Commento al Vangelo: VI Domenica di Pasqua C 2016 (Gv 14,23-29)
Sugli errori circa la salvezza e lasantificazione
Gli apostoli credevano che Gesù dovesse invece manifestarsi gloriosamente e politicamente al mondo, in un’affermazione di dominio temporale, ed erano certi che tutta l’opposizione che gli faceva il sinedrio si sarebbe conclusa in uno smacco vergognoso. Ora, sentendo parlare di una sua manifestazione all’anima, nel misterioso silenzio dell’amore, se ne stupirono, e perciò Giuda, chiamato Taddeo o Sebbeo, gli domandò a nome di tutti: Signore, come avviene che manifesterai te stesso a noi e non al mondo? Questo apostolo capì che Gesù parlava di una manifestazione interiore alle anime e, non supponendo che potesse parlare di altri fuori che loro, chiese che cosa fosse avvenuto di nuovo per cui Egli riduceva il suo trionfo ad una semplice illuminazione fatta nell’intimità del loro piccolo gruppo.
Per questo Gesù ritornò sul grande concetto di un trionfo interiore di Dio nelle anime, e soggiunse: Se uno mi ama osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e verremo a lui e faremo dimora presso di lui. Ecco, in sintesi luminosa, l’essenza del trionfo di Dio: abitare da Re trionfante, con la magnificenza della sua gloria, Uno e Trino, nell’anima che, amandolo, compie la sua volontà e gli si dona.
Dicendo questo, Gesù guardò quegli eretici illusi che avrebbero preteso stabilire con Lui e con Dio un’intimità di grazia senza compiere il bene, e che avrebbero preteso glorificarlo con una sterile fede e con una tracotante fiducia; perciò, per eliminare ogni equivoco, soggiunse: Chi non mi ama così, non osserva la mia parola, e quindi chi non osserva la mia parola non mi ama; ora laparola mia che v’impone di amare osservando i miei comandamenti,non è mia, ma del Padre che mi ha mandato; non è un modo di vedere qualunque o un’opinione cioè, ma risponde al medesimo disegno di Dio nella salvezza delle anime; è un comando di Dio, una Legge che non può né avere eccezione né essere deformata da pensiero umano.
Rispondendo all’apostolo Giuda Taddeo, Gesù proclamò un grande principio che da solo basta a dissipare le oscure nebbie degli errori protestanti sulla salvezza e sulla santificazione, e da solo c’impegna ad essere veramente anime amanti di Dio.
Il trionfo di Dio in noi non consiste in uno sterile trionfo di misericordia che ci trascina, inerti e lerci come siamo, nel suo regno; ma è un trionfo d’amore che risponde al nostro amore, e ci rende capaci di operare soprannaturalmente o – come dicono i teologi –, ci abilita a fare atti deiformi. Si noti l’abisso che corre tra la verità e l’errore; questo afferma l’inutilità di operare il bene, anzi l’utilità di operare il male, presumendo così di glorificare la grazia che salva, e la verità, invece, proclama che Dio, andando incontro all’anima che l’ama e osserva fedelmente i suoi comandamenti, abita in lei nella gloria della sua Trinità, e produce in lei un organismo soprannaturale che, soprannaturalizzando l’anima, l’abilita a fare atti deiformi.
La vita cristiana, infatti, è una partecipazione alla vita stessa di Dio, ed è evidente che Egli solo la può conferire; ora, Egli ce la conferisce venendo ad abitare nelle anime nostre e dandosi interamente a noi affinché possiamo rendergli i nostri ossequi e lasciarci docilmente guidare da Lui a praticare le disposizioni e le virtù di Gesù Cristo. Questa mirabile abitazione della Santissima Trinità in noi si attua quando noi amiamo Gesù, e noi lo amiamo principalmente quando gli chiediamo perdono dei nostri peccati attraverso il sacramento della Penitenza e quando ci comunichiamo eucaristicamente con Lui sacramentato. Andiamo da Lui per amore, e perché lo amiamo il Padre ci ama; siamo da Lui attivati soprannaturalmente, e diventiamo tempio vivo della Santissima Trinità che, vivendo in noi, rende deiformi le nostre azioni con la grazia. Dio ci adotta come figli, non per una semplice finzione giuridica, com’è l’adozione legale, ma elargendo a coloro che credono nel suo Verbo la divina filiazione: diede il potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome (Gv 1,12). Questa filiazione non è nominale ma effettiva: affinché siamo chiamati figli di Dio (1Gv 3,1) noi entriamo in possesso della divina natura. Questa vita divina è certamente in noi soltanto una partecipazione e una somiglianza che fa di noi non degli dèi, ma degli esseri deiformi; ma è anche una realtà, una vita nuova, non uguale, ma simile a quella di Dio.
Nelle incomprensioni, affidarsi ai lumi dello Spirito Santo.
Gli apostoli si mostrarono un po’ disorientati alle parole di Gesù; non le comprendevano appieno e non sapevano come metterle in pratica. Gesù, però, non parlava perché avessero praticato tutto ciò che diceva allora stesso, né parlava solo per loro: si rivolgeva a tutti gli uomini e alla sua Chiesa futura, della quale essi erano le primizie; non dovevano dunque turbarsi per la loro incomprensione attuale, ma aspettare con fiducia le illuminazioni dello Spirito Santo. La santità, infatti, non è un edificio morto che si eleva a via d’industrie, ma è come il germinare, il crescere, il fiorire e il fruttificare di una pianta che si compie sotto i raggi del sole, per vita interna. L’anima è istruita da chi la guida, ed ha l’impressione di dimenticare tutto ciò che ascolta né sa vedere come possa metterlo in pratica. Ciò che ascolta, però, non è una lezione ma una semina, non è uno studio arido di problemi spirituali o psicologici, ma è come l’aprirsi di un orizzonte e il delinearsi di una strada, a percorrere la quale occorre, poi, la guida e il veicolo.
L’anima, quasi sempre, come avveniva anche agli apostoli, dimentica ciò che ascolta o ciò che legge e, povera com’è, non sa come cominciare e proseguire il suo cammino di perfezione. Essa non deve disorientarsi, o stillarsi il cervello ma, offrendosi tutta a Dio, deve confidare nei lumi dello Spirito Santo. È proprio quello che Gesù disse agli apostoli: Queste cose vi ho detto mentre mi trovavo ancora in mezzo a voi; cioè, voleva dire, io vi ho detto molte cose per profittare del tempo nel quale sono con voi, ma voi non vi preoccupate di non ricordarle, o di ricordarle in parte; verrà poi lo Spirito Santo che il Padre manderà nel nome mio, ed Egli vi insegnerà ogni cosa, spiegandovi quello che non avete capito, e vi ricorderà, a mano a mano che vi occorrerà, tutto quello che vi ho detto, e che avete dimenticato.
Questa soave provvidenza nella formazione e nella perfezione dell’anima possiamo constatarla continuamente: noi ascoltiamo e leggiamo qualcosa di vitale, ne esultiamo, e poi dimentichiamo tutto o quasi tutto. Quel nutrimento spirituale non è perduto, ma è come la concimazione o l’innaffiamento della pianta: rimane in noi e, ai raggi salutari dell’azione dello Spirito Santo, affiora nelle parti avvizzite del cuore, e le vivifica. A volte si trasforma, diventa un pensiero che par che nasca da noi, ed è invece l’elaborazione venuta dalla grazia di un pensiero vitale, rendendolo come linfa appropriata alle nostre disposizioni particolari, e ai fini che il Signore vuol conseguire nella nostra vita. Quando l’anima si dona interamente a Dio nella soave schiavitù dell’amore, lungi dal preoccuparsi nel suo cammino di perfezione, deve rimettersi alla grazia dello Spirito Santo e confidare, con la ferma volontà di rispondere e di fare tutto ciò che Egli le ispira, nella luce di chi la guida nel cammino della santità.
Bando agli estetismi dello spirito!
La preoccupazione, in questa via d’amore, può spegnere precisamente l’amore, diventare ansietà orgogliosa di vedersi buoni, diventare vanità di spirituale estetica, e togliere la pace dal cuore. È questa la ragione dell’agonia che tante anime hanno nel cammino spirituale: esse non si affidano alla grazia dello Spirito Santo ma alle loro attività, non cercano la gloria di Dio ma inconsciamente la loro gloria, e vanno cercando la pace nelle pieghe del loro cuore inquieto, anziché nel caldo soave e materno della divina volontà. Per questo Gesù, dopo aver parlato agli apostoli della futura azione dello Spirito Santo nella loro santificazione, soggiunge: Vi lascio la pace, vi do la mia pace; non ve la do come la dà il mondo. Il vostro cuore non si turbi né si sgomenti. La pace che dona Gesù è la tranquillità dell’anima data interamente a Dio, è la calma nelle prove che nasce dall’unione alla divina volontà, è l’intima gioia di sentirsi di Dio anche quando la povera natura agonizza, è il dolore stesso e la pena illuminati dalla luce della bontà divina, e dalla speranza dell’eterna gloria. Gli apostoli erano turbati e sgomenti perché Gesù aveva accennato loro alla sua prossima dipartita dal mondo; ebbene, neppure questo doveva turbarli, quando pensavano che Egli se ne andava al Padre, e che la sua umanità, minore del Padre, andava alla gloria. Come Dio, Egli era nel Padre e il Padre in Lui; era suo Verbo consustanziale e stava immutabilmente nella divina gloria; ma, come uomo, era minore del Padre, era pellegrino, angustiato, afflitto, e prossimo a subire l’estrema immolazione. Se essi l’amavano veramente, dovevano godere che la sua addolorata umanità andava ad immergersi nella gloria del Padre.
«Vi lascio la pace, vi do la mia pace»
Dicendo questo, Gesù apriva alle anime desolate l’orizzonte eterno, e alle anime vittime la visuale della pace imperturbabile nell’eterna gloria. Certo, le pene della vita sono gravi, e a volte ci danno l’impressione di una fitta oscurità senza uscita e senza scampo. Ci accoriamo di noi, e ci sentiamo sgomenti; eppure basta pensare che l’angustia passa e che viene presto la pace eterna, per sentirsi rianimati. Basti a ciascun giorno il suo affanno; il domani mettiamolo interamente nelle mani di Dio, e orientiamo l’anima nostra al domani eterno che ci attende. Quando ci uniamo alla divina volontà e viviamo in questa soave speranza, i giorni amari diventano come una spinta maggiore verso gli eterni orizzonti, ci astraggono dal mondo, ci appartano dalle realtà umane, e ci uniscono a Dio in modo così profondo, e in un abbandono così completo che satana non può aver nulla di comune con noi né può esercitare in noi quel tristo dominio che ha sui peccatori, fonte di disperata agitazione.
Gesù accennò velatamente alla sua Passione e morte, riparlando della sua dipartita dal mondo, e l’accennò perché gli apostoli, vedendola avverata, non si fossero turbati; Egli, però, protestò che il principe di questo mondo, cioè satana, non aveva nulla in Lui, e che, quello che avrebbe fatto contro di Lui, Egli lo avrebbe permesso, per dimostrare al mondo il suo amore al Padre nell’immolazione, e per compiere il suo grande disegno della redenzione umana: Non parlerò ancora molto con voi – soggiunse –,perché me ne andrò vittima della macchinazione infernale di Giuda, mosso da satana; non vi turbate, però né crediate che io sia sotto il suo dominio quando sarò tormentato e posto a morte. Satana non può nulla senza il mio permesso, e non ha nulla in me, perché non può colpirmi e raccogliere da me neppure un’impazienza; quello che avverrà, e di cui vi prevengo, avverrà per l’amore infinito che porto al Padre e per il quale m’immolo, e sarà da parte mia il compimento pieno della sua volontà.
Dicendo queste parole, Gesù esortò gli apostoli ad alzarsi e a disporsi ad andar via, perché Egli voleva recarsi all’orto a pregare, e iniziare così la sua Passione. Non disse loro di uscire immediatamente, perché continuò a parlare né volle esortarli semplicemente a muoversi ma, essendo essi afflitti e timorosi, volle dir loro: Non vi accasciate, e non temete che, uscendo di qui, troviate subito qualche agguato; siate forti, seguitemi, e unitevi a me come soldati coraggiosi che seguono il capitano nel cammino della lotta. Siamo tutti di Dio, offriamoci a Lui come schiavi d’amore, nel pieno abbandono della sua volontà, e satana non avrà nulla di noi, quantunque egli muova contro di noi lotte gravi e atroci per sconcertarci.
Operiamo e soffriamo come vittime d’amore e non come vittime di fatalità, come esecutori del piano ammirabile della divina volontà in noi, e non come schiavi di eventi crudeli. C’immoli l’amore, non satana, e ci metta in croce il Signore per i suoi fini d’amore, non la perfidia diabolica per i suoi fini di rovina spirituale.
Padre Dolindo Ruotolo
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