Commento al Vangelo: II Domenica di Quaresima 2013 (Lc 9,28-36)
La trasfigurazione di Gesù Cristo
Le lotte contro Gesù aumentavano sempre,
di giorno in giorno, poiché i sacerdoti, gli scribi e i farisei, non ammettendo
in Lui una missione divina, credevano insopportabile che Egli insegnasse e
facesse proseliti. Queste lotte, prima latenti, cominciarono a diventare più
manifeste e sfacciate, scrollando anche la fede degli apostoli, già abbastanza
fiacca. Era necessario perciò, per la gloria stessa di Dio, mostrare almeno un
raggio di quella divina Maestà che tutto avvolgeva il Signore e che dovrà, un
giorno, risplendere della sua santissima Umanità innanzi a tutte le genti.
Con la
divina sobrietà che distingue tutto ciò che viene da Dio, Gesù credé opportuno
mostrarsi innanzi a tre testimoni soltanto della terra, e a due testimoni del
cielo: Pietro, Giacomo e Giovanni in rappresentanza degli uomini, Mosè ed Elia,
in rappresentanza di quanti avevano sospirato alla redenzione nell’Antico Patto.
La Legge
diceva, infatti, che sulla bocca di due o tre testimoni stava la verità.
Se Gesù si
fosse svelato innanzi a tutti gli apostoli, si sarebbe determinato un movimento
di entusiasmo che Egli voleva evitare, e i nemici ne avrebbero preso pretesto
per intensificare la lotta. D’altra parte, se i tre testimoni prescelti
capirono poco della grandiosa manifestazione, la massa ne avrebbe capito ancor
meno, e nell’entusiasmo del momento avrebbe reso vano l’altissimo scopo per il
quale Gesù Cristo si svelava.
San Pietro
voleva stabilirsi sul monte e farvi tre tabernacoli, gli apostoli e i discepoli
sarebbero andati più in là e avrebbero provocato un movimento capace
d’intralciare tutto il piano di Dio. Gesù, poi, agiva per la Chiesa , principalmente per la Chiesa , e voleva lasciare
nella Chiesa una testimonianza della sua divina gloria, affinché nei secoli
futuri si fosse meglio capito che se Egli era veramente uomo, era anche
veramente Dio. Bastavano perciò tre testimoni capaci, un giorno, di riflettere
sulla grande manifestazione, intenderne il significato, e trasmetterne la testimonianza
alla Chiesa.
Gesù prese
dunque con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, e salì sopra un monte per pregare.
Dato che Egli pregava quasi sempre di notte, deve supporsi che era già calata
la sera quando vi s’incamminò con i suoi. È chiaro anche dal fatto che gli
apostoli furono aggravati dal sonno: dopo una giornata di movimentata attività,
nella calma solitudine del monte, per la stessa umidità dell’ambiente, si
capisce che poterono essere presi dal sonno. Essi, però, essendo andati con
Gesù per pregare, si
sforzavano di tenersi desti, come può ricavarsi dal testo greco, il quale dice
che stavano svegli malgrado il sonno e poterono accorgersi della
grandiosa scena che si svolse sul monte.
Gesù
pregava, e la sua trasfigurazione ci fa intendere che cosa doveva essere la sua
preghiera.
Acceso
d’infinito amore dinanzi al Padre, tutto rapito dalla sua gloria, Egli
splendeva nel volto di luce divina, e la luce intensissima rese bianco tutto il
suo vestito. Era la più sublime delle estasi, era il Verbo che glorificava il Padre
e fruiva del Padre in un amore infinito, traendo l’umanità assunta nello
splendore della sua gloria e nel profumo del suo amore; era il Verbo che
erompeva, per così dire, dall’umanità assunta e la rendeva come diafana alla
sua luce, attraversandola tutta e illuminandola.
Lo
spettacolo era sublime, immenso, grandiosissimo, e in Gesù si vedeva il vero
Dio, come nel suo ordinario nascondimento si scorgeva il vero uomo. Il Verbo
glorificava il Padre, conoscendolo e apprezzandolo, e l’umanità assunta
splendeva in Lui e per Lui come una fiamma di olocausto. Era un’anticipata
riparazione allo scempio che si sarebbe fatto del Corpo divino, ed era una
manifestazione del modo come la redenzione avrebbe restaurato l’uomo,
incorporandolo al Cristo e facendolo rifulgere della sua luce.
Pregava
Gesù, in quello splendore arcano e, come la sua preghiera superava la povera
atmosfera della terra, così quello splendore divino doveva giungere fin
nell’immensità del firmamento e oltre; quei raggi non poterono disperdersi
nella bruna massa di aria, ma l’oltrepassarono; brillavano più di quelli degli
astri, e dovettero far apparire nel firmamento il Corpo di Gesù come una
rutilante stella di primissima grandezza. Se nelle stelle ci fossero stati
abitanti, avrebbero visto certamente lontano lontano uno splendore nuovo, più
grande di qualunque splendore, poiché il fulgore della divinità in quel
momento, penetrava tutto l’universo, essendosi essa degnata di venire in terra
per restaurare tutto.
Pregava
Gesù, e lo splendore della sua Anima e del suo Corpo era proporzionato
all’umiliazione che doveva subire nella Passione. Era, infatti, conforme alla
divina gloria che l’Uomo-Dio fosse immolato, ma era anche esigenza di quella
gloria che Egli fosse riconosciuto per quello che era. Voleva essere
sopraffatto per amore, ma non doveva in nessun modo apparire come uno travolto
quasi casualmente dalla tempesta dell’empietà, e per questo Mosè ed Elia vennero
come testimoni del disegno di Dio, annunciato dalla Legge e dai Profeti e ne
discorsero con Lui.
È mirabile
quest’economia di giustizia e di ordine da parte di Dio, in un avvenimento che
doveva sfigurare il Verbo Incarnato come un reietto, un maledetto, un verme sul
legno della croce. Mosè ed Elia confermavano che quello che gli avrebbero fatto
gli uomini era stato già preannunciato come un piano d’amore, e che Dio
l’avrebbe permesso proprio Lui per infinita degnazione e misericordia. Questa
solenne affermazione era, dunque, un’esigenza della divina gloria.
Pregava
Gesù, discorrendo con Mosè ed Elia della sua dipartita, era come un cantico sublime
che si elevava a Dio Uno e Trino, come un salmo grandioso che si snodava in un
parallelismo luminosissimo, poiché Mosè ed Elia esaltavano Dio per le sue
promesse, e Gesù lo esaltava, accettandone in sé il compimento, e mostrandone
la perfetta armonia nella sua vita. I due Testamenti erano vicini, l’ombra
diventava luce di realtà e la realtà illuminava la verità dei simboli e delle
figure; passava in questo cantico ammirabile tutta l’antica storia come
un’armonia lontana e rispondeva nell’Uomo-Dio come una trionfante melodia
d’amore. Era necessario per la gloria di Dio, poiché gli uomini avevano tante
volte sfigurato il disegno divino, e non avevano ancora compreso soprattutto il
disegno della croce.
Questo
cantico nuovo, ammirabile, sublime che armonizzava l’ombra con la realtà,
diventava così una preghiera riparatrice per quello che gli uomini avrebbero
fatto al Signore, senza la quale avrebbero meritato mille volte di più la sorte
di Uz nel porre le mani sul Redentore, arca di Dio, e sarebbero stati
inghiottiti dalla terra.
Oh, se si fosse raccolto quel cantico nuovo
d’amore! Ma ne ha raccolto la
Chiesa santa l’eco sublime, e tutta la sua mirabile liturgia
è un continuo osannante raffronto tra l’Antico e il Nuovo Testamento, un salmo
grandioso, nel quale, alle voci della Legge e dei Profeti, risponde in perfetto
parallelismo la voce della realtà, nelle misericordie della redenzione e negli
splendori della santificazione delle anime.
Parlando
Gesù della sua morte e pregando con Mosè ed Elia rivolse certamente il suo Cuore
anche agli uomini, perché essi erano l’oggetto del suo misericordioso amore.
Per essi voleva morire e, morendo, voleva incorporarli a sé, per renderli lode
vivente di Dio; ad essi voleva cedere i suoi meriti, arricchendoli, e lo
splendore della sua misericordia li avvolgeva; ma essi dormivano, e gli stessi
tre apostoli, privilegiati spettatori di tanta scena, erano aggravati dal sonno
e stentavano a stare desti, nonostante che quell’immenso fulgore li avesse
scossi. L’anima loro, evidentemente, non era compresa di quello che avveniva,
pur vedendo fisicamente la scena; avvertirono solo una pace e un contento
interno che li rendeva beati, ma non capivano la natura di quella gioia e di
quella consolazione interna.
Pietro più
degli altri era come fuori di sé e, non andando col pensiero oltre la terra,
pensò che era bene fermarsi là, ed erigervi tre tende: una per Gesù, una per
Mosè e una per Elia. Parlava come può discorrere uno che è tra veglia e sonno;
non aveva chiaro né l’intelletto né la coscienza, e non sapeva quello che
dicesse. Parlò con un linguaggio di trasognato, e Gesù non gli rispose neppure,
perché quella parola, poveramente umana, non poteva ascendere fino a Lui. Era
immagine viva di quelle preghiere suggerite dalla carne e dal sangue che non
superano la povera atmosfera terrena e non giungono a Dio.
La grande
luce non aveva ancora destato interamente gli apostoli, e Pietro parlò da insipiente;
ma quando videro una nube che avvolgeva Gesù, Mosè ed Elia, forse per il
contrasto medesimo, improvviso, fra l’intensa luce e l’ombra della nube, si
svegliarono interamente, e li assalì un grande timore, perché in quella nube
appariva il Padre per additare solennemente il suo Figlio come maestro
dell’umanità. Da essa, infatti, uscì una voce solenne che disse: Questi è il
mio Figlio diletto, ascoltatelo.
Quella voce
non era terrena: era solenne, grandiosa, potente, e incuteva un riverenziale
terrore, come la voce del Sinai.
Il Tabor era
veramente il Sinai della nuova alleanza, dal quale s’era rivelato il Figlio,
come il cenacolo fu il monte dove si rivelò lo Spirito Santo. Sul Tabor la nube
rappresentò anche lo Spirito Santo che unisce il Padre al Figlio e il Figlio al
Padre nell’infinito Amore, ma nel cenacolo la sua manifestazione fu singolare,
come lo fu quella del Figlio sul Tabor e quella del Padre sul Sinai.
Il
mistero che si compiva, dunque, in quella notte era veramente grandioso e i tre
apostoli ebbero ragione di sgomentarsene. Non era ancora però il momento di
svelarlo, e Gesù – come dice san Matteo (17,9) –, ingiunse loro di non parlarne
ad alcuno finché Egli non fosse risorto da morte. Essi, infatti, tacquero,
benché avessero dovuto essere straordinariamente commossi.Padre Dolindo Ruotolo
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