Commento al Vangelo: III Domenica di Quaresima 2013 (Lc 13,1-9)
Senza la penitenza si va in perdizione
Mentre Gesù parlava al popolo, vennero
alcuni a raccontargli di una strage compiuta da Pilato nell’atrio del tempio
per soffocare una ribellione di popolo, e propriamente di Galilei. Spesso
avvenivano queste ribellioni in occasione di feste religiose e quindi di
maggiore assembramento di popolo, e perciò i Romani avevano un presidio stabile
nella fortezza Antonia per soffocarle in tempo, nel sangue. La storia non
ricorda la strage fatta da Pilato, la quale dovette essere una di quelle tante
repressioni sanguinose comuni ai dominatori Romani; ma è evidente dal contesto
che quelli che ne diedero annuncio a Gesù erano ancora sotto un’impressione di
terrore.
Gesù Cristo non considerò la causa politica di quella strage,
ma la causa morale che era il maledetto peccato, e richiamò tutti alla
penitenza. Le ribellioni non giovavano a nulla, quando la causa
dell’oppressione straniera stava nell’infedeltà alla Legge di Dio; invece di
ribellarsi era necessario riparare le colpe e conciliarsi la misericordia di
Dio.
Forse
alcuni di quelli che portarono la notizia della strage fatta da Pilato ebbero
anche l’intenzione di provocarne una condanna da parte di Gesù, ed avere così
occasione di accusarlo al governatore; ma il Redentore con la sua divina
risposta, non diede loro il pretesto di malignare, anzi li richiamò al dovere
della penitenza per richiamarli alla responsabilità che essi avevano in quella
calamità pubblica, e in quella della rovina della torre di Siloe che, secondo
la tradizione, fu provocata dal medesimo Pilato.
Le calamità
pubbliche
Le
parole di Gesù aprono un nuovo orizzonte sul modo come debbono considerarsi le
calamità pubbliche sociali, le guerre, le sopraffazioni e le tirannidi; le
cause politiche o naturali che le determinano sono accidentali; la vera causa
sta tutta nel peccato, ed essa produce tutto il suo effetto disastroso, quando
non ha il contrappeso della riparazione e della penitenza. Qualunque altra
valutazione delle sventure pubbliche è sbagliata. Anche le sventure private
hanno questa dolorosa causa, e l’ha molto più la sventura delle sventure, ossia
la perdizione eterna, e perciò Gesù dice con parole generali: Se non farete
tutti penitenza, perirete tutti ugualmente.
Dolorosamente
siamo tutti peccatori e tutti dobbiamo sentire il bisogno della riparazione; la
penitenza dev’essere prima di tutto interiore, nel rinnegare i propri falsi
apprezzamenti e nel riconoscere come nostra guida la Legge e la volontà divina;
dev’essere punizione della volontà e dei sensi ribelli, nella privazione volontaria
di ciò che li alletta e li priva del freno, e dev’essere abbandono filiale e
contrito all’infinita misericordia di Dio nel sacramento della Penitenza. Se
non si orienta l’anima a Dio e non si sottopongono all’anima i sensi e le
passioni, si cammina contro la divina volontà, e si va in perdizione.
Le
calamità pubbliche che affliggono le nazioni e le prove della vita sono, in
fondo, le penitenze che il Signore stesso ci manda per salvarci. Le sventure
pubbliche puniscono o purificano le nazioni peccatrici, e nel medesimo tempo
sono per ciascun’anima una grande penitenza, forse la più grave e salutare,
perché ineluttabile.
Si
avvicina, per esempio, una guerra, il flagello più terribile, soprattutto oggi;
ecco che le città fanno la toletta funebre: oscurano le lampade, sgombrano i
luoghi strategici, riducono al minimo la cosiddetta vita civile e si militarizzano.
Si sente nell’atmosfera stessa un’aria di tristezza, gemono le madri, gemono le
spose, e i giovani, per quanto lo dissimulino, hanno la morte alle spalle e
capiscono che per loro può essere anche finita la vita.
Che
cos’è tutto questo apparato di tristezza?
È la chiamata di Dio a penitenza, ed è la terribile e ineluttabile
espiazione delle colpe commesse. Se le anime ascoltano in tempo la voce di Dio
e anticipano la penitenza, a somiglianza dei Niniviti, il flagello si arresta;
se continuano nella via del peccato sono travolte dal turbine.
La vita, a volte, appare per molti un
crudele destino; è un errore gravissimo. Ogni sventura ha il suo retroscena di
peccato ed è sanabile con la penitenza. Dolorosamente le anime molte volte
seguono il cammino opposto, rimangono nei loro peccati e li accrescono
ribellandosi a Dio. Certi atteggiamenti disperati nel dolore sono blasfemi, ed
aprono a satana interamente il varco nella nostra vita; allora non si trova più
il bene, si cade di abisso in abisso, e si può giungere fino all’estrema rovina
temporale ed eterna. Quando vediamo perciò una tribolazione, pensiamo che è un
avviso di Dio, esaminiamo le nostre colpe, eliminiamole con la confessione e
ripariamole con la penitenza; rimettiamoci sul cammino di Dio e il Signore ci
perdonerà anche nella vita presente, ridonandoci la prosperità e la pace.
La parabola del fico infruttuoso
A volte il Signore ci colpisce con una tribolazione e, per le
preghiere degli altri o della Chiesa, l’arresta, aspettandoci ancora un po’
misericordiosamente a penitenza. Non bisogna allora abusare della divina
misericordia e credere che il flagello sia passato.
La
parabola del fico infruttuoso è troppo eloquente per poterla prendere alla
leggera: il Signore cerca da noi il frutto di opere sante e, quando la nostra
vita non lo produce, la stronca col flagello. Non basta allora una risoluzione
fiacca e momentanea di emenda per poter evitare la rovina: bisogna mutarsi
interamente e cominciare daccapo a vivere cristianamente e santamente.
Certe
abitudini, certi vizi, certe miserie occorre eliminarli radicalmente
dall’anima, facendo appello alla grazia e alla misericordia di Dio. Se non si
fa così, la vita si aggroviglia ogni giorno di più nelle tribolazioni e,
diventando preda di satana, diventa infelicissima.
Quando
annunciarono a Gesù la strage dei Galilei, Egli pensò certamente alla futura
rovina di Gerusalemme ad opera dei Romani, e vide in quella strage, come nella
rovina della torre di Siloe, un primo avviso di Dio al popolo ingrato. Quelle
sue accorate parole: Se non farete penitenza, perirete tutti ugualmente, avevano
sulle sue labbra un significato più ampio d’un semplice appello alla penitenza
individuale, ed Egli chiamava la nazione tutta alla rinnovazione, con la
minaccia dell’imminente rovina.
La
parabola del fico infruttuoso completò poi il suo accorato appello al popolo
ingrato: da tre anni Egli predicava la penitenza e il regno di Dio, ed invano
aveva cercato dall’ingrata nazione il frutto di tanta misericordia. Non
rimaneva altro al Signore che reciderla dal numero delle nazioni e mandarla in
rovina; eppure Egli stesso pregava per ottenere almeno un differimento del
gravissimo flagello; ma la nazione ne avrebbe profittato?
Dopo la
morte di Gesù passarono ben quaranta anni di misericordiosa attesa prima che
Gerusalemme fosse stata distrutta, e il popolo non fece penitenza; quando, poi,
venne il giorno del rendiconto, la giustizia fu inesorabile, non per vendetta,
ma perché non c’era altro da fare; il fico aveva resistito alle ultime cure
dell’agricoltore, e non poteva essere utilizzato che come legna da ardere. Padre Dolindo Ruotolo
Nessun commento:
Posta un commento