Commento al Vangelo: II Domenica di Pasqua 2013 (Gv 20,19-31)
Domenica della Divina Misericordia
Gesù Cristo appare agli apostoli
Dopo che Pietro e
Giovanni tornarono dal sepolcro, e dopo il messaggio delle pie donne e della
Maddalena, cominciò a nascere negli apostoli un po’ di fede. Non era la fede profonda
e completa di chi crede a Dio che rivela, riguardando come somma ragione la sua
autorità, ma era come l’alba di questa fede, era come il rinascere di una
speranza che sembrava già morta, era come il primo rinverdirsi d’un ramo
spezzato dalla tempesta. Questo poco di fede, più naturale che soprannaturale
in quel momento, fu la disposizione che rese loro possibile la grazia della
rivelazione del Signore.
Essi erano in buona
fede, in fondo, poiché non avevano capito i tratti della Scrittura che
parlavano della risurrezione e non ricordavano ciò che, in proposito, aveva
detto loro Gesù; non rifiutavano di credere alla Parola di Dio positivamente,
ma s’erano come smarriti nel labirinto delle loro idee e delle loro
aspirazioni.
Il timore poi dei
Giudei aveva fatto nascere in loro, quasi inconsciamente, il desiderio di
sottrarsi, se fosse stato possibile, all’incanto e al fascino di ciò che in tre
anni avevano visto e ascoltato.
La paura è sempre
una pessima consigliera e, quando diventa panico, cerca ogni scappatoia per
sottrarsi al pericolo; se non in tutti gli apostoli e discepoli, almeno in
alcuni, subentrò un desiderio occulto di non pensare più al passato, di
abbracciare un tenore comune di vita, e ritornare alle loro occupazioni; ne
abbiamo un esempio nell’episodio dei discepoli di Emmaus, del quale parla san
Luca (24,13-35). Il timore si accrebbe negli apostoli per le stesse notizie che
riguardavano la risurrezione. Certamente il Corpo di Gesù non c’era più nel
sepolcro, e questo fece loro temere che le autorità li accusassero di averlo
essi sottratto, iniziando contro di loro una persecuzione; perciò stavano
guardinghi e tenevano ben chiuse le porte dove erano congregati. Ora, mentre
erano insieme, nella sera della stessa domenica della risurrezione, Gesù
Cristo, senza bisogno di farsi aprire, entrò improvvisamente in mezzo a loro e,
fermatosi, disse: La pace sia con voi.
Nella
sua misericordia e nel suo amore veniva per troncare la loro diffidenza, e per
mostrare la realtà della sua risurrezione. Perciò, passato il primo momento di
sbigottimento che si generò in loro a quella vista, li invitò ad avvicinarsi a
Lui, e mostrò loro le mani piagate e il costato aperto, affinché avessero avuto
un argomento sensibile della realtà del suo Corpo, e avessero constatato che
quello era proprio il Corpo crocifisso tre giorni prima sul Calvario.
Il Corpo risorto di
Cristo
e le
ombre penose della bellezza umana
Il momento fu
solenne, ed è difficile, per noi, formarcene una pallida idea.
Il Corpo di Gesù,
essendo risorto, era glorioso, e aveva quella dote che i teologi chiamano sottigliezza,
per la quale poteva attraversare gli ostacoli. Oggi questa dote è di più
facile comprensione, poiché ne abbiamo qualche analogia nelle onde radiofoniche
e nei raggi catodici che attraversano senza difficoltà ostacoli insormontabili
ai corpi. Il Corpo glorioso è come spiritualizzato, è come fluido, tutto luce e
tutto energia, e può attraversare gli ostacoli molto più che un’onda di radio.
Gesù Cristo apparve nella sera, quando già cominciavano le tenebre, tutto
rifulgente di luce nelle penombre della stanza dov’erano gli apostoli. Non irradiava
luce quasi fosse un sole, come può arguirsi da apparizioni di esseri
ultramondani, ma era Egli, come un corpo tutto splendente, luce placidissima
che non abbagliava.
Pietro, Giacomo e
Giovanni dovettero ricordare, allora, la scena della trasfigurazione che aveva
qualche somiglianza con ciò che vedevano. Gesù, ritto in piedi, era mirabilmente
bello: era Lui, ma immensamente più affascinante nella sua carne gloriosa. I
capelli erano nel fulgore della luce come onde d’oro, la fronte e il volto
erano candidi e rubicondi, fonte di gioia nella loro purissima bellezza; il
corpo era mirabilmente intonato, senz’alcuno di quegli angoli oscuri che ha
l’umana bellezza; maestoso, ma dolce e paterno, spirava amore da ogni parte, ed
era come giglio fragrante schiuso in una valle brumosa, perché emanava da Lui
quel tenue e soave profumo che spirava dalla carne gloriosa.
L’umana
bellezza e l’umana carne, anche quando sono avvolte in un alone di purezza,
hanno sempre qualche angolo oscuro e qualche lezzo di putrido, eccetto il caso
nel quale siano interamente vivificate dallo Spirito Santo. È un’illusione
pensare che una bellezza vivente o effigiata dal vero possa portarci a Dio,
fissandola con uno sguardo di curiosa esplorazione; essa ha sempre dei corti
circuiti che scaricano nella terra la corrente dell’amore divino che ferve
nell’anima. Una sola bellezza può fissarsi e sentirsene vivificati, ed è quella
che traluce dalla grazia di Dio; una sola bellezza può fissarsi e possedersi ed
è quella di Dio. Qualunque altra bellezza accende sempre una passione nei
sensi, dà un desiderio incosciente di possesso almeno ideale, è come vento che
solleva le onde e suscita le tempeste, è come forza che devia da Dio la
corrente del cuore.
Gesù,
ritto nella sala, vestito non di panni ma di gloria, era la bellezza purissima
che elevava l’anima a Dio, diffondeva gioia, pace, amore, e per questo il Sacro
Testo dice con parola mirabilmente sintetica: I discepoli, vedendo il
Signore, gioirono. Era la gioia della vita piena che emanava da Colui che
era la vita; era la pace che diffondeva Colui che era la verità, calmando le
ansie oscure dell’anima; era la contentezza che dava Colui che era come faro luminoso,
dal quale veniva tracciata la via del Cielo.
Gioirono i
discepoli nella gioia della purezza che spirava dal Corpo divino e, in quella
gioia, si estinsero in loro le povere fiamme della carne che ustionano
fastidiosamente il cuore e lo fanno stare tra le spine. Non c’è gioia più
grande della purezza integrale: è una gioia che nasce dall’amore di Dio che si
trasfonde nell’anima come luce di verità, come calore di carità, e come
complesso di bontà. In noi c’è sempre qualche cosa d’impuro, e qualunque gioia
spirituale è sempre turbata dalla nostra miseria; gli apostoli, nel vedere
Gesù, si sentirono puri e purificati, poiché Egli diffuse in loro una grande serenità,
e dicendo: La pace sia con voi, li avvolse in quella pace che spira da
Dio, Verità, Sapienza e Amore eterno.
Pace, tranquillità d’ordine, serena sicurezza,
riposo d’amore nell’eterno Amore!
A chi rimetterete i
peccati,
saranno rimessi…
Gioirono i discepoli,
ma nella gioia stessa provarono un senso di timore per le colpe che avevano
commesse, e per la sproporzione che sentivano col Signore glorioso; per questo,
Gesù, rassicurandoli, ripeté le dolci e vivificanti parole: La pace sia con
voi e, sollevandoli dalla loro profonda umiliazione interiore, soggiunse: Come
il Padre ha mandato me così io mando voi.
Con delicatezza
divina e con divina signorilità non volle che avessero sentito il peso della
loro inferiorità innanzi a Lui glorioso; gli ripugnava quasi che avessero
potuto stabilire un paragone fra loro peregrinanti e Lui trionfante e,
anticipando le grazie della Pentecoste e il momento nel quale diede loro la
pienezza della missione per la quale li aveva scelti, soffiò su di loro e
disse: Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi,
e a chi li riterrete saranno ritenuti. Gesù Cristo non fece loro una
promessa, ma diede loro veramente una comunicazione attuale dello Spirito
Santo, alla quale era annessa la facoltà di rimettere i peccati. Pur
ricevendosi una volta lo Spirito Santo – perché la sua comunicazione
sacramentale imprime il carattere –, Gesù Cristo volle darlo più volte ai suoi
prediletti, riserbandone loro una nuova pienezza nel giorno della Pentecoste.
Si direbbe che sta nelle sue abitudini di misericordia e di amore moltiplicare
e rinnovare i suoi doni a quelle anime che gli si danno con amore, ed hanno
fiducia nella sua generosità.
Dicendo: A chi
rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi li riterrete saranno ritenuti, Gesù
Cristo diede agli apostoli e ai loro successori la potestà giudiziale di
rimettere i peccati nel sacramento della Penitenza, com’è chiarissimo dal
Testo, e come dichiarò esplicitamente il Concilio di Trento (Sess. XIV, can.
3). Tutti i peccati, anche i più gravi, possono essere rimessi, ma debbono
essere sottoposti al giudizio del sacerdote con la confessione, perché il
rimetterli o ritenerli non è un atto di capriccio, ma è una sentenza
ragionevole che dipende da un giusto giudizio; tale giudizio non può farsi se
il peccatore non confessa i suoi peccati e se, confessandoli, non mostra le
disposizioni interiori che lo animano.
La Confessione dei
peccati non è un’imposizione umiliante e penosa benché a primo aspetto sembri
che sia così, e benché a volte abbia quasi questo sapore: è una concessione di
misericordia, fonte di pace e di gioia grande per il povero peccatore.
Sottoporre i propri peccati a chi rappresenta Dio significa mutare l’immondizia
in concime, il concime in pianta, in fiore, in frutto di eterna vita.
Confessarsi significa espandere l’anima propria, piangendo, nelle braccia
amorose di Dio, e assicurarsi del suo perdono che è dolcissima gioia, pienezza
di vita che fa sentire leggeri, leggeri, liberi dalle catene, tesi al volo
verso le ricchezze eterne.
Con divina
delicatezza Gesù anticipò agli apostoli la facoltà di rimettere i peccati, proprio
nel momento nel quale essi si sentivano maggiormente peccatori, rendendoli
giudici quando essi si aspettavano di essere giudicati. Egli volle rialzarli
dall’umiliazione e, nel medesimo tempo, volle dare loro i tesori della
misericordia quando essi maggiormente si sentivano poveri e peccatori, affinché
avessero compatito le miserie altrui. L’uomo ha cercato tutelare l’ordine
sociale con le leggi e i tribunali penali, con le carceri e persino con la
morte, ma non ha potuto far nulla per mutare l’anima del delinquente,
nonostante tutte le assistenze sociali ai carcerati. Solo Dio poteva erigere un
tribunale di amorosa misericordia che rinnova il cuore, dona la pace, eleva in
alto il peccatore e lo muta in un giusto e persino in un santo.
Gesù Cristo risana Tommaso dalla sua incredulità
Quando
Gesù apparve agli apostoli, Tommaso non era con loro. Di carattere più indipendente,
di volontà più ostinata, forse aveva creduto inutile starsene rinchiuso nel Cenacolo,
o forse anche era andato a sbrigare qualche faccenda. Era colui che meno aveva
creduto al messaggio delle pie donne e di Maria Maddalena, e può darsi che,
sentendone parlare e discutere, si fosse così disorientato e urtato, da
uscirsene. Per lui ormai era certo che Gesù era morto che le speranze riposte
in Lui erano fallite, e che ostinarsi ad attendere ancora eventi che gli
sembravano ormai impossibili era lo stesso che esporsi alla derisione e dar di
volta al cervello. Il suo disorientamento si accrebbe quando, al ritorno, seppe
dagli altri apostoli dell’apparizione di Gesù.
È evidente che gli
dovettero raccontare tutto minutamente, e che, al suo ostinarsi nel non
credere, dovettero ripetutamente fargli notare che essi avevano visto proprio
le ferite delle mani, dei piedi e del costato, e che non c’era dubbio che fosse
proprio Lui. Ma Tommaso credeva di scorgere nella gioia, nell’entusiasmo e
nella certezza dei compagni, i segni di un’esaltazione fantastica, e perciò,
alle loro insistenti affermazioni, rispose: Se non vedo nelle sue mani la
ferita dei chiodi, e se non metto il mio dito al posto dei chiodi e non metto
la mia mano nel suo costato, non credo.
Gesù appare di nuovo, presente Tommaso,
che è
guarito dalla sua incredulità
Otto giorni dopo, i
discepoli erano di nuovo tutti raccolti nella casa, e Tommaso era con loro.
Forse pregavano; certo erano in un momento di raccoglimento nel quale era più facile
la mozione della grazia.
Crediamo che Maria
si trovasse con gli apostoli, e che fu proprio Lei ad implorare la grazia della
conversione per Tommaso. Come Madre amorosa che prendeva cura attiva dei figli
affidatile da Gesù, conobbe o fu addirittura presente al disorientamento di Tommaso,
e supplicò il Figlio suo divino a sanarlo. A
Lei dovette suscitare tanto dolore l’incredulità di un apostolo, e vide in essa
la rappresentanza dell’incredulità dei diffidenti e presuntuosi nella fede.
Tommaso soprannominato
Didimo – dice il
Sacro Testo –, ossia gemello, era veramente come il fratello gemello dei
miscredenti futuri, dei razionalisti che non ragionano, e soprattutto di quelli
che non credono al soprannaturale, pretendendo toccarlo con mano. Maria ne era
addoloratissima, poiché Ella sapeva, per esperienza, che non si compiono mai i
disegni di Dio se non si crede, e santa Elisabetta aveva riconosciuto in questo
il segreto della sua grandezza: Beata te che hai creduto, poiché così si
compirà in te quello che ti è stato detto dal Signore (Lc 1,45). Maria,
dunque, che vedeva Tommaso privo allora del dono dello Spirito Santo, della
potestà che Gesù aveva data agli apostoli soffiando su di loro, Maria che lo
vedeva immeschinito nella incredulità, sterpo sterilissimo e infecondo che dà
solo spine, pregò Gesù che lo sanasse, e Gesù comparve di nuovo a porte chiuse.
Quale gioia per gli
apostoli e quale sorpresa per Tommaso! Egli si voltò, lo vide, lo riconobbe:
era Lui! Allibì per un momento, temette, si turbò, ma Gesù gli effuse subito
nel cuore la serena tranquillità, dicendo: La pace sia con voi. La
tracotanza di Tommaso fu in un momento fiaccata, e nel suo cuore cominciò a
sorgere un tumulto d’amore e di umiliazione. Gesù lo chiamò a sé, e lo invitò a
mettere il dito nelle sue piaghe e la mano nel suo costato, dicendogli con
infinito amore: Non voler essere incredulo ma fedele.
Il Sacro Testo non
dice se Tommaso abbia messo il dito e la mano nelle piaghe di Gesù, ma noi
crediamo che il Redentore ve l’abbia costretto. A quella vista, a quel
contatto, Tommaso si prostrò e, adorandolo, disse: Signor mio e Dio mio. Non
poté dire altro: il cuore gli scoppiava dal dolore e dall'amore la fede
divampava in lui, l’abbandono era pieno nel suo Redentore e nel suo Dio. Ma
Gesù soavemente lo rimproverò, per completare la grande lezione che voleva dare
ai secoli futuri, dicendo: Perché hai visto, o Tommaso, hai creduto; beati coloro che non hanno visto e hanno
creduto. Non è fede il credere perché si vede, ma il credere per l’autorità
di Dio che parla per la Chiesa; è solo allora che l’anima riposa nella verità.
Ogni propria constatazione può essere fallace, ogni esperienza personale può
essere offuscata dalla fantasia, ogni propria persuasione può mutarsi col
mutarsi delle circostanze che l’hanno formata; solo la parola di Dio è sicura,
solo la voce della Chiesa ce la può accertare e solo credendo ciò che non si
vede e non si tocca con mano si può dire di aver fede e di credere in verità
veramente divine.
Ciò che si tocca con mano è materiale, ciò che si vede con gli
occhi appartiene alla terra; ora la fede ha per oggetto le cose eterne e
soprannaturali. Dio può mostrarcele anche sensibilmente, ma Egli, in generale,
lo fa solo con chi ha tanta fede da conversare nei cieli pur vivendo sulla
terra.
Servo di Dio Son Dolindo Ruotolo