Commento
al Vangelo: III domenica di Quaresima 2014 A (Gv
4,5-42)
Gesù
incontra la samaritana
Camminando,
Gesù giunse in una città chiamata Sicar, identificata oggi con
Askar, non
lontana da Sichem, chiamata Napoli, capitale della Samaria, e si
fermò presso il pozzo famoso, scavato da Giacobbe, nella tenuta
lasciata in eredità al figlio Giuseppe. Sedette così,
alla buona, come
indica il testo greco, dissimulando la sua maestà, umilmente, preso
da un sentimento di compassione per le anime. Era quasi l’ora
sesta, nota l’evangelista, cioè quasi mezzogiorno. Per questa
circostanza di tempo, e per le altre particolarità del racconto,
alcuni suppongono che san Giovanni sia stato presente alla scena. Gli
altri discepoli, però, erano andati in città per comprare qualcosa
da mangiare, ed erano certamente assenti.
Mentre Gesù stava pensoso e
raccolto nei pressi del pozzo, ecco una donna samaritana, con
l’anfora in testa, che veniva ad attingere. Veniva da lontano
perché l’acqua fresca e sorgiva del pozzo l’attirava, e molto
più l’attirava la grazia che con delicata disposizione d’amore
la spingeva ad andare là dove avrebbe trovato la salvezza.
Gesù Cristo le rivolse la parola
e le disse: Dammi
da bere. Dal
vestito che indossava e dalla pronuncia delle parole, la donna si
accorse subito che Egli era un Giudeo e, meravigliandosi che le
domandasse da bere, perché i Giudei aborrivano i Samaritani, gli
disse: Come mai
tu che sei un Giudeo, chiedi da bere a me che sono samaritana?
Psicologicamente,
non osò dire la frase opposta: Come
posso darti da bere se tu sei un Giudeo? perché
sentiva, inconsciamente, la propria inferiorità innanzi a Gesù, e
perché quel volto divino e bellissimo, dai lineamenti regali e
dall’occhio splendentemente ceruleo, l’aveva già conquisa.
Proprio perché peccatrice, la poveretta aveva un profondo senso di
umiliazione interiore che le facilitò il non considerare Gesù col
solito disprezzo dei Samaritani, e il guardarlo con rispettosa
venerazione.
Era ancora lontana dal supporre
chi Egli fosse, ma si accorse subito di trovarsi innanzi ad un
giusto. La santità spirava da Lui, ed ella si sentì meschina.
Dimenticando quindi la fierezza con la quale i Samaritani sprezzavano
i Giudei, si stupì piuttosto che quel
Giudeo le
domandasse da bere. È una sottigliezza psicologica che ci fa capire
il processo misericordioso della grazia nel convertirla.
Gesù le rispose con infinita
amabilità: Se tu
conoscessi il dono di Dio, e chi è Colui che ti dice: Dammi da bere,
tu stessa gliene avresti chiesto, ed Egli ti avrebbe dato l’acqua
viva. Con queste
parole cercò rendere cosciente il sentimento subcosciente di
devozione e di umiltà che era sorto nella donna, e volle cominciare
a farle intendere che ella si trovava innanzi ad un essere non
semplicemente buono, ma straordinario. La donna prese le parole alla
lettera, e vedendo che Gesù mancava dell’anfora o hauritorium
che portavano i
viaggiatori per poter attingere acqua lungo il cammino, avendola
portata con loro gli apostoli, rispose: Signore,
tu non hai come attingere, e il pozzo è profondo; dove hai tu dunque
l’acqua viva? Gli
Ebrei chiamavano acqua
viva l’acqua
di sorgente, in contrapposizione all’acqua stagnante; la donna,
però, aveva sentito nell’anima, in quella promessa dell’acqua
viva, qualche cosa che non era propriamente l’acqua del pozzo;
inconsciamente e forse anche coscientemente, aveva sentito che si
trattava di un dono e non dell’acqua. Essendo molto scaltra, però,
come si rileva da tutto il racconto, volle indagarlo senza mostrare
d’averlo capito, affinché Gesù stesso glielo avesse spiegato.
Perciò lo pose in contrapposizione col patriarca Giacobbe che aveva
scavato quel pozzo, e gli domandò, dissimulando la propria
impressione: Sei
tu forse di più di Giacobbe nostro Padre, il quale diede a noi
questo pozzo, e ne bevve egli stesso, i suoi figli e il suo bestiame?
La donna porta spesso nei suoi
atti una sconcertante vanità, anche quando si trova in momenti
penosi della sua vita. Se si osserva, per esempio, un drappello di
donne reclutate per la guerra, esse hanno nelle loro movenze, nei
loro gesti, nel loro sguardo qualche cosa che pretende d’interessare.
Questa vanità nasce o dalla
presunzione del suo ingegno o da quella della sua bellezza o, peggio,
dalla persuasione di poter sconcertare una testa più o meno di
zucca.
La samaritana, avendo avuto
cinque mariti, e convivendo con uno che non le apparteneva, aveva
dovuto essere un tipo interessante dal punto di vista materiale, ed
era abituata a sentirsi corteggiata. Non è improbabile che, almeno
inconsciamente, le sia passato nell’animo che quel forestiero
giudeo cercasse modo d’intavolare un discorso con lei, per
passatempo; perciò Gesù la sollevò subito ad un pensiero di cielo,
mostrandole così che parlava per un fine spirituale: Chi
beve di quest’acqua –
disse –,
tornerà ad aver
sete, chi invece beve dell’acqua che io gli darò non avrà più
sete in eterno; anzi l’acqua che gli darò, diventerà in lui una
sorgente d’acqua zampillante fino alla vita eterna.
Un accenno così improvviso
all’eterno orizzonte dei cieli, per una donna di facili costumi,
era una stonatura. «Dove andava il suo interlocutore – dovette
pensare –, col suo discorso? Che cos’è l’acqua spirituale che
disseta e porta al Cielo, se viviamo di senso e ci dissetiamo solo ai
piaceri?». Perciò prendendo in giro il suo interlocutore, rispose
con evidente ironia, per stornare il discorso da un argomento che la
scottava: Signore,
dammi di quest’acqua, affinché io non abbia più sete né venga
più ad attingerne. Parlò
così per evitare un discorso spirituale che le suscitava rimorsi, e
Gesù con un lampo divino di luce la richiamò proprio alla
considerazione dello stato deplorevole della sua vita disordinata,
dicendo: Va’,
chiama tuo marito e torna qua. La
donna ne fu sconcertata, perché la parola di Gesù le penetrò in
fondo all’anima; ma, dissimulando il suo turbamento, rispose con
aria indifferente: Io
non ho marito. E
Gesù, mostrando di conoscere appieno la vita di lei, soggiunse: Hai
detto bene: Non ho marito, perché hai avuto cinque mariti, e quello
che hai adesso non è tuo marito; in questo hai detto il vero. Se
aveva detto il vero allora, è chiaro che prima, domandando l’acqua
dissetante, aveva mentito, ed aveva parlato solo per ironia.
Signore,
vedo che sei un profeta,
ma…
la questione del tempio…
Il discorso aveva preso per la
donna una piega sconcertante; ella, scaltramente, cercò di deviarlo,
portando Gesù su un argomento che per un giudeo doveva essere
scottante, e doveva attrarne tutta l’attenzione. Ella, però, non
poté trattenersi da un’espressione di meraviglia per quello che le
aveva detto e, per non mostrarsi inceppata o confusa, esclamò, quasi
per fargli un complimento: Signore,
vedo che sei un profeta. Era
un’espressione ambigua, con la quale non affermava né negava
quello che Gesù le aveva detto; era una lode che poteva pure
significare: «Tu parli come un profeta, vuoi indovinare ciò che è
in me, vuoi scrutarmi». Per una samaritana, infatti, un profeta non
era che un indovino, poiché quel popolo viveva di superstizioni. Se
ella avesse avuto un vero sentimento di stima soprannaturale per
Gesù, e se fosse stata compunta nel suo cuore, avrebbe domandato
perdono dei propri peccati, e lo avrebbe supplicato ad ottenerglielo
da Dio.
Sviando dunque il discorso, la
donna soggiunse: I
nostri padri hanno adorato Dio su questo monte, e voi dite che il
luogo dove bisogna adorare è Gerusalemme. Dicendo
questo, ella, inconsciamente, prendeva una rivincita per
l’umiliazione subita nel vedersi svelate le proprie colpe. Non
domandò, infatti, a Gesù la soluzione della gravissima questione,
ma parlò come chi è sicuro di aver ragione, quasi per dire: «Ecco,
voi dite che bisogna adorare in Gerusalemme, mentre i nostri padri
hanno adorato qui il Signore».
A poca distanza di là, a Sichem,
Abramo aveva eretto al Signore della promessa e della rivelazione un
altare (cf Gen
12,6-7); Giacobbe vi aveva pregato, e Giosuè aveva eretto un altare
sulla cima del monte Ebal, immolandovi numerose vittime (cf Gs
8,30). Sul monte Garizim, poi che sorge presso il pozzo di Giacobbe,
al tempo di Neemia, i Samaritani, visto rifiutato dai Giudei il loro
concorso all’edificazione del tempio di Gerusalemme, ne edificarono
un altro, distrutto poi dal sommo sacerdote Giovanni Ircano I,
e da allora
riguardarono sempre il Garizim come centro del loro culto.
La samaritana, perciò, lungi dal
domandare a Gesù la soluzione del problema, credé di poter
affermare che l’opinione dei suoi connazionali era fondata su
valide ragioni, e che i Giudei erravano.
Adorerete
il Padre in spirito e verità
Il Signore, aprendole un nuovo
orizzonte, rispose con grande maestà: Credimi,
o donna,
che è venuta l’ora in cui né su questo monte né in Gerusalemme
adorerete il Padre. Voi adorate quello che non conoscete, noi
adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei.
Ma viene il tempo, anzi è proprio ora, in cui veri adoratori
adoreranno il Padre in spirito e verità. Tali adoratori, infatti, il
Padre ricerca. Dio è spirito e quelli che l’adorano lo debbono
adorare in spirito e verità.
Questo discorso non era solo per
quella donna ma per tutti quelli ai quali sarebbe stato annunciato, e
troncava dalle fondamenta la questione tra Samaritani e Giudei. Non
era il luogo, infatti che poteva dar valore all’adorazione fatta a
Dio da un’anima, ma era lo spirito col quale si faceva.
Per adorare Dio bisogna conoscere
la verità, accettarla, crederla, praticarla, e proclamarne la
gloria. Andare al Garizim o a Gerusalemme non significava conoscere,
apprezzare e amare Dio.
I Samaritani, infatti,
accettavano solo il Pentateuco e rifiutavano il resto dei Libri
Sacri; avevano una rivelazione incompleta, e ignoravano Colui che
adoravano; i Giudei riconoscevano, invece, tutte le Scritture, e
avevano, almeno teoricamente, tutto il sacro patrimonio. Essi, poi,
soprattutto, erano eredi della grande promessa del Redentore che da
essi doveva nascere. L’argomento era fortissimo e non ammetteva
repliche: se i Giudei avevano tutta la rivelazione e da essi doveva
nascere il Redentore, i Samaritani non potevano presumere di essere
ad essi superiori, e tanto meno che possedessero il privilegio unico
di adorare Dio.
Ma v’è di più – soggiunse
Gesù –, poiché non si tratta neppure di vedere se si debba
adorare in un luogo o in un altro né di attribuire ad un popolo solo
il privilegio della conoscenza e dell’adorazione di Dio; è venuto
già il tempo del regno universale di Dio su tutta la terra, il tempo
nel quale si adorerà Dio come Padre di tutti gli uomini, in
spirito e verità,
cioè con
adorazione interna, oltre che esterna, fondata non su di un semplice
rito, ma sulla verità, poiché questo solo onora Dio che è spirito
infinitamente esistente, infinita verità e infinito amore. Finisce
l’adorazione simbolica e figurata, in altri termini, fatta con riti
che annunciavano solo il futuro e figuravano la vera Vittima, e
comincia l’adorazione vera, fondata sul compimento delle figure,
dei simboli e della grande promessa.
Gesù Cristo non voleva
condannare il culto esterno – com’è evidente dal contesto –,
ma voleva contrapporre, al culto divino puramente esterno e
simbolico, quello interno e reale, ai riti freddamente legali
l’adorazione fatta per mezzo di Lui, eterna sapienza, e dello
Spirito Santo, eterno Amore. Dio è Spirito infinito – volle dire
Gesù –, e l’adorazione che richiede e gli è proporzionata è
quella che gli viene per il Verbo Incarnato e per lo Spirito Santo;
non bisogna, dunque, credere che il Garizim o Gerusalemme possano
avere il privilegio di essere unici centri di adorazione, ma bisogna
unirsi al Redentore e con Lui nello Spirito Santo, adorare Dio.
Il modo come Gesù parlò fu così
solenne e luminoso che la donna cominciò a vedere in Lui un essere
straordinario. Anche i Samaritani aspettavano il Messia, da essi
chiamato il Taheb,
cioè colui
che ristabilisce e
a lei venne il sospetto che potesse essere proprio Lui; per
accertarsene disse, quasi nel tono indifferente di chi chiude una
discussione: Io
so che viene il Messia; quando, dunque, Egli verrà ci annuncerà
ogni cosa.
Gesù le disse
in un fulgore di luminosa verità che dava alle sue parole l’accento
della certezza più assoluta: Sono
io che ti parlo.
Don Dolindo Ruotolo
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