Gesù istruisce i settantadue discepoli
Avvicinandosi
il termine della sua missione, Gesù Cristo volle moltiplicare i ministri della
sua parola per divulgarla in tutta la Palestina con maggiore sollecitudine, ed elesse
settantadue discepoli, ai quali diede speciali facoltà. Essi non erano al
medesimo grado degli apostoli, ma immediatamente inferiori, e poiché gli
apostoli erano i primi vescovi del mondo, con a capo san Pietro, i discepoli
eletti ne erano come i sacerdoti. La gerarchia così cominciò a formarsi sotto
la direzione di Gesù stesso: Lui, Capo di tutti, san Pietro capo degli apostoli
e suo vicario per essi e per la
Chiesa , i settantadue discepoli cooperatori immediati suoi e
degli apostoli. Egli li mandò, infatti, in ogni città dove stava per andare,
per preparare le anime alla sua venuta, e li dispose a questa missione con
salutari precetti.
Prima di tutto
ispirò loro la sollecitudine per le anime, dicendo: La messe è molta e gli
operai sono pochi. Essi erano pochi e le anime da curare moltissime, quasi
messe che doveva raccogliersi; dovevano perciò avere una grande sollecitudine
nel lavorare e non preoccuparsi delle loro comodità. Erano pochi, e perché Gesù
non ne aveva eletti di più? Perché la vocazione e l’attitudine ad una missione
soprannaturale sono frutto di grazie che non tutti accettano e, per riceverle e
corrispondervi, bisogna pregare intensamente.
È
il Signore che manda gli operai nella sua vigna, e Gesù stesso elesse gli
apostoli e i discepoli dopo lunghe preghiere al Padre. La preghiera è nelle
nostre mani come la nostra onnipotenza, e Dio ce ne rende capaci e la richiede
perché anche noi cooperiamo alle grandi opere del suo amore. Egli potrebbe
formare anche dalle pietre i figli di Abramo, ma vuole che noi cooperiamo sia
all’elezione di quelli che debbono essere ministri della loro formazione, sia
alla loro salvezza. Questa grande legge d’amore e di fecondità ci mostra quanto
Dio ci ami, e quanto delicatamente rispetti la nostra libertà e la grande
dignità che Egli ci ha dato.
Come agnelli fra i lupi
I discepoli eletti
dovevano andare a predicare la divina Parola non solo per salvare le anime, ma
anche per suscitare in esse i continuatori dell’opera loro; per ottenere
questo, dovevano pregare Dio a moltiplicare la vocazione dei suoi ministri
futuri. La Chiesa ,
infatti, doveva essere tutta un campo di apostolato e in essa doveva esserci,
più che nelle nazioni, il problema demografico spirituale, per così
dire. Non si poteva in essa fare un’opera santa e lasciarla come un frutto
maturo; era necessario farla germinare e continuare, e quindi preoccuparsi di
ottenere da Dio chi avesse potuto continuarla.
A che servirebbe
seminare un campo e ricavarne il frutto senza la semente? Le anime conquistate
alla fede sono i frutti della vigna di Dio, i sacerdoti ne sono come le
sementi, poiché essi fanno germinare continuamente, con l’aiuto di Dio, le
nuove piante.
La messe cresce non
per la potenza dell’agricoltore, ma per la feracità che Dio ha dato alla terra;
però, se l’agricoltore non la coltiva e non la raccoglie, essa marcisce; ora
andare in nome di Dio a seminare la divina Parola nelle anime comportava anche
il preoccuparsi di conservarne e moltiplicarne il frutto, e perciò Gesù,
rivolgendosi non solo ai discepoli, ma alla Chiesa di tutti i secoli, disse: Pregate
il padrone della messe che mandi operai per la sua messe.
Gesù mandando i
suoi discepoli, fece ponderare loro la grande difficoltà del loro ministero,
dicendo: Andate, io vi mando come agnelli fra i lupi. Essi non andavano
a fare una raccolta pacifica come chi con la falce taglia i covoni del grano:
andavano di fronte ad anime colme di miserie e agitate da passioni. Essi
dovevano vincere le loro resistenze non affrontandole con la violenza ma
conquidendole con la mansuetudine e la bontà.
Questo è un
carattere fondamentale e costante nell’apostolato della Chiesa; qualunque
deviazione in questo campo produce solo rovina nelle anime.
È l’esperienza
quotidiana che lo conferma, ed è mirabile che la Chiesa vi sia stata sempre
fedele nei suoi grandi e santi ministri dell’apostolato e della gerarchia.
Le anime traviate
hanno in sé veramente qualche cosa di feroce e di terribile, e il
rassomigliarle ai lupi è precisissimo: sono indomabili, avide, aggressive,
prepotenti, violente e spesso hanno a loro disposizione i mezzi materiali per
resistere anche a mano armata e per spingersi alle più violente aggressioni.
Così avvenne nella nazione ebraica, così in quelle
pagane, quando cominciò a propagarsi il cristianesimo, e così nelle nazioni
moderne più o meno apostate da Dio, e tante volte più barbare, feroci e
aggressive di quelle pagane.
Essa
contrasta diametralmente con le generazioni moderne, abituate dalla tenera età
alla violenza; rimane fedele al precetto fondamentale e, diremmo,
costituzionale del suo divino Fondatore, e avanza sempre come agnella tra i
lupi.
È poi, una gloria
della Chiesa la pacata e solenne voce del Papa nei momenti più tragici
internazionali, e la serena oggettività della diplomazia vaticana. Il mondo, di
fronte a lei, è certamente un lupo, e un lupo rapace e sanguinario, ma è un
dato di fatto che, alla fine, rimane sempre vinto dalla mansueta e dignitosa
calma della Chiesa.
Per i missionari, povertà, semplicità,
fiducia nella provvidenza
Dopo
aver determinato con una parola sinteticamente divina la natura della missione
dei discepoli, e quindi della Chiesa, Gesù Cristo fa loro delle raccomandazioni
riguardanti l’atteggiamento che dovevano avere nella scelta dei mezzi d’azione.
Egli esemplifica secondo la mentalità che avevano i discepoli, e in fondo vuole
che essi prescindano da tutto ciò che è prestigio umano o speranza nelle
proprie forze: Non portate né sacca né bisaccia né calzari, e per la strada
non salutate nessuno, cioè
non andate in giro come mercanti o come viaggiatori di ventura, provvisti di
bagaglio né vi soffermate a chiacchierare con gli altri come chi va a diporto;
andare poveramente, raccolti e silenziosi, come chi sa di andare a compiere una
missione sacra.
I discepoli avevano
ancora una semplicità primitiva, e Gesù dice loro, con esempi, di non portare
nulla di superfluo, com’è evidente dal contesto né oggetti di ricambio, affidandosi completamente
alla provvidenza. È chiaro che essi potevano portare quello che avevano addosso
come uso personale, e che potevano salutare per carità o per cortesia, senza
attaccare ciarle inutili, quelli che avrebbero incontrati.
Se si mette a
confronto il modo povero col quale i missionari cattolici intraprendono i loro
viaggi e quello ricercato dei propagandisti settari, si capisce anche meglio il
senso profondo delle esortazioni del Signore. Il missionario viaggia come un
poverello e porta con sé il tesoro delle divine ricchezze. Gli altri viaggiano
da gran signori e portano con sé il misero bagaglio dei loro errori e della
loro avversione alla Chiesa. Viaggiano come turisti, portano con sé mogli e
figli, ricercano tutte le comodità della vita; questo solo dovrebbe bastare a
distinguerli dai veri messaggeri della verità e del Vangelo.
Gesù Cristo vuole
che i suoi discepoli vadano come apportatori di pace e con un programma di
bontà. Essi, infatti, vanno a salvare le anime, a riconciliarle con Dio e a
ridonare loro la pace della coscienza. Tutto il ministero sacro si risolve in
una questione di pace, e il suo frutto è frutto di pace. Chi lo rifiuta,
rifiuta la pace, e questa, logicamente, ritorna al banditore della
verità, il quale può rimanere tranquillo di aver fatto il suo dovere, e
contento di averne avuto il merito.
L’espressione di
Gesù, un po’ oscura in apparenza, è invece profondissima e psicologica: chi
compie una missione naturale e col fine della gloria o del vantaggio temporale,
cerca, logicamente, di riuscirvi, e si accora, o addirittura si dispera
dell’insuccesso. Tutto quello che dà o tutto quello che compie è perduto quando
non raggiunge il fine che si è proposto; egli allora, benché senza sua colpa,
sa di meritare solo una nota di biasimo e si riguarda come un fallito.
Nel ministero
sacro, invece, non è così: chi vi lavora, lo fa principalmente per la gloria di
Dio, e conseguentemente per la salvezza delle anime. Il suo lavoro di pace
diventa frutto salutare per quelle che ne profittano, e rimane in loro. Se esse
non ne fanno conto e lo rifiutano, il lavoro non è perduto, perché rimane come
merito in chi lo compie, e si può dire veramente che ritorna a lui. Egli
non è un fallito né ha motivo di riguardarsi come un inutile ingombro nella
casa di Dio: voleva principalmente lavorare per Lui, e l’ha glorificato; voleva
obbedire al mandato avuto, e l’ha compiuto, per quanto era nelle sue possibilità;
voleva anche, legittimamente, guadagnarsi un merito per la vita eterna, e l’ha
guadagnato; non gli rimane, dunque che rimanere nella pace, pur accorandosi
della ripulsa avuta dalle anime che avrebbe voluto salvare.
Il ministro della
divina Parola, di conseguenza, deve avere sempre e costantemente il pensiero e
il desiderio di glorificare Dio nel suo apostolato, se non vuole perdere tempo;
né deve agitarsi dell’insuccesso pratico in certe anime, contentandosi di
pregare intensamente per loro, affinché la misericordia di Dio le conquida e le
salvi.
Le anime oppongono
mille ostacoli e difficoltà alla loro salvezza, e illuminarle o rinnovarle è un
problema veramente arduo, e una lotta veramente epica. L’orgoglio le spinge a
resistere all’invito della grazia, l’ignoranza ostinata o la mala fede le rende
illogicamente resistenti; le fisime personali – e ne hanno tante –, le rende a
volte imprendibili. Se si parla loro quando sono prese da un impeto di
passione, in qualunque campo, e soprattutto in quello dell’impurità o dell’ira,
sono irriducibili, e giungono fino alla resistenza violenta; se si vuole
indurre in loro il desiderio di un atto di perfezione, vi ripugnano in tutti i
modi quando non coincide con le loro inclinazioni. Hanno a volte l’intelletto
deviato da uno squilibrio e non ammettono ragioni, la volontà pietrificata in
un’aspirazione falsa e non tollerano contraddizioni, il cuore impigliato in una
rete d’inganni e non vogliono esserne districate; sono schiave e vogliono
rimanere tali. Allora la premura per salvarle le urta, l’insistenza le adira,
la bontà sembra loro peggiore dell’inimicizia, disprezzano tutto quello che si
fa per loro e fuggono dalle vie della salvezza.
In questi
combattimenti ardui che sarebbero capaci di consumare l’anima e il corpo di un
ministro di Dio o di uno dedicato all’apostolato, la parola di Gesù è di sommo
conforto: quello che si fa non si perde, anzi, nell’economia della grazia, ritorna
a chi opera il bene; ritorna,
nel più stretto senso, come esperienza, come spinta ad una maggiore
vigilanza su di sé, come incitamento maggiore a pregare, a mortificarsi, a
vincersi, e anche a ritentare la prova; ritorna come un’attività più preparata
per altre anime da evangelizzare.
I discepoli ritornano dalla loro missione
Il Sacro Testo non
ci dice nulla di quello che fecero i discepoli nella loro missione, accenna
solo alla loro gioia nell’aver constatato la potenza del Nome di Gesù, innanzi
al quale anche i demoni avevano tremato.
Essi ne parlarono
al Maestro divino con esultanza, credendo di annunciargli una cosa a lui
sconosciuta, ma Egli mostrò di averli seguiti con la sua onniscienza, e
soggiunse: Vedevo satana cadere dal cielo come folgore, cioè quando voi l’avete
cacciato, l’ho visto scosso dalla sua tenebrosa potenza e inabissarsi come
folgore. Satana precipitò come folgore dal cielo quando miseramente cadde dal
suo splendore, ma nel suo spaventoso orgoglio pretende ancora di elevarsi e si
serve delle sue potenze naturali per affermare la sua pretesa grandezza.
Quanti fenomeni, che
noi crediamo puramente naturali, sono provocati o intensificati da lui, per
tentare di nuocere corporalmente all’uomo con i disastri e i cataclismi, e
spiritualmente attanagliandolo di più alla materia! Noi ridiamo di quei nostri
vecchi antichi che in tante scoperte e invenzioni moderne, vedevano la turpe
mano di satana, eppure essi potevano anche avere ragione.
Un grande scrittore
moderno francese, e per di più, a sua vergogna miscredente, ha detto: «Solo una
mente superficiale può non accorgersi del tremendo lavoro di satana in tutte le
scoperte moderne, per sottrarre l’uomo alla vita dello spirito».
L’umanità è sempre
più avvinta dalla materia, ed è tanto assediata da satana per molte delle
scoperte moderne che non si riesce più a vedere come possa rompere questi fili
d’acciaio spinato, e riconquistare la libertà dello spirito. La nostra
spaventosa superficialità non ce lo fa considerare: cinema, radio, televisione,
macchine formidabili, aeroplani, ecc., sono – o per lo meno possono essere –,
nei fini di satana, mezzi di materializzazione dell’uomo.
All’idolatria,
data ai popoli semplici e primitivi come mezzo per inclinarli alla materia,
satana sostituisce le potenti manifestazioni della materia. La potenza che
illusoriamente faceva supporre nell’idolo, per impressionare l’uomo e indurlo
all’adorazione della materia, ora la manifesta nelle applicazioni della
materia, e induce i popoli progrediti a tale scellerata idolatria da ottenere,
come in Russia, templi elevati alla macchina, al motore, ecc. Satana, in questi
suoi effimeri trionfi, ha illusione di stare in alto, nel nostro cielo terreno,
quasi da dominatore e, ogni volta che è vinto dallo spirito e dalla grazia,
egli cade come folgore, perché
la sua supposta potenza è come scarica elettrica che s’inabissa nella terra al
contatto dell’altro polo.
Se si pensa che
l’elettricità è il segreto di tante scoperte per lo meno sfruttate da satana
contro Dio, si capisce anche di più perché Gesù Cristo ha paragonato lo spirito
maligno alla folgore; satana simula quasi lo spirito attraverso l’elettricità,
e induce negli uomini l’idea letale, ultra materialistica che le manifestazioni
spirituali e divine siano effetti dell’elettricità; in tal modo è riuscito a
ridurre tanti uomini e tanti falsi scienziati nella più bassa e degradante idolatria.
Bisogna
essere sommamente vigilanti e attaccarsi scrupolosamente alla Chiesa in questi
tempi, per non deviare dal giusto cammino; anche se satana dovesse farci temere
di essere retrogradi, anche se, per ipotesi, dovessimo errare in un ritrovato
della scienza e rifiutare una sua indagine o scoperta, è mille volte più
importante salvaguardare in noi il sacro deposito delle verità eterne che una
qualunque verità naturale, perché le verità eterne ci inducono a Dio, e alla
gloria immortale, mentre le verità naturali ci conducono, tutt’al più, ad una
sterile speculazione o ad una povera applicazione che è travolta dal tempo e
che un giorno sarà consunta dal fuoco.
Don Dolindo Ruotolo
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