere che Dio si diletti di veder soffrire, mentre Dio si diletta solo di glorificare la sua creatura, preparandole, poi, una più grande glorificazione in se stesso, nella felicità eterna. Il Signore, in questo campo d’amore sconosciuto alla carne e al sangue, non può curarsi degli apprezzamenti della carne e del sangue, come non si cura della critica di uno stolto che pone le pietre nel crogiuolo per trarne l’oro liberandole dal terriccio che l’offusca. Per questo non c’è atto più sapiente, in questa vita di prove affannose, e molto più nella vita di elevazioni mistiche, quanto quello di unirsi alla divina volontà, e accettare il dolore con gioia, in unione dell’esultanza del Redentore che, tradito da Giuda, nella certezza dell’imminente Passione, non vide che la glorificazione di Dio, e la gloria che sarebbe ridondata alla sua stessa umanità, secondo quello che dice san Paolo: Proposito sibi gaudio sustinuit cruce (Eb 12,2).
Il comandamento nuovo
Gesù Cristo, parlando della glorificazione di Dio, sapeva di parlare della morte alla quale andava incontro, e s’intenerì immensamente per i suoi apostoli che sapeva di dover lasciare dopo poco tempo. Perciò disse con grande amore, compiangendoli: Figliolini, per poco tempo ancora sono con voi. Voi mi cercherete ma, come dissi ai Giudei, dove vado io voi non potete venire, anche a voi lo dico adesso.
Egli aveva, però, promesso un’altra volta di dimorare fra quelli che sarebbero stati congregati nel suo Nome, e diede loro il grande segreto per averlo ancora fra loro e per sentire meno il dolore della sua assenza fisica, dicendo: Vi do un nuovo comandamento che vi amiate l’un l’altro che vi amiate anche voi l’un l’altro come io vi ho amati. Da questo, tutti conosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore l’uno per l’altro. La carità scambievole l’avrebbe conservato in mezzo a loro, anche quando non avrebbero potuto averlo sacramentalmente, ed avrebbe conservato, in loro, l’unione e l’armonia per poter sentire meno la pena del suo distacco. Essi dovevano amarsi come Egli li aveva amati, senza interesse, e immolandosi gli uni per gli altri; dovevano avere l’amore reciproco come caratteristica particolare d’esser suoi seguaci, e risplendere nella carità in mezzo al mondo che dovevano evangelizzare.
Sac. Dolindo Ruotolo

sabato 16 aprile 2016

Gesù proclama la sua divinità

Gesù proclama la sua divinità


Commento al Vangelo: IV Domenica di Pasqua C 2016
 (Gv 10,27-30)

Le mie pecorelle ascoltano la mia voce, io le conosco ed esse mi vengono dietro; io do loro la vita eterna, esse non periranno in eterno, e nessuno me le strapperà di mano. 

Gesù proclama la sua divinità

La festa della Dedicazione del tempio era stata istituita da Giuda Maccabeo, in memoria della purificazione del tempio fatta dopo le profanazioni del luogo santo consumate da Antioco Epifane. Essa cominciava il 25 del nono mese, detto Casleu, novembre-dicembre, e durava otto giorni. Si chiamava anche festa dei lumi, per le illuminazioni che si solevano fare in quella circostanza.
Gesù camminava sotto il portico di Salomone. Questo portico, risparmiato dai Caldei nella distruzione di Gerusalemme, sorgeva al lato orientale dell’atrio dei pagani, e Gesù vi passeggiava pregando, con lo sguardo al Padre, in un atteggiamento pensoso e raccolto che dovette impressionare i Giudei, divisi com’erano da una doppia tendenza, e incerti sul modo come dovevano riguardare Gesù. Si affollarono perciò intorno a Lui e gli domandarono: Fino a quando terrai sospesa l’anima nostra? Se tu sei il Cristo diccelo apertamente.
Probabilmente non gli fecero questa domanda insidiosamente per avere occasione di condannarlo, perché non gli chiesero se fosse il Figlio di Dio, ma se fosse il Cristo. Essi, però, non si accorgevano di non avere l’anima disposta a sentire la verità, anzi molti di loro avrebbero inconsciamente desiderato che Egli avesse risposto come il Battista: Non sono io il Cristo. C’è, a volte, nelle domande che si fanno, una strana psicologia; s’interroga con la risposta già formulata, si chiede più per sentir confermato quello che si pensa che per essere veramente consigliati; si è certi che non ci si può rispondere diversamente. Gesù Cristo, che conosceva bene il cuore dei suoi interlocutori, rispose: Ve lo dico e voi non credete; ve lo dico con le parole e ve lo dico anche con le opere, poiché le opere che compio nel nome del Padre mio, queste rendono testimonianza di me. Già sapete, dunque, quale risposta io posso dare alla vostra domanda, ma voi non la intendete perché non siete delle mie pecorelle.
Le mie pecorelle ascoltano la mia voce, io le conosco ed esse mi vengono dietro; io do loro la vita eterna, esse non periranno in eterno, e nessuno me le strapperà di mano. Gesù Cristo non voleva dire che essi erano impossibilitati a credere quasi per un destino ineluttabile ma che non essendo sue pecorelle cioè, non seguendolo con amore e col desiderio d’essere guidati, illuminati e pascolati da Lui, non intendevano le sue parole e non davano peso o significato ai suoi miracoli. Egli li aveva chiamati, li voleva come sue pecorelle, ardeva dal desiderio di averli, ma essi si rifiutavano di seguirlo, e quindi rendevano impossibile in loro la penetrazione e la luce della verità. Se l’avessero seguito come sue pecorelle, avrebbero capito le sue parole, e inteso il significato dei suoi miracoli, sarebbero stati in comunione con Lui e avrebbero avuto la bella speranza della salvezza eterna.
Gli scribi e farisei cercavano, in realtà, non di sapere la verità, ma di strappargli le anime, mettendole in imbarazzo, e presumendo di disingannarle, poi, con le stesse sue parole; perciò Gesù, in un impeto d’amore, quasi serrandosi al Cuore le sue pecorelle fedeli, disse: Nessuno me le strapperà di mano. Quando esse vengono a me, io le nutro e le sostento con la grazia che il Padre mio mi ha data, e questa incomparabile ricchezza sorpassa ogni cosa, è superiore a qualunque insidia e a qualunque forza umana o diabolica. Nessuno potrà rapire le anime dalle mani del Padre mio e dalle mie mani, poiché io e il Padre siamo una sola cosa.
Dicendo questo, il Redentore rispose anche alla domanda che gli era stata fatta; Egli non solo era il Cristo che veniva a salvare le anime, ma era il Figlio di Dio, una co-sa col Padre, consustanziale a Lui, e veramente distinto da Lui: Io e il Padre, siamo una sola cosa. 
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 9 aprile 2016

Gesù appare sul Lago di Tiberiade

Commento al Vangelo: IIII Domenica di Pasqua C 2013 (Gv21,1-19)

Gesù appare sul lago diTiberiade
La pesca miracolosa
        Dopo le feste pasquali, gli apostoli, secondo il comando avutone da Gesù, se ne ritornarono nella Galilea, attendendo sue disposizioni. Erano insieme sette di loro che erano pescatori, Simon Pietro, Tommaso, detto il Didimo, Natanaele, ossia Bartolomeo, i figli di Zebedeo, Giovanni e Giacomo, e due altri discepoli che il Sacro Testo non nomina. Benché Gesù avesse già detto loro che li mandava come Lui era stato mandato dal Padre, e benché avesse dato loro lo Spirito Santo, comunicando ad essi la potestà di rimettere i peccati, pure non avevano capito molto della dignità soprannaturale alla quale erano stati eletti. Non avevano ancora ricevuto lo Spirito Santo nella pienezza che doveva trasformarli, ma solo come grazia particolare, data loro per anticiparne l’elevazione alla dignità alla quale Dio li aveva eletti.
        La loro mente si era solo snebbiata di qualche pregiudizio, la loro fede si era orientata al suo vero oggetto, la loro speranza si era ravvivata, il loro amore era cresciuto, e stavano in attesa di quello che Gesù potesse fare.
        Essendo poveri, e non avendo più le pie donne che con le elargizioni del popolo devoto provvedevano alle loro necessità, pensarono di ritornare all’antico mestiere. Essi, in realtà, non l’avevano mai smesso interamente, essendo un mestiere innocente, ma al ritorno in Galilea ne sentirono la necessità per procacciarsi da vivere. Fu san Pietro che ne diede l’esempio, dicendo: Vado a pescare. Gli altri si unirono a lui, salendo nella sua barca. Non avevano una precisa occupazione e pensarono di unirsi a Pietro per aiutarlo, e beneficiare con lui del frutto della pesca. Erano pratici del mestiere e scelsero la notte come il tempo più atto alla pesca, ma non presero nulla. Dio, che è padrone di tutto, lo dispose per far meglio risultare il miracolo che Gesù voleva operare e il significato profondo che voleva dargli.
        Alle prime luci del mattino, Gesù, improvvisamente, come indica il testo greco, si fermò ritto sulla riva. Gli apostoli erano a circa cento metri di lontananza, e la nebbia mattutina non fece loro distinguere chi fosse. Non lo riconobbero neppure alla voce quando loro parlò, perché Egli, per farsi intendere a quella distanza, alzò la voce, e questa ebbe una risonanza di eco per la solitudine del lago. Si stupirono nel vedere improvvisamente un uomo sulla riva a quell’ora ma, quando Egli domandò se avessero qualcosa da mangiare, crederono che fosse un povero o un pellegrino. Non avevano nulla, non avendo preso nulla, e perciò risposero recisamente: No.
        Il supposto povero o pellegrino li aveva chiamati affettuosamente figlioli, ed essi risposero rudemente: No;evidentemente erano un po’ nervosi perché stanchi e delusi dell’inutile notte di lavoro. Con la stessa amabilità, Gesù soggiunse: Gettate le reti a destra della barca e ne troverete. Il consiglio avrebbe potuto anche essere male accolto, trattandosi di un pellegrino che dava suggerimenti ad uomini del mestiere, ma gli apostoli sentirono, in quella voce, tanta cortese amabilità che non poterono far a meno di seguirla; gettarono la rete, e subito dopo si accorsero che si era così riempita di pesci, da non poterla tirare. Il fatto era miracoloso, non se ne poteva dubitare; ora chi avrebbe potuto compiere un miracolo all’infuori di Gesù? Giovanni lo intuì per primo e, poiché nel frattempo il sole era sorto e la nebbia si era dissipata, riconobbe, in quel personaggio, il Maestro divino, e lo disse a Pietro.
        Pietro, al sentire che era il Signore, fu preso da tanta gioia e di tal impeto d’amore che, messasi la sopravveste della quale si era spogliato per aver maggior libertà nel lavoro, si gettò in mare, nella speranza di raggiungere più presto la riva.
        Avrebbe dovuto o rimanere com’era con la sola veste succinta, o addirittura togliersela per nuotare, ma conosceva quanto Gesù amava la purezza e, per rispetto a Lui, preferì vestirsi interamente.
        Se si capisse quanto il Signore ama la purezza, chi oserebbe stargli davanti in un abbigliamento poco modesto? Egli sta sulla riva eterna e ci attende esortandoci a gettare la rete nel mare della vita temporale per raccogliere meriti, e noi andiamo verso di Lui. Come possiamo presentarci al suo cospetto nudi di meriti e privi di modestia? Per il Sacro Testo una veste succinta e senza maniche era nudità: ora, tale deve dirsi molto più la veste che mette in mostra la carne. Dio è geloso della purezza del vestire dovunque noi siamo, perché è geloso dell’anima nostra e della nostra dignità.

In riva al mare Gesù aveva preparato
un po’ di cibo per i suoi apostoli stanchi
        Gli altri apostoli raggiunsero la riva con la barca, coprendo più lentamente la distanza di duecento cubiti, ossia di circa cento metri che ne li separava, perché si traevano dietro la rete colma di pesci. Discesi a terra, ebbero la sorpresa di trovarvi il fuoco acceso sul quale era stato messo del pesce e del pane. Nel suo delicato amore, Gesù aveva, con un altro miracolo, acceso il fuoco e preparato un po’ di cibo ai suoi amati discepoli, per farli rifocillare dopo le fatiche della notte. È opinione comune dei Padri, infatti che Egli produsse miracolosamente il fuoco, i pesci e il pane che non avrebbe potuto trovare sulla riva deserta.
        Per far constatare poi agli apostoli la pesca che avevano fatta, ordinò loro di apprestare anche alcuni pesci di quelli che avevano presi, per arrostirli sul fuoco. Pietro tirò subito a terra la rete, e constatò che conteneva centocinquantatré grossi pesci, stupendosi che la rete non si fosse rotta a quel peso. Dopo che i pesci furono cotti, Gesù invitò i suoi a mangiare, ed Egli stesso distribuì loro il pane e il pesce. Mangiavano i discepoli pieni di gioia, e nessuno interrogava Gesù, domandandogli chi fosse, sapendo che era Lui. Egli era come trasfigurato, era glorioso, e sembrava proprio un altro, tanto era bello e amabile oltre ogni dire; però si riconosceva che era Lui, e non se ne poteva dubitare. Il Sacro Testo soggiunge che questa era già la terza volta che Gesù si manifestava ai suoi discepoli dopo essere risorto da morte, intendendo parlare delle manifestazioni fatte a più apostoli congregati insieme. Computando, infatti, le altre manifestazioni di Gesù raccontate degli altri evangelisti, questa sarebbe la settima.

«Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu più di questi?»
        Dopo che gli apostoli si furono rifocillati insieme a Gesù sulla riva deserta, Gesù, rivolto a Pietro lo interrogò, dicendo: Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu più di questi? Pietro rispose umilmente, rimettendosi questa volta al giudizio stesso del Maestro divino: Certamente, Signore tu sai che io ti amo.
        Prima della Passione, nella notte della Cena, aveva spavaldamente affermato che, anche se tutti l’avessero abbandonato, egli non l’avrebbe rinnegato; ma, posto nell’occasione, aveva invece per tre volte protestato di non conoscerlo e di non essere suo discepolo.
        Ora che Gesù vuol fargli riparare la triplice negazione con una triplice protesta d’amore, egli risponde con umiltà che lo ama, ma non fa alcun confronto con i suoi compagni, e si rimette al giudizio del Maestro.
        Gesù Cristo gli domandò se lo amava più degli altri,per farlo salutarmente umiliare, ricordando la presunzione con la quale si era creduto più forte e più fedele degli altri; per questo lo interrogò in questa forma solo la prima volta, bastandogli che egli si fosse internamente umiliato. Gesù, come è chiaro dal contesto, non volle mettere a confronto l’amore di Pietro con quello di Giovanni che era un amore più tenero, ma solo volle, con delicatezza, raccogliere Pietro in un sentimento di umile penitenza, ricordando che aveva preteso di amarlo più di tutti e poi l’aveva rinnegato. Gesù, interrogandolo, non lo chiamò Pietro, ma Simone, figlio di Giovanni, per mostrargli che per il suo rinnegamento non aveva più meritato quel nome di fiducia che Egli gli aveva dato, e che doveva riconquistarlo con una protesta d’amore e di fedeltà.
        Alla risposta di Pietro: Signore, tu sai che io ti amo,Gesù soggiunse: Pascola i miei agnelli. Il testo greco ha il diminutivo: Pascola i miei piccoli agnelli, quelli cioè che ora nascono alla fede.

Simone, figlio di Giovanni mi ami tu?
        Per la seconda volta Gesù domandò a Pietro: Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu? Questa volta non disse: Mi ami tu più di questi?, perché non volle ricordare nuovamente a Pietro il suo peccato, ma volle un’esplicita testimonianza d’amore, per dargli il governo delle anime radunate in ovile, cioè della Chiesa costituita come vera società. Pietro rispose di nuovo: Certamente, Signore, Tu sai che io ti amo. Gesù soggiunse: Pascola i miei agnelli o, come dice molto espressivamente il testo greco: Prendi cura del mio gregge.

Per la terza volta: Simone, mi ami tu?
        Per la terza volta Gesù disse a Pietro: Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu? Pietro allora si contristò, pensando che Gesù glielo domandasse perché non vedeva in lui l’amore, e perché ricordava ancora il peccato che aveva fatto, rinnegandolo, e rispose: Signore, tu sai tutto, tu conosci che io ti amo. E voleva dirgli: Tu sai quello che io sono, tu conosci il mio cuore, tu lo scruti nel fondo, e tu sai che, nonostante la mia infedeltà, io ti amo. Gesù soggiunse: Pascola le mie pecorelle ossia, secondo il testo greco: le pecore madri, fatte adulte e capaci di procrearne delle altre.
        In poche parole, Gesù tracciava tutto il cammino della Chiesa, e dava a Pietro e ai suoi successori il primato di giurisdizione su tutto il suo gregge, fino al termine dei secoli. Egli affidava a Pietro le anime che aveva redente col suo Sangue sulla croce, in un amore infinito, e richiese da lui una triplice confessione d’amore, perché doveva governarle per amore e con amore. Chiamò Pietro col nome di nascita, Simone, sia perché egli, nella Passione del Maestro, aveva disusato quel nome come compromettente e Gesù volle ricordarglielo, e sia principalmente perché volle allora compiere ciò che gli aveva detto nell’eleggerlo:Tu ti chiamerai Pietro (Mt 26,18). Nell’eleggerlo, gli aveva annunciato che si sarebbe chiamato Pietro, cioè pietrafondamentale e rupe sulla quale avrebbe edificato la Chiesa; ora compiva ciò che aveva annunciato, e chiamava Pietro col nome di origine: Simone, per renderlo, di fatto, Pietro, capo visibile e fondamento della Chiesa. Se l’avesse chiamato Pietro, Egli avrebbe supposto già in lui quello che stava per dirgli. Richiestagli la triplice confessione d’amore, Gesù gli assegnò su quella base l’ufficio di formare il gregge con l’apostolato, di governarlo con la suprema autorità, e di perpetuarlo formando le pecore madri, cioè governando i pastori delle anime che le generano a Lui in tutto il mondo e in tutti i secoli.
        Egli gli diede un triplice regno, e può dirsi quasi che, con le sue divine parole, cesellò Egli la tiara del pontefice: Gli diede il regno delle anime: Pascola i miei piccoli agnelli; gli diede il governo dei popoli cristiani: Prendi cura del mio gregge; gli diede la giurisdizione suprema su tutti i pastori: Pascola le mie pecore madri che generano gli agnelli. Gesù Cristo è il Re di tutto l’universo e di tutte le genti, e per il suo Sangue ha, di pieno diritto, in eredità le nazioni.

Gesù predice velatamente a Pietro il martirio
        Gesù Cristo, dopo avere dato a Pietro la potestà di pascolare e reggere la Chiesa, gli disse: In verità, in verità ti dico che quando eri più giovane ti cingevi la veste e andavi dove volevi, ma quando sarai invecchiato stenderai le mani e un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu non vorrai. L’evangelista aggiunge che disse questo per indicare con quale morte avrebbe glorificato Dio. San Giovanni scrisse il Vangelo dopo la morte di san Pietro, e poté controllare meglio la verità dell’analogia e del paragone del quale Gesù si servì per predirgliela. Chi è giovane ha maggior elasticità nei movimenti, può cingersi la veste da sé, e può andare dove gli piace. Chi è vecchio, invece, ha bisogno di un altro che lo cinga e, per farglielo fare più agevolmente, stende le braccia, come se le stendesse in croce; egli, poi, non può andare dove desidera, ma dove lo accompagnano gli altri ai quali è soggetto.
        Pietro doveva terminare la vita con un glorioso martirio, simile a quello del suo Maestro, e doveva glorificare Dio con quest’ultima grandiosa testimonianza d’amore. Egli fu crocifisso, fu cinto di funi, stese le mani per farsele configgere, e andò dove non voleva, andò alla morte che ripugna sommamente alla natura. Egli, anzi, condannato a Roma alla crocifissione sotto Nerone, nell’anno 67, per rispetto al suo Maestro, e perché i fedeli non avessero confuso la sua croce con quella di Gesù, domandò in grazia ai carnefici e ottenne di essere crocifisso col capo in giù. In tal modo, glorificò veramente Dio con una fedeltà eroica d’amore, mostrò la potenza della sua grazia nel sostenere la debole natura, suggellò, col sangue, i suoi insegnamenti, e consolidò, col martirio, il santo fondamento della Chiesa. Per questo Gesù, dopo avergli predetto la morte velatamente per non turbarlo, gli soggiunse: Seguimi. Non ebbe quasi il coraggio di dirgli: «Sarai crocifisso come me», ma gli ricordò la seconda parte di quel suo precetto col quale comandava di prendere la croce e seguirlo, e lo esortò a percorrere il suo stesso cammino.
         Egli non parlò più esplicitamente, perché era inutile, sapendo che, giunta l’ora del cimento, l’avrebbe sostenuto con la sua grazia. Gli aveva dato un immenso potere, non perché fosse stato come un re della terra, ma perché si fosse immolato come un buon pastore per le pecorelle che gli aveva affidate; aveva tracciato il programma della vita dei Pontefici che è vita di rinuncia e d’immolazione, anche in mezzo agli onori dai quali sono circondati, per rispetto della loro dignità.
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 2 aprile 2016

Gesù Cristo appare agli apostoli

Commento al Vangelo: II Domenica di Pasqua 2016 (Gv 20,19-31)
Domenica della Divina Misericordia

Gesù Cristo appare agli apostoli
Dopo che Pietro e Giovanni tornarono dal sepolcro, e dopo il messaggio delle pie donne e della Maddalena, cominciò a nascere negli apostoli un po’ di fede. Non era la fede profonda e completa di chi crede a Dio che rivela, riguardando come somma ragione la sua autorità, ma era come l’alba di questa fede, era come il rinascere di una speranza che sembrava già morta, era come il primo rinverdirsi d’un ramo spezzato dalla tempesta. Questo poco di fede, più naturale che soprannaturale in quel momento, fu la disposizione che rese loro possibile la grazia della rivelazione del Signore.
Essi erano in buona fede, in fondo, poiché non avevano capito i tratti della Scrittura che parlavano della risurrezione e non ricordavano ciò che, in proposito, aveva detto loro Gesù; non rifiutavano di credere alla Parola di Dio positivamente, ma s’erano come smarriti nel labirinto delle loro idee e delle loro aspirazioni.
Il timore poi dei Giudei aveva fatto nascere in loro, quasi inconsciamente, il desiderio di sottrarsi, se fosse stato possibile, all’incanto e al fascino di ciò che in tre anni avevano visto e ascoltato.
La paura è sempre una pessima consigliera e, quando diventa panico, cerca ogni scappatoia per sottrarsi al pericolo; se non in tutti gli apostoli e discepoli, almeno in alcuni, subentrò un desiderio occulto di non pensare più al passato, di abbracciare un tenore comune di vita, e ritornare alle loro occupazioni; ne abbiamo un esempio nell’episodio dei discepoli di Emmaus, del quale parla san Luca (24,13-35). Il timore si accrebbe negli apostoli per le stesse notizie che riguardavano la risurrezione. Certamente il Corpo di Gesù non c’era più nel sepolcro, e questo fece loro temere che le autorità li accusassero di averlo essi sottratto, iniziando contro di loro una persecuzione; perciò stavano guardinghi e tenevano ben chiuse le porte dove erano congregati. Ora, mentre erano insieme, nella sera della stessa domenica della risurrezione, Gesù Cristo, senza bisogno di farsi aprire, entrò improvvisamente in mezzo a loro e, fermatosi, disse: La pace sia con voi.
Nella sua misericordia e nel suo amore veniva per troncare la loro diffidenza, e per mostrare la realtà della sua risurrezione. Perciò, passato il primo momento di sbigottimento che si generò in loro a quella vista, li invitò ad avvicinarsi a Lui, e mostrò loro le mani piagate e il costato aperto, affinché avessero avuto un argomento sensibile della realtà del suo Corpo, e avessero constatato che quello era proprio il Corpo crocifisso tre giorni prima sul Calvario.

Il Corpo risorto di Cristo
e le ombre penose della bellezza umana
Il momento fu solenne, ed è difficile, per noi, formarcene una pallida idea.
Il Corpo di Gesù, essendo risorto, era glorioso, e aveva quella dote che i teologi chiamano sottigliezza, per la quale poteva attraversare gli ostacoli. Oggi questa dote è di più facile comprensione, poiché ne abbiamo qualche analogia nelle onde radiofoniche e nei raggi catodici che attraversano senza difficoltà ostacoli insormontabili ai corpi. Il Corpo glorioso è come spiritualizzato, è come fluido, tutto luce e tutto energia, e può attraversare gli ostacoli molto più che un’onda di radio. Gesù Cristo apparve nella sera, quando già cominciavano le tenebre, tutto rifulgente di luce nelle penombre della stanza dov’erano gli apostoli. Non irradiava luce quasi fosse un sole, come può arguirsi da apparizioni di esseri ultramondani, ma era Egli, come un corpo tutto splendente, luce placidissima che non abbagliava.
Pietro, Giacomo e Giovanni dovettero ricordare, allora, la scena della trasfigurazione che aveva qualche somiglianza con ciò che vedevano. Gesù, ritto in piedi, era mirabilmente bello: era Lui, ma immensamente più affascinante nella sua carne gloriosa. I capelli erano nel fulgore della luce come onde d’oro, la fronte e il volto erano candidi e rubicondi, fonte di gioia nella loro purissima bellezza; il corpo era mirabilmente intonato, senz’alcuno di quegli angoli oscuri che ha l’umana bellezza; maestoso, ma dolce e paterno, spirava amore da ogni parte, ed era come giglio fragrante schiuso in una valle brumosa, perché emanava da Lui quel tenue e soave profumo che spirava dalla carne gloriosa.
L’umana bellezza e l’umana carne, anche quando sono avvolte in un alone di purezza, hanno sempre qualche angolo oscuro e qualche lezzo di putrido, eccetto il caso nel quale siano interamente vivificate dallo Spirito Santo. È un’illusione pensare che una bellezza vivente o effigiata dal vero possa portarci a Dio, fissandola con uno sguardo di curiosa esplorazione; essa ha sempre dei corti circuiti che scaricano nella terra la corrente dell’amore divino che ferve nell’anima. Una sola bellezza può fissarsi e sentirsene vivificati, ed è quella che traluce dalla grazia di Dio; una sola bellezza può fissarsi e possedersi ed è quella di Dio. Qualunque altra bellezza accende sempre una passione nei sensi, dà un desiderio incosciente di possesso almeno ideale, è come vento che solleva le onde e suscita le tempeste, è come forza che devia da Dio la corrente del cuore.
Gesù, ritto nella sala, vestito non di panni ma di gloria, era la bellezza purissima che elevava l’anima a Dio, diffondeva gioia, pace, amore, e per questo il Sacro Testo dice con parola mirabilmente sintetica: I discepoli, vedendo il Signore, gioirono. Era la gioia della vita piena che emanava da Colui che era la vita; era la pace che diffondeva Colui che era la verità, calmando le ansie oscure dell’anima; era la contentezza che dava Colui che era come faro luminoso, dal quale veniva tracciata la via del Cielo.
Gioirono i discepoli nella gioia della purezza che spirava dal Corpo divino e, in quella gioia, si estinsero in loro le povere fiamme della carne che ustionano fastidiosamente il cuore e lo fanno stare tra le spine. Non c’è gioia più grande della purezza integrale: è una gioia che nasce dall’amore di Dio che si trasfonde nell’anima come luce di verità, come calore di carità, e come complesso di bontà. In noi c’è sempre qualche cosa d’impuro, e qualunque gioia spirituale è sempre turbata dalla nostra miseria; gli apostoli, nel vedere Gesù, si sentirono puri e purificati, poiché Egli diffuse in loro una grande serenità, e dicendo: La pace sia con voi, li avvolse in quella pace che spira da Dio, Verità, Sapienza e Amore eterno.
Pace, tranquillità d’ordine, serena sicurezza, riposo d’amore nell’eterno Amore!

A chi rimetterete i peccati,
saranno rimessi…
Gioirono i discepoli, ma nella gioia stessa provarono un senso di timore per le colpe che avevano commesse, e per la sproporzione che sentivano col Signore glorioso; per questo, Gesù, rassicurandoli, ripeté le dolci e vivificanti parole: La pace sia con voi e, sollevandoli dalla loro profonda umiliazione interiore, soggiunse: Come il Padre ha mandato me così io mando voi.
Con delicatezza divina e con divina signorilità non volle che avessero sentito il peso della loro inferiorità innanzi a Lui glorioso; gli ripugnava quasi che avessero potuto stabilire un paragone fra loro peregrinanti e Lui trionfante e, anticipando le grazie della Pentecoste e il momento nel quale diede loro la pienezza della missione per la quale li aveva scelti, soffiò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi li riterrete saranno ritenuti. Gesù Cristo non fece loro una promessa, ma diede loro veramente una comunicazione attuale dello Spirito Santo, alla quale era annessa la facoltà di rimettere i peccati. Pur ricevendosi una volta lo Spirito Santo – perché la sua comunicazione sacramentale imprime il carattere –, Gesù Cristo volle darlo più volte ai suoi prediletti, riserbandone loro una nuova pienezza nel giorno della Pentecoste. Si direbbe che sta nelle sue abitudini di misericordia e di amore moltiplicare e rinnovare i suoi doni a quelle anime che gli si danno con amore, ed hanno fiducia nella sua generosità.
Dicendo: A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi li riterrete saranno ritenuti, Gesù Cristo diede agli apostoli e ai loro successori la potestà giudiziale di rimettere i peccati nel sacramento della Penitenza, com’è chiarissimo dal Testo, e come dichiarò esplicitamente il Concilio di Trento (Sess. XIV, can. 3). Tutti i peccati, anche i più gravi, possono essere rimessi, ma debbono essere sottoposti al giudizio del sacerdote con la confessione, perché il rimetterli o ritenerli non è un atto di capriccio, ma è una sentenza ragionevole che dipende da un giusto giudizio; tale giudizio non può farsi se il peccatore non confessa i suoi peccati e se, confessandoli, non mostra le disposizioni interiori che lo animano.
La Confessione dei peccati non è un’imposizione umiliante e penosa benché a primo aspetto sembri che sia così, e benché a volte abbia quasi questo sapore: è una concessione di misericordia, fonte di pace e di gioia grande per il povero peccatore. Sottoporre i propri peccati a chi rappresenta Dio significa mutare l’immondizia in concime, il concime in pianta, in fiore, in frutto di eterna vita. Confessarsi significa espandere l’anima propria, piangendo, nelle braccia amorose di Dio, e assicurarsi del suo perdono che è dolcissima gioia, pienezza di vita che fa sentire leggeri, leggeri, liberi dalle catene, tesi al volo verso le ricchezze eterne.
Con divina delicatezza Gesù anticipò agli apostoli la facoltà di rimettere i peccati, proprio nel momento nel quale essi si sentivano maggiormente peccatori, rendendoli giudici quando essi si aspettavano di essere giudicati. Egli volle rialzarli dall’umiliazione e, nel medesimo tempo, volle dare loro i tesori della misericordia quando essi maggiormente si sentivano poveri e peccatori, affinché avessero compatito le miserie altrui. L’uomo ha cercato tutelare l’ordine sociale con le leggi e i tribunali penali, con le carceri e persino con la morte, ma non ha potuto far nulla per mutare l’anima del delinquente, nonostante tutte le assistenze sociali ai carcerati. Solo Dio poteva erigere un tribunale di amorosa misericordia che rinnova il cuore, dona la pace, eleva in alto il peccatore e lo muta in un giusto e persino in un santo.

Gesù Cristo risana Tommaso dalla sua incredulità
Quando Gesù apparve agli apostoli, Tommaso non era con loro. Di carattere più indipendente, di volontà più ostinata, forse aveva creduto inutile starsene rinchiuso nel Cenacolo, o forse anche era andato a sbrigare qualche faccenda. Era colui che meno aveva creduto al messaggio delle pie donne e di Maria Maddalena, e può darsi che, sentendone parlare e discutere, si fosse così disorientato e urtato, da uscirsene. Per lui ormai era certo che Gesù era morto che le speranze riposte in Lui erano fallite, e che ostinarsi ad attendere ancora eventi che gli sembravano ormai impossibili era lo stesso che esporsi alla derisione e dar di volta al cervello. Il suo disorientamento si accrebbe quando, al ritorno, seppe dagli altri apostoli dell’apparizione di Gesù.
È evidente che gli dovettero raccontare tutto minutamente, e che, al suo ostinarsi nel non credere, dovettero ripetutamente fargli notare che essi avevano visto proprio le ferite delle mani, dei piedi e del costato, e che non c’era dubbio che fosse proprio Lui. Ma Tommaso credeva di scorgere nella gioia, nell’entusiasmo e nella certezza dei compagni, i segni di un’esaltazione fantastica, e perciò, alle loro insistenti affermazioni, rispose: Se non vedo nelle sue mani la ferita dei chiodi, e se non metto il mio dito al posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non credo.

Gesù appare di nuovo, presente Tommaso,
che è guarito dalla sua incredulità
Otto giorni dopo, i discepoli erano di nuovo tutti raccolti nella casa, e Tommaso era con loro. Forse pregavano; certo erano in un momento di raccoglimento nel quale era più facile la mozione della grazia.
Crediamo che Maria si trovasse con gli apostoli, e che fu proprio Lei ad implorare la grazia della conversione per Tommaso. Come Madre amorosa che prendeva cura attiva dei figli affidatile da Gesù, conobbe o fu addirittura presente al disorientamento di Tommaso, e supplicò il Figlio suo divino a sanarlo. A Lei dovette suscitare tanto dolore l’incredulità di un apostolo, e vide in essa la rappresentanza dell’incredulità dei diffidenti e presuntuosi nella fede.
Tommaso soprannominato Didimo – dice il Sacro Testo –, ossiagemello, era veramente come il fratello gemello dei miscredenti futuri, dei razionalisti che non ragionano, e soprattutto di quelli che non credono al soprannaturale, pretendendo toccarlo con mano. Maria ne era addoloratissima, poiché Ella sapeva, per esperienza, che non si compiono mai i disegni di Dio se non si crede, e santa Elisabetta aveva riconosciuto in questo il segreto della sua grandezza: Beata te che hai creduto, poiché così si compirà in te quello che ti è stato detto dal Signore (Lc 1,45). Maria, dunque, che vedeva Tommaso privo allora del dono dello Spirito Santo, della potestà che Gesù aveva data agli apostoli soffiando su di loro, Maria che lo vedeva immeschinito nella incredulità, sterpo sterilissimo e infecondo che dà solo spine, pregò Gesù che lo sanasse, e Gesù comparve di nuovo a porte chiuse.
Quale gioia per gli apostoli e quale sorpresa per Tommaso! Egli si voltò, lo vide, lo riconobbe: era Lui! Allibì per un momento, temette, si turbò, ma Gesù gli effuse subito nel cuore la serena tranquillità, dicendo: La pace sia con voi. La tracotanza di Tommaso fu in un momento fiaccata, e nel suo cuore cominciò a sorgere un tumulto d’amore e di umiliazione. Gesù lo chiamò a sé, e lo invitò a mettere il dito nelle sue piaghe e la mano nel suo costato, dicendogli con infinito amore: Non voler essere incredulo ma fedele.
Il Sacro Testo non dice se Tommaso abbia messo il dito e la mano nelle piaghe di Gesù, ma noi crediamo che il Redentore ve l’abbia costretto. A quella vista, a quel contatto, Tommaso si prostrò e, adorandolo, disse: Signor mio e Dio mio. Non poté dire altro: il cuore gli scoppiava dal dolore e dall'amore  la fede divampava in lui, l’abbandono era pieno nel suo Redentore e nel suo Dio. Ma Gesù soavemente lo rimproverò, per completare la grande lezione che voleva dare ai secoli futuri, dicendo: Perché hai visto, o Tommaso, hai creduto; beati coloro che non hanno visto e hanno creduto. Non è fede il credere perché si vede, ma il credere per l’autorità di Dio che parla per la Chiesa; è solo allora che l’anima riposa nella verità. Ogni propria constatazione può essere fallace, ogni esperienza personale può essere offuscata dalla fantasia, ogni propria persuasione può mutarsi col mutarsi delle circostanze che l’hanno formata; solo la parola di Dio è sicura, solo la voce della Chiesa ce la può accertare e solo credendo ciò che non si vede e non si tocca con mano si può dire di aver fede e di credere in verità veramente divine.
         Ciò che si tocca con mano è materiale, ciò che si vede con gli occhi appartiene alla terra; ora la fede ha per oggetto le cose eterne e soprannaturali. Dio può mostrarcele anche sensibilmente, ma Egli, in generale, lo fa solo con chi ha tanta fede da conversare nei cieli pur vivendo sulla terra. 
Servo di Dio Son Dolindo Ruotolo