Commento al Vangelo: II Domenica di Pasqua 2016 (Gv 20,19-31)
Domenica della Divina Misericordia
Gesù Cristo appare agli apostoli
Dopo che Pietro e Giovanni tornarono dal sepolcro, e dopo il messaggio delle pie donne e della Maddalena, cominciò a nascere negli apostoli un po’ di fede. Non era la fede profonda e completa di chi crede a Dio che rivela, riguardando come somma ragione la sua autorità, ma era come l’alba di questa fede, era come il rinascere di una speranza che sembrava già morta, era come il primo rinverdirsi d’un ramo spezzato dalla tempesta. Questo poco di fede, più naturale che soprannaturale in quel momento, fu la disposizione che rese loro possibile la grazia della rivelazione del Signore.
Essi erano in buona fede, in fondo, poiché non avevano capito i tratti della Scrittura che parlavano della risurrezione e non ricordavano ciò che, in proposito, aveva detto loro Gesù; non rifiutavano di credere alla Parola di Dio positivamente, ma s’erano come smarriti nel labirinto delle loro idee e delle loro aspirazioni.
Il timore poi dei Giudei aveva fatto nascere in loro, quasi inconsciamente, il desiderio di sottrarsi, se fosse stato possibile, all’incanto e al fascino di ciò che in tre anni avevano visto e ascoltato.
La paura è sempre una pessima consigliera e, quando diventa panico, cerca ogni scappatoia per sottrarsi al pericolo; se non in tutti gli apostoli e discepoli, almeno in alcuni, subentrò un desiderio occulto di non pensare più al passato, di abbracciare un tenore comune di vita, e ritornare alle loro occupazioni; ne abbiamo un esempio nell’episodio dei discepoli di Emmaus, del quale parla san Luca (24,13-35). Il timore si accrebbe negli apostoli per le stesse notizie che riguardavano la risurrezione. Certamente il Corpo di Gesù non c’era più nel sepolcro, e questo fece loro temere che le autorità li accusassero di averlo essi sottratto, iniziando contro di loro una persecuzione; perciò stavano guardinghi e tenevano ben chiuse le porte dove erano congregati. Ora, mentre erano insieme, nella sera della stessa domenica della risurrezione, Gesù Cristo, senza bisogno di farsi aprire, entrò improvvisamente in mezzo a loro e, fermatosi, disse: La pace sia con voi.
Nella sua misericordia e nel suo amore veniva per troncare la loro diffidenza, e per mostrare la realtà della sua risurrezione. Perciò, passato il primo momento di sbigottimento che si generò in loro a quella vista, li invitò ad avvicinarsi a Lui, e mostrò loro le mani piagate e il costato aperto, affinché avessero avuto un argomento sensibile della realtà del suo Corpo, e avessero constatato che quello era proprio il Corpo crocifisso tre giorni prima sul Calvario.
Il Corpo risorto di Cristo
e le ombre penose della bellezza umana
Il momento fu solenne, ed è difficile, per noi, formarcene una pallida idea.
Il Corpo di Gesù, essendo risorto, era glorioso, e aveva quella dote che i teologi chiamano sottigliezza, per la quale poteva attraversare gli ostacoli. Oggi questa dote è di più facile comprensione, poiché ne abbiamo qualche analogia nelle onde radiofoniche e nei raggi catodici che attraversano senza difficoltà ostacoli insormontabili ai corpi. Il Corpo glorioso è come spiritualizzato, è come fluido, tutto luce e tutto energia, e può attraversare gli ostacoli molto più che un’onda di radio. Gesù Cristo apparve nella sera, quando già cominciavano le tenebre, tutto rifulgente di luce nelle penombre della stanza dov’erano gli apostoli. Non irradiava luce quasi fosse un sole, come può arguirsi da apparizioni di esseri ultramondani, ma era Egli, come un corpo tutto splendente, luce placidissima che non abbagliava.
Pietro, Giacomo e Giovanni dovettero ricordare, allora, la scena della trasfigurazione che aveva qualche somiglianza con ciò che vedevano. Gesù, ritto in piedi, era mirabilmente bello: era Lui, ma immensamente più affascinante nella sua carne gloriosa. I capelli erano nel fulgore della luce come onde d’oro, la fronte e il volto erano candidi e rubicondi, fonte di gioia nella loro purissima bellezza; il corpo era mirabilmente intonato, senz’alcuno di quegli angoli oscuri che ha l’umana bellezza; maestoso, ma dolce e paterno, spirava amore da ogni parte, ed era come giglio fragrante schiuso in una valle brumosa, perché emanava da Lui quel tenue e soave profumo che spirava dalla carne gloriosa.
L’umana bellezza e l’umana carne, anche quando sono avvolte in un alone di purezza, hanno sempre qualche angolo oscuro e qualche lezzo di putrido, eccetto il caso nel quale siano interamente vivificate dallo Spirito Santo. È un’illusione pensare che una bellezza vivente o effigiata dal vero possa portarci a Dio, fissandola con uno sguardo di curiosa esplorazione; essa ha sempre dei corti circuiti che scaricano nella terra la corrente dell’amore divino che ferve nell’anima. Una sola bellezza può fissarsi e sentirsene vivificati, ed è quella che traluce dalla grazia di Dio; una sola bellezza può fissarsi e possedersi ed è quella di Dio. Qualunque altra bellezza accende sempre una passione nei sensi, dà un desiderio incosciente di possesso almeno ideale, è come vento che solleva le onde e suscita le tempeste, è come forza che devia da Dio la corrente del cuore.
Gesù, ritto nella sala, vestito non di panni ma di gloria, era la bellezza purissima che elevava l’anima a Dio, diffondeva gioia, pace, amore, e per questo il Sacro Testo dice con parola mirabilmente sintetica: I discepoli, vedendo il Signore, gioirono. Era la gioia della vita piena che emanava da Colui che era la vita; era la pace che diffondeva Colui che era la verità, calmando le ansie oscure dell’anima; era la contentezza che dava Colui che era come faro luminoso, dal quale veniva tracciata la via del Cielo.
Gioirono i discepoli nella gioia della purezza che spirava dal Corpo divino e, in quella gioia, si estinsero in loro le povere fiamme della carne che ustionano fastidiosamente il cuore e lo fanno stare tra le spine. Non c’è gioia più grande della purezza integrale: è una gioia che nasce dall’amore di Dio che si trasfonde nell’anima come luce di verità, come calore di carità, e come complesso di bontà. In noi c’è sempre qualche cosa d’impuro, e qualunque gioia spirituale è sempre turbata dalla nostra miseria; gli apostoli, nel vedere Gesù, si sentirono puri e purificati, poiché Egli diffuse in loro una grande serenità, e dicendo: La pace sia con voi, li avvolse in quella pace che spira da Dio, Verità, Sapienza e Amore eterno.
Pace, tranquillità d’ordine, serena sicurezza, riposo d’amore nell’eterno Amore!
A chi rimetterete i peccati,
saranno rimessi…
Gioirono i discepoli, ma nella gioia stessa provarono un senso di timore per le colpe che avevano commesse, e per la sproporzione che sentivano col Signore glorioso; per questo, Gesù, rassicurandoli, ripeté le dolci e vivificanti parole: La pace sia con voi e, sollevandoli dalla loro profonda umiliazione interiore, soggiunse: Come il Padre ha mandato me così io mando voi.
Con delicatezza divina e con divina signorilità non volle che avessero sentito il peso della loro inferiorità innanzi a Lui glorioso; gli ripugnava quasi che avessero potuto stabilire un paragone fra loro peregrinanti e Lui trionfante e, anticipando le grazie della Pentecoste e il momento nel quale diede loro la pienezza della missione per la quale li aveva scelti, soffiò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi li riterrete saranno ritenuti. Gesù Cristo non fece loro una promessa, ma diede loro veramente una comunicazione attuale dello Spirito Santo, alla quale era annessa la facoltà di rimettere i peccati. Pur ricevendosi una volta lo Spirito Santo – perché la sua comunicazione sacramentale imprime il carattere –, Gesù Cristo volle darlo più volte ai suoi prediletti, riserbandone loro una nuova pienezza nel giorno della Pentecoste. Si direbbe che sta nelle sue abitudini di misericordia e di amore moltiplicare e rinnovare i suoi doni a quelle anime che gli si danno con amore, ed hanno fiducia nella sua generosità.
Dicendo: A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi li riterrete saranno ritenuti, Gesù Cristo diede agli apostoli e ai loro successori la potestà giudiziale di rimettere i peccati nel sacramento della Penitenza, com’è chiarissimo dal Testo, e come dichiarò esplicitamente il Concilio di Trento (Sess. XIV, can. 3). Tutti i peccati, anche i più gravi, possono essere rimessi, ma debbono essere sottoposti al giudizio del sacerdote con la confessione, perché il rimetterli o ritenerli non è un atto di capriccio, ma è una sentenza ragionevole che dipende da un giusto giudizio; tale giudizio non può farsi se il peccatore non confessa i suoi peccati e se, confessandoli, non mostra le disposizioni interiori che lo animano.
La Confessione dei peccati non è un’imposizione umiliante e penosa benché a primo aspetto sembri che sia così, e benché a volte abbia quasi questo sapore: è una concessione di misericordia, fonte di pace e di gioia grande per il povero peccatore. Sottoporre i propri peccati a chi rappresenta Dio significa mutare l’immondizia in concime, il concime in pianta, in fiore, in frutto di eterna vita. Confessarsi significa espandere l’anima propria, piangendo, nelle braccia amorose di Dio, e assicurarsi del suo perdono che è dolcissima gioia, pienezza di vita che fa sentire leggeri, leggeri, liberi dalle catene, tesi al volo verso le ricchezze eterne.
Con divina delicatezza Gesù anticipò agli apostoli la facoltà di rimettere i peccati, proprio nel momento nel quale essi si sentivano maggiormente peccatori, rendendoli giudici quando essi si aspettavano di essere giudicati. Egli volle rialzarli dall’umiliazione e, nel medesimo tempo, volle dare loro i tesori della misericordia quando essi maggiormente si sentivano poveri e peccatori, affinché avessero compatito le miserie altrui. L’uomo ha cercato tutelare l’ordine sociale con le leggi e i tribunali penali, con le carceri e persino con la morte, ma non ha potuto far nulla per mutare l’anima del delinquente, nonostante tutte le assistenze sociali ai carcerati. Solo Dio poteva erigere un tribunale di amorosa misericordia che rinnova il cuore, dona la pace, eleva in alto il peccatore e lo muta in un giusto e persino in un santo.
Gesù Cristo risana Tommaso dalla sua incredulità
Quando Gesù apparve agli apostoli, Tommaso non era con loro. Di carattere più indipendente, di volontà più ostinata, forse aveva creduto inutile starsene rinchiuso nel Cenacolo, o forse anche era andato a sbrigare qualche faccenda. Era colui che meno aveva creduto al messaggio delle pie donne e di Maria Maddalena, e può darsi che, sentendone parlare e discutere, si fosse così disorientato e urtato, da uscirsene. Per lui ormai era certo che Gesù era morto che le speranze riposte in Lui erano fallite, e che ostinarsi ad attendere ancora eventi che gli sembravano ormai impossibili era lo stesso che esporsi alla derisione e dar di volta al cervello. Il suo disorientamento si accrebbe quando, al ritorno, seppe dagli altri apostoli dell’apparizione di Gesù.
È evidente che gli dovettero raccontare tutto minutamente, e che, al suo ostinarsi nel non credere, dovettero ripetutamente fargli notare che essi avevano visto proprio le ferite delle mani, dei piedi e del costato, e che non c’era dubbio che fosse proprio Lui. Ma Tommaso credeva di scorgere nella gioia, nell’entusiasmo e nella certezza dei compagni, i segni di un’esaltazione fantastica, e perciò, alle loro insistenti affermazioni, rispose: Se non vedo nelle sue mani la ferita dei chiodi, e se non metto il mio dito al posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non credo.
Gesù appare di nuovo, presente Tommaso,
che è guarito dalla sua incredulità
Otto giorni dopo, i discepoli erano di nuovo tutti raccolti nella casa, e Tommaso era con loro. Forse pregavano; certo erano in un momento di raccoglimento nel quale era più facile la mozione della grazia.
Crediamo che Maria si trovasse con gli apostoli, e che fu proprio Lei ad implorare la grazia della conversione per Tommaso. Come Madre amorosa che prendeva cura attiva dei figli affidatile da Gesù, conobbe o fu addirittura presente al disorientamento di Tommaso, e supplicò il Figlio suo divino a sanarlo. A Lei dovette suscitare tanto dolore l’incredulità di un apostolo, e vide in essa la rappresentanza dell’incredulità dei diffidenti e presuntuosi nella fede.
Tommaso soprannominato Didimo – dice il Sacro Testo –, ossiagemello, era veramente come il fratello gemello dei miscredenti futuri, dei razionalisti che non ragionano, e soprattutto di quelli che non credono al soprannaturale, pretendendo toccarlo con mano. Maria ne era addoloratissima, poiché Ella sapeva, per esperienza, che non si compiono mai i disegni di Dio se non si crede, e santa Elisabetta aveva riconosciuto in questo il segreto della sua grandezza: Beata te che hai creduto, poiché così si compirà in te quello che ti è stato detto dal Signore (Lc 1,45). Maria, dunque, che vedeva Tommaso privo allora del dono dello Spirito Santo, della potestà che Gesù aveva data agli apostoli soffiando su di loro, Maria che lo vedeva immeschinito nella incredulità, sterpo sterilissimo e infecondo che dà solo spine, pregò Gesù che lo sanasse, e Gesù comparve di nuovo a porte chiuse.
Quale gioia per gli apostoli e quale sorpresa per Tommaso! Egli si voltò, lo vide, lo riconobbe: era Lui! Allibì per un momento, temette, si turbò, ma Gesù gli effuse subito nel cuore la serena tranquillità, dicendo: La pace sia con voi. La tracotanza di Tommaso fu in un momento fiaccata, e nel suo cuore cominciò a sorgere un tumulto d’amore e di umiliazione. Gesù lo chiamò a sé, e lo invitò a mettere il dito nelle sue piaghe e la mano nel suo costato, dicendogli con infinito amore: Non voler essere incredulo ma fedele.
Il Sacro Testo non dice se Tommaso abbia messo il dito e la mano nelle piaghe di Gesù, ma noi crediamo che il Redentore ve l’abbia costretto. A quella vista, a quel contatto, Tommaso si prostrò e, adorandolo, disse: Signor mio e Dio mio. Non poté dire altro: il cuore gli scoppiava dal dolore e dall'amore la fede divampava in lui, l’abbandono era pieno nel suo Redentore e nel suo Dio. Ma Gesù soavemente lo rimproverò, per completare la grande lezione che voleva dare ai secoli futuri, dicendo: Perché hai visto, o Tommaso, hai creduto; beati coloro che non hanno visto e hanno creduto. Non è fede il credere perché si vede, ma il credere per l’autorità di Dio che parla per la Chiesa; è solo allora che l’anima riposa nella verità. Ogni propria constatazione può essere fallace, ogni esperienza personale può essere offuscata dalla fantasia, ogni propria persuasione può mutarsi col mutarsi delle circostanze che l’hanno formata; solo la parola di Dio è sicura, solo la voce della Chiesa ce la può accertare e solo credendo ciò che non si vede e non si tocca con mano si può dire di aver fede e di credere in verità veramente divine.
Ciò che si tocca con mano è materiale, ciò che si vede con gli occhi appartiene alla terra; ora la fede ha per oggetto le cose eterne e soprannaturali. Dio può mostrarcele anche sensibilmente, ma Egli, in generale, lo fa solo con chi ha tanta fede da conversare nei cieli pur vivendo sulla terra.
Servo di Dio Son Dolindo Ruotolo
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