Commento al Vangelo: IV Domenica di Quaresima 2013 (Lc 15,1-3.11-32)
L’infinita misericordia di Dio
Il figliol prodigo
Ai farisei sembrava impossibile che Dio
potesse accogliere i peccatori e vollero vedere nella familiarità che Gesù aveva
con loro un argomento contro la sua divinità; perciò il Redentore mostrò in una
scena tenerissima il modo col quale Dio accoglie i peccatori, e indirettamente
si proclamò Dio, perché Egli li accoglieva proprio in quel modo, per eccesso di
misericordioso amore e non per connivenza alle opere loro. La parabola del
figliol prodigo, con la quale Gesù Cristo manifesta in pieno la misericordia di
Dio e la sua, è bellissima e commovente e, più che un racconto, è una minuta
descrizione della degradazione e della risurrezione dei peccatori. Colui che
legge i cuori volle manifestare le particolari posizioni dei peccatori.
Dobbiamo, perciò, meditare accuratamente tutte le circostanze della parabola
che hanno un profondo valore psicologico.
Un
uomo aveva due figli, e il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte
dei beni che mi tocca. L’eredità paterna era di diritto dei figli; il
primogenito aveva il doppio degli altri figli nella divisione dei beni che
poteva farsi in vita o dopo la morte del padre. Il più giovane, dunque, dei
figli di questo padre reclamò la parte dei suoi beni. Per quale motivo la
reclamò, pur avendo un padre immensamente buono? È evidente dal contesto:
voleva godere a modo suo la vita; gli sembrava troppo vuota la casa, troppo
opprimente la vigilanza paterna, e non andando d’accordo col fratello, unica
compagnia che aveva in casa, volle cercarsi lontano le amicizie e i divertimenti.
Il
padre avrebbe potuto negargli l’eredità in quel momento e rimandare la
divisione a dopo la sua morte, ma credé di farlo allora perché il figlio la
reclamava con la prepotenza che hanno i cattivi, e alla quale non è possibile
praticamente opporsi. Teoricamente il padre può imporsi ai figli, ma certi tipi
sono indomabili e l’averli in casa costituisce un inferno tale che appare una
liberazione il loro allontanamento. Il padre, dunque, pur avendo un grande
dolore che il figlio si allontanava, gli diede la parte che gli spettava e non
poté fare diversamente.
Dopo
pochi giorni, il figlio discolo, messo insieme il denaro e quanto aveva, se ne
andò in un paese lontano. Voleva essere pienamente indipendente, non voleva
controlli e scelse un paese lontano. Forse il padre, angosciatissimo, non poté
neppure salutarlo, perché il figlio gli sfuggì, come avviene in simili casi,
quasi fosse un nemico; può rilevarsi dalla penosa aspettativa di un ritorno
nella quale rimane.
Il
giovane credé di aver conquistato la felicità e quando fu lontano di casa gli
sembrò di respirare a più larghi polmoni. Ormai credeva di essere padrone di sé
e si diede ad una vita dissoluta, consumando tutto quello che aveva. Intanto
sopravvenne una grande carestia nel paese nel quale era, ed egli si trovò nella
più squallida miseria. Cercò, dunque, un’occupazione e si ridusse servo, egli
che era di nobile nascita, e servo di un pagano che lo mandò a custodire i
porci. Un ebreo non avrebbe tenuto una mandria di maiali e quel padrone,
mettendo il giovane a guardia di quegli animali immondi, lo ridusse in uno
stato di grande avvilimento. Inoltre lo tenne in tali ristrettezze che
l’infelice desiderava mangiare le ghiande o secondo il testo greco, le carrube
che si davano ai porci, e nessuno gliene dava. Era ridotto come uno schiavo e
lo stesso avvilimento nel quale era, gli toglieva il coraggio di domandare
almeno il cibo che si dava ai porci.
Quali
giorni amarissimi trascorse l’infelice giovane! Stando a guardia di animali,
aveva tutto l’agio di considerare il suo stato, perché quell’occupazione non lo
distraeva e lo teneva tutto pensieroso; inoltre, la vita immonda di quelle
bestie era per lui come un’immagine della vita che egli aveva condotto. Ricordò
i giorni passati nella pulizia e nella pace della casa paterna, ricordò il modo
come vi erano trattati i servi, rispettati, benvoluti e provvisti abbondantemente,
ricordò soprattutto la bontà paterna e non disperò di essere riaccolto da lui,
almeno come un servo.
Uno
degli effetti del peccato, e soprattutto di quello impuro, è l’indecisione e lo
scoraggiamento, e per questo il giovane rimase per un certo tempo a pascolare i
porci senza ribellarsi a quello stato di vita; egli che si era ribellato al
padre, sottostava poi supinamente ad un tiranno e non fiatava. Però, l’idea di
poter servire nella casa paterna cominciò a sembrargli attuabile, ed un giorno,
deciso, disse a se stesso: Mi alzerò e andrò dal padre mio, e gli dirò:
Padre ho peccato contro il cielo e contro di te, e non sono più degno d’essere
chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi servi. Era così avvilito
che non aveva la forza di alzarsi senza imporselo: Mi alzerò e andrò; era così confuso che si
preparava ciò che doveva dire al padre; era ancora lontano dall’amare il padre,
perché si decideva principalmente in vista dei danni che la vita dissoluta gli
aveva arrecato e dello stato nel quale era ridotto. Fu l’amore del padre che lo
riabilitò e che mutò quel pentimento di attrizione in contrizione del cuore.
Il
padre non lo aveva dimenticato e ogni giorno guardava gemendo, quella strada
per la quale il figlio s’era allontanato; com’era triste per lui! Il sole gli
sembrava più scialbo, la solitudine più desolante e il passaggio dei viaggiatori
era per lui una stretta al cuore.
Guardava lontano e piangeva
silenziosamente, piangeva d’amore e piangeva anche di collera, riprovando in
cuor suo i traviamenti del figlio. L’ingratitudine che gli aveva mostrata non
poteva non disgustarlo profondamente.
Ma
ecco, un giorno vede avanzarsi un giovane dall’andamento accasciato, tutto
lacero, tutto incolto, appoggiato ad un bastone per la debolezza e per la
stanchezza. Lo riconobbe subito: era suo figlio! E si sentì così commosso che,
dimenticando tutto, gli corse incontro, gli gettò le braccia al collo e lo
baciò in un efflusso di amorosissime lacrime. Il figlio, piangente egli pure,
disse ciò che aveva preparato e ripetuto tra sé lungo la strada: Padre, ho
peccato contro il cielo e contro di te, non sono più degno d’essere chiamato
tuo figlio. Non completò la frase come l’aveva preparata e non accennò a
voler essere un servo di casa, forse perché il padre non gliene diede il tempo,
ma forse anche perché quell’espressione non reggeva di fronte a tanto amore e a
tanta misericordia.
Il
padre, vedendolo tutto lacero, chiamò in fretta i servi, e ordinò loro di
mettere fuori la veste più preziosa per vestirlo, dopo averlo lavato; ordinò
che gli mettessero al dito l’anello col suggello, segno d’onore speciale, e i
calzari al piede come si conveniva ad un uomo libero. Gli schiavi andavano
scalzi e il povero giovane, tornando da uno stato di schiavitù, non aveva calzari.
Il padre, poi, ordinò che si uccidesse
il vitello ingrassato con cibi speciali che si teneva in serbo per le grandi
circostanze, e si preparasse un grande banchetto, perché quel figlio suo era
morto ed era risuscitato, era perduto ed era stato ritrovato. Queste ultime
parole del padre rivelavano tutto il suo amore e la sua gioia; mentre il
giovane aveva protestato di non essere degno di chiamarsi suo figlio, il padre
lo chiamava affettuosamente: Questo mio figlio.
Si
preparò il banchetto, e fra canti e suoni di gioia si cominciò a mangiare.
Mancava il primo figlio del padre, perché s’era recato nei campi a sorvegliare
i lavori. Nel ritornare, sentì da lontano le musiche e le danze di quella festa
e, chiamato uno dei servi, domandò che cosa fosse. Saputo di che si trattava
montò in collera e non voleva entrare.
Nelle feste del cuore c’è sempre qualche
persona che mette una nota discordante, ma questa volta l’ira del figlio
maggiore poteva degenerare in una rissa; il padre volle evitarla e corse personalmente
a supplicarlo di entrare. Avrebbe potuto imporglielo, ma a che sarebbe valsa
un’imposizione? Compatendo il suo sdegno, con lo stesso cuore misericordioso lo
supplicò, invece, di entrare. Ma il figlio reagì, dicendo che l’aveva sempre
servito fedelmente, senz’avere avuto mai in dono un capretto per banchettare
con i suoi amici e soggiunse in tono sprezzante: Quando, invece, è venuto
questo tuo figlio che ha divorato tutto il suo avere con le meretrici, hai
ammazzato per lui il vitello grasso. Non chiamò fratello il giovane
che era tornato, ma essendo sdegnato, lo chiamò: tuo figlio, quasi che a lui non
appartenesse più, ed espresse nella maniera più veristica, per disprezzo, lo
stato di colpa del fratello: ha divorato tutto il suo avere con le meretrici.
Gli sembrò, poi, un’assurdità l’aver ucciso proprio per lui il vitello
grasso.
Con
immenso amore, il padre cercò di placarlo, facendogli riflettere che egli non
doveva adontarsi di quell’atto di misericordia, perché non diminuiva i suoi diritti:
Tutto ciò che è mio – gli
disse –, è tuo; ma soggiunse, ricordandogli l’amore
fraterno, che era giusto banchettare e far festa perché quel suo fratello era
come risuscitato e ritrovato. Il figlio aveva chiamato suo fratello
semplicemente figlio del padre,
e il padre, invece di chiamarlo suo figlio, l’aveva chiamato tuo
fratello, per fargli
riflettere che colui per il quale si faceva festa non gli era estraneo, ma gli
era fratello e doveva essergli tanto più caro in quanto era come un morto
risuscitato e un traviato ritornato alla via del bene.
Gesù
Cristo non poteva tracciare in una maniera più commovente e tenera lo stato di
un peccatore e l’infinita misericordia di Dio nel raccoglierlo nella sua grazia
quando egli veramente si pente. Non poteva esprimere in una maniera più
profonda la misericordia di Dio verso l’umanità, le nazioni e i popoli quando
tornano a Lui. Sono due applicazioni distinte della parabola che bisogna
meditare: il padre che ha due figli è Dio che ha tra i suoi figli buoni e
cattivi, ed ha fra le nazioni quelle che gli sono fedeli e quelle che
apostatano da Lui.
Dio
è un padre che ha dato alle sue creature la libertà, affinché operino il bene
meritando, e quando esse la reclamano, Egli non la nega loro, anche se per loro
colpa ne abusano. Quando l’anima pecca, si allontana da Dio, suo Padre, lascia
la sua amorosa compagnia e si abbandona agli stravizi, distruggendo in se
stessa la grazia e tutte le buone qualità che Dio le ha donate; il peccato le
porta la miseria più squallida, ed essa, da serva di Dio, diventa serva, anzi
schiava delle passioni più immonde. La caratteristica di questo stato è
l’avvilimento e la fame, poiché l’anima non giunge neppure a saziarsi delle sue
passioni e vive in uno stato di somma infelicità spirituale e corporale.
Lo
stesso avviene alle nazioni quando, apostatando, si allontanano da Dio: vivono
lussuriosamente, si riducono schiave di satana, e schiave dei suoi tristi
rappresentanti, e cadono nell’avvilimento e nella miseria. Dolorosamente il
campo dei porci è il naturale epilogo dell’allontanamento da Dio, e la miseria
ne è la conseguenza.
Sotto
l’impeto dei castighi, il peccatore rientra in se stesso ed ha un primo
movimento di ritorno a Dio; considera la brevità e la nullità delle sue false
gioie, considera la pace e la felicità di chi opera il bene, si vergogna di sé
e decide di ritornare dal Padre celeste, andando da chi in terra lo
rappresenta. Padre ho peccato: ecco
l’umile confessione che il peccatore fa a Dio ai piedi del confessore, ecco
l’umile confessione che fanno le nazioni apostate al Padre, quando vedono la
loro rovina.
Dio
è infinita misericordia ed accoglie subito al suo Cuore chi si pente
sinceramente; ordina ai suoi servi, cioè ai sacerdoti, di mettergli, con
l’assoluzione, la veste della grazia; non gliela pone Lui direttamente, ma
chiama i suoi servi, e da essi gli fa porre al dito l’anello di nuove grazie e
ai piedi i sandali della libertà, ordinando poi il banchetto dell’amore, perché
si sazi di beni.
Alle
singole anime penitenti, Dio concede le delizie del Banchetto eucaristico, alle
nazioni che, come tali, non hanno un avvenire eterno, Dio concede l’abbondanza
dei beni materiali e la prosperità.
L’epilogo
della parabola riguarda particolarmente il popolo ebreo e lo scandalo che i farisei
provavano, vedendo Gesù che trattava amabilmente i peccatori. Essi si rifiutavano
di far parte del regno di Dio e del banchetto della vita, perché vedevano che
Gesù vi accoglieva i peccatori; eppure avrebbero dovuto esultarne e goderne,
perché quella familiarità li convertiva e li salvava.
Il
Padre celeste non aveva solo un figlio maggiore, il popolo ebreo, ne aveva
anche uno minore, il popolo pagano; se Gesù cercava i pubblicani e i peccatori,
cercava di ricondurre al Padre celeste il figlio minore con quelle primizie di
misericordia. Questo avrebbe dovuto produrre in loro una gran gioia, perché
tutti gli uomini sono figli di Dio, Ebrei e pagani, e gli Ebrei avrebbero
dovuto esultare nel vedere il figlio minore essere accolto tra le braccia della
misericordia e partecipare al banchetto della vita.
La
parabola del figliol prodigo, come accennammo, si riferisce anche al ritorno
delle nazioni apostate a Dio negli ultimi tempi.
È
un racconto troppo vivo che noi, in parte, stiamo già vivendo, per poterlo
trascurare; Dio ha due figli: il popolo ebreo e il popolo pagano. Quest’ultimo,
minore di età, dopo essere stato nella casa paterna, reclama la sua parte di
eredità tutta materiale, pretende di potere usare, a suo modo, dei doni di Dio,
e si allontana da Lui, vivendo lussuriosamente.
La
famosa dichiarazione dei diritti dell’uomo nella rivoluzione francese fu come
l’atto ufficiale col quale il popolo pagano, reso ribelle a Dio, reclamò i
diritti, falsati e travisati, della propria eredità. Dio non forza nessuno al
bene e per suoi altissimi fini lasciò fare.
In
possesso pieno e disordinato della propria eredità, le nazioni si allontanarono
da Dio e cominciarono quella vita sistematicamente dissoluta che è l’impronta
speciale della nostra moderna cosiddetta civiltà.
È
la storia contemporanea che fa orrore. È vero, in ogni tempo le nazioni, anche
cristiane, si sono oberate di delitti spaventosi, ma se si pensa al bene che in
esse regnava, a tanti re santi, a tante manifestazioni di fede, di pietà e di
carità, deve riconoscersi che, dopo l’apostasia, le nazioni sono cadute in
profondi abissi di corruzione che i nostri padri non hanno neppure sospettato.
La caratteristica poi di questa corruzione è l’impurità, spinta a poco a poco
fino agli eccessi più degradanti.
La
lontananza da Dio produce la miseria e la miseria conduce alle schiavitù più
degradanti. Gli uomini che dovevano vivere della divina provvidenza ed essere
santamente liberi, vedono diminuite le loro risorse fino alla miseria e alla
carestia, e subiscono l’esoso dominio d’un padrone crudele. Lo stato economico
delle nazioni moderne fa spavento e, con la scusa delle esigenze militari, esse
vanno verso una completa schiavitù interna. Servono, servono lo Stato, padrone
esigente, crudele e spietato, e non hanno di che sfamarsi.
Pascolano
i porci, ma i porci non danno loro neppure quello che costituisce la loro mensa.
In fondo, i popoli apostati vivono per pascolare le mandrie corrotte dei capi,
come si vede dovunque e specie in Russia, e non ricavano nulla dalla loro
schiavitù. Ecco in quale stato ha ridotto i popoli l’apostasia! È una cosa che
si constata e si vive, non ha bisogno di dimostrazione.
Ma
verrà l’ora della rinascita e verrà per la stessa violenza della crisi che
tortura i popoli. Quasi svegliandosi da un sonno, diranno: Mi alzerò e andrò
da mio padre. All’apostasia subentrerà un periodo di risurrezione della
coscienza cristiana, e quindi un periodo di ritorno.
Il Padre
celeste, pieno di misericordia, verrà incontro ai popoli, li abbraccerà e li
bacerà con grazie speciali e li introdurrà nuovamente nella Chiesa. I suoi
servi rivestiranno a nuovo le anime, rimettendole in grazia di Dio, porranno al
loro dito l’anello di nuove grazie e di una novella figliolanza con Dio e
imbandiranno il banchetto col vitello grasso, cioè con un’esuberanza di doni eucaristici. Ci saranno
anche allora le voci discordanti, senza dubbio, perché nel mondo viatore non è
possibile una completa armonia; ma saranno voci che la bontà del Padre comune,
del Papa, saprà conciliare, per mantenere l’unità tra i popoli cristiani.
Padre Lino Pedron
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