Commento al Vangelo: VI Domenica di Pasqua C 2013 (Gv 14,23-29)
Sugli errori circa la salvezza e la santificazione
Gli apostoli credevano che Gesù dovesse invece
manifestarsi gloriosamente e politicamente al mondo, in un’affermazione di
dominio temporale, ed erano certi che tutta l’opposizione che gli faceva il
sinedrio si sarebbe conclusa in uno smacco vergognoso. Ora, sentendo
parlare di una sua manifestazione all’anima, nel misterioso silenzio
dell’amore, se ne stupirono, e perciò Giuda, chiamato Taddeo o Sebbeo, gli
domandò a nome di tutti: Signore, come avviene che manifesterai te stesso a
noi e non al mondo? Questo apostolo capì che Gesù parlava di una
manifestazione interiore alle anime e, non supponendo che potesse parlare di altri
fuori che loro, chiese che cosa fosse avvenuto di nuovo per cui Egli riduceva
il suo trionfo ad una semplice illuminazione fatta nell’intimità del loro piccolo
gruppo.
Per questo Gesù ritornò sul grande
concetto di un trionfo interiore di Dio nelle anime, e soggiunse: Se uno mi
ama osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e verremo a lui e faremo
dimora presso di lui. Ecco, in sintesi luminosa, l’essenza del trionfo di
Dio: abitare da Re trionfante, con la magnificenza della sua gloria, Uno e Trino,
nell’anima che, amandolo, compie la sua volontà e gli si dona.
Dicendo questo, Gesù guardò quegli eretici illusi che avrebbero
preteso stabilire con Lui e con Dio un’intimità di grazia senza compiere il
bene, e che avrebbero preteso glorificarlo con una sterile fede e con una
tracotante fiducia; perciò, per eliminare ogni equivoco, soggiunse: Chi non
mi ama così, non osserva la mia parola, e quindi chi non osserva la
mia parola non mi ama; ora la parola mia che v’impone di amare
osservando i miei comandamenti, non è mia, ma del Padre che mi ha mandato; non
è un modo di vedere qualunque o un’opinione cioè, ma risponde al medesimo
disegno di Dio nella salvezza delle anime; è un comando di Dio, una Legge che
non può né avere eccezione né essere deformata da pensiero umano.
Rispondendo all’apostolo Giuda Taddeo,
Gesù proclamò un grande principio che da solo basta a dissipare le oscure
nebbie degli errori protestanti sulla salvezza e sulla santificazione, e da
solo c’impegna ad essere veramente anime amanti di Dio.
Il trionfo di Dio in noi non consiste in
uno sterile trionfo di misericordia che ci trascina, inerti e lerci come siamo,
nel suo regno; ma è un trionfo d’amore che risponde al nostro amore, e ci rende
capaci di operare soprannaturalmente o – come dicono i teologi –, ci abilita a
fare atti deiformi. Si noti l’abisso che corre tra la verità e l’errore;
questo afferma l’inutilità di operare il bene, anzi l’utilità di operare il
male, presumendo così di glorificare la grazia che salva, e la verità, invece,
proclama che Dio, andando incontro all’anima che l’ama e osserva fedelmente i
suoi comandamenti, abita in lei nella gloria della sua Trinità, e produce in
lei un organismo soprannaturale che, soprannaturalizzando l’anima, l’abilita a
fare atti deiformi.
La vita cristiana, infatti, è una
partecipazione alla vita stessa di Dio, ed è evidente che Egli solo la può
conferire; ora, Egli ce la conferisce venendo ad abitare nelle anime nostre e
dandosi interamente a noi affinché possiamo rendergli i nostri ossequi e
lasciarci docilmente guidare da Lui a praticare le disposizioni e le virtù di
Gesù Cristo. Questa mirabile abitazione della Santissima Trinità in noi si
attua quando noi amiamo Gesù, e noi lo amiamo principalmente quando gli
chiediamo perdono dei nostri peccati attraverso il sacramento della Penitenza e
quando ci comunichiamo eucaristicamente con Lui sacramentato. Andiamo da Lui
per amore, e perché lo amiamo il Padre ci ama; siamo da Lui attivati
soprannaturalmente, e diventiamo tempio vivo della Santissima Trinità che,
vivendo in noi, rende deiformi le nostre azioni con la grazia. Dio ci adotta
come figli, non per una semplice finzione giuridica, com’è l’adozione legale,
ma elargendo a coloro che credono nel suo Verbo la divina filiazione: diede il
potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome (Gv 1,12). Questa filiazione non è
nominale ma effettiva: affinché siamo chiamati figli di Dio (1Gv 3,1) noi entriamo in possesso della
divina natura. Questa vita divina è certamente in noi soltanto una partecipazione
e una somiglianza che fa di noi non degli dèi, ma degli esseri deiformi;
ma è anche una realtà, una vita nuova, non uguale, ma simile a quella di
Dio.
Nelle incomprensioni, affidarsi ai lumi dello Spirito Santo.
Gli
apostoli si mostrarono un po’ disorientati alle parole di Gesù; non le
comprendevano appieno e non sapevano come metterle in pratica. Gesù, però, non
parlava perché avessero praticato tutto ciò che diceva allora stesso, né
parlava solo per loro: si rivolgeva a tutti gli uomini e alla sua Chiesa
futura, della quale essi erano le primizie; non dovevano dunque turbarsi per la
loro incomprensione attuale, ma aspettare con fiducia le illuminazioni dello
Spirito Santo. La santità, infatti, non è un edificio morto che si eleva a via
d’industrie, ma è come il germinare, il crescere, il fiorire e il fruttificare
di una pianta che si compie sotto i raggi del sole, per vita interna. L’anima è
istruita da chi la guida, ed ha l’impressione di dimenticare tutto ciò che
ascolta né sa vedere come possa metterlo in pratica. Ciò che ascolta, però, non
è una lezione ma una semina, non è uno studio arido di problemi spirituali o
psicologici, ma è come l’aprirsi di un orizzonte e il delinearsi di una strada,
a percorrere la quale occorre, poi, la guida e il veicolo.
L’anima,
quasi sempre, come avveniva anche agli apostoli, dimentica ciò che ascolta o
ciò che legge e, povera com’è, non sa come cominciare e proseguire il suo
cammino di perfezione. Essa non deve disorientarsi, o stillarsi il cervello ma,
offrendosi tutta a Dio, deve confidare nei lumi dello Spirito Santo. È proprio
quello che Gesù disse agli apostoli: Queste cose vi ho detto mentre mi
trovavo ancora in mezzo a voi; cioè, voleva dire, io vi ho detto molte cose
per profittare del tempo nel quale sono con voi, ma voi non vi preoccupate di
non ricordarle, o di ricordarle in parte; verrà poi lo Spirito Santo che il
Padre manderà nel nome mio, ed Egli vi insegnerà ogni cosa, spiegandovi
quello che non avete capito, e vi ricorderà, a mano a mano che vi
occorrerà, tutto quello che vi ho detto,
e che avete dimenticato.
Questa
soave provvidenza nella formazione e nella perfezione dell’anima possiamo
constatarla continuamente: noi ascoltiamo e leggiamo qualcosa di vitale, ne
esultiamo, e poi dimentichiamo tutto o quasi tutto. Quel nutrimento spirituale
non è perduto, ma è come la concimazione o l’innaffiamento della pianta: rimane
in noi e, ai raggi salutari dell’azione dello Spirito Santo, affiora nelle
parti avvizzite del cuore, e le vivifica. A volte si trasforma, diventa un pensiero
che par che nasca da noi, ed è invece l’elaborazione venuta dalla grazia di un
pensiero vitale, rendendolo come linfa appropriata alle nostre disposizioni
particolari, e ai fini che il Signore vuol conseguire nella nostra vita. Quando
l’anima si dona interamente a Dio nella soave schiavitù dell’amore, lungi dal
preoccuparsi nel suo cammino di perfezione, deve rimettersi alla grazia dello
Spirito Santo e confidare, con la ferma volontà di rispondere e di fare tutto
ciò che Egli le ispira, nella luce di chi la guida nel cammino della santità.
Bando agli estetismi dello spirito!
La
preoccupazione, in questa via d’amore, può spegnere precisamente l’amore, diventare
ansietà orgogliosa di vedersi buoni, diventare vanità di spirituale estetica, e
togliere la pace dal cuore. È questa la ragione dell’agonia che tante anime
hanno nel cammino spirituale: esse non si affidano alla grazia dello Spirito
Santo ma alle loro attività, non cercano la gloria di Dio ma inconsciamente la
loro gloria, e vanno cercando la pace nelle pieghe del loro cuore inquieto,
anziché nel caldo soave e materno della divina volontà. Per questo Gesù, dopo
aver parlato agli apostoli della futura azione dello Spirito Santo nella loro
santificazione, soggiunge: Vi lascio la pace, vi do la mia pace; non ve la
do come la dà il mondo. Il vostro cuore non si turbi né si sgomenti. La
pace che dona Gesù è la tranquillità dell’anima data interamente a Dio, è la
calma nelle prove che nasce dall’unione alla divina volontà, è l’intima gioia
di sentirsi di Dio anche quando la povera natura agonizza, è il dolore stesso e
la pena illuminati dalla luce della bontà divina, e dalla speranza dell’eterna
gloria. Gli apostoli erano turbati e sgomenti perché Gesù aveva accennato loro
alla sua prossima dipartita dal mondo; ebbene, neppure questo doveva turbarli,
quando pensavano che Egli se ne andava al Padre, e che la sua umanità, minore
del Padre, andava alla gloria. Come Dio, Egli era nel Padre e il Padre in Lui;
era suo Verbo consustanziale e stava immutabilmente nella divina gloria; ma,
come uomo, era minore del Padre, era pellegrino, angustiato, afflitto, e
prossimo a subire l’estrema immolazione. Se essi l’amavano veramente, dovevano
godere che la sua addolorata umanità andava ad immergersi nella gloria del Padre.
«Vi lascio la pace, vi do la mia pace»
Dicendo
questo, Gesù apriva alle anime desolate l’orizzonte eterno, e alle anime vittime
la visuale della pace imperturbabile nell’eterna gloria. Certo, le pene della
vita sono gravi, e a volte ci danno l’impressione di una fitta oscurità senza
uscita e senza scampo. Ci accoriamo di noi, e ci sentiamo sgomenti; eppure
basta pensare che l’angustia passa e che viene presto la pace eterna, per
sentirsi rianimati. Basti a ciascun giorno il suo affanno; il domani mettiamolo
interamente nelle mani di Dio, e orientiamo l’anima nostra al domani eterno che
ci attende. Quando ci uniamo alla divina volontà e viviamo in questa soave
speranza, i giorni amari diventano come una spinta maggiore verso gli eterni
orizzonti, ci astraggono dal mondo, ci appartano dalle realtà umane, e ci
uniscono a Dio in modo così profondo, e in un abbandono così completo che
satana non può aver nulla di comune con noi né può esercitare in noi quel tristo
dominio che ha sui peccatori, fonte di disperata agitazione.
Gesù
accennò velatamente alla sua Passione e morte, riparlando della sua dipartita
dal mondo, e l’accennò perché gli apostoli, vedendola avverata, non si fossero
turbati; Egli, però, protestò che il principe di questo mondo, cioè
satana, non aveva nulla in Lui, e che, quello che avrebbe fatto contro di Lui,
Egli lo avrebbe permesso, per dimostrare al mondo il suo amore al Padre
nell’immolazione, e per compiere il suo grande disegno della redenzione umana: Non
parlerò ancora molto con voi – soggiunse –, perché me ne andrò
vittima della macchinazione infernale di Giuda, mosso da satana; non vi
turbate, però né crediate che io sia sotto il suo dominio quando sarò
tormentato e posto a morte. Satana non può nulla senza il mio permesso, e
non ha nulla in me, perché non può colpirmi e raccogliere da me neppure
un’impazienza; quello che avverrà, e di cui vi prevengo, avverrà per l’amore
infinito che porto al Padre e per il quale m’immolo, e sarà da parte mia il
compimento pieno della sua volontà.
Dicendo
queste parole, Gesù esortò gli apostoli ad alzarsi e a disporsi ad andar via,
perché Egli voleva recarsi all’orto a pregare, e iniziare così la sua Passione.
Non disse loro di uscire immediatamente, perché continuò a parlare né volle
esortarli semplicemente a muoversi ma, essendo essi afflitti e timorosi, volle
dir loro: Non vi accasciate, e non temete che, uscendo di qui, troviate subito
qualche agguato; siate forti, seguitemi, e unitevi a me come soldati coraggiosi
che seguono il capitano nel cammino della lotta. Siamo tutti di Dio, offriamoci
a Lui come schiavi d’amore, nel pieno abbandono della sua volontà, e satana non
avrà nulla di noi, quantunque egli muova contro di noi lotte gravi e atroci per
sconcertarci.
Operiamo e soffriamo come vittime d’amore e non come vittime
di fatalità, come esecutori del piano ammirabile della divina volontà in noi, e
non come schiavi di eventi crudeli. C’immoli l’amore, non satana, e ci metta in
croce il Signore per i suoi fini d’amore, non la perfidia diabolica per i suoi
fini di rovina spirituale.
Padre Dolindo Ruotolo
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