Commento al Vangelo della XXII Domenica TO 2013 C (Lc 14,1.7-14)
I primi posti…
Il Redentore, rivolto ai dottori della
Legge che erano presenti e ai farisei, domandò loro: È lecito guarire in giorno di sabato? Con questa domanda li pose in
imbarazzo, perché essi sapevano che guarire non era opera servile e sapevano
che riprovare in giorno di sabato un atto di carità era lo stesso che
condannarsi. Perciò tacquero. È evidente dalle parole di Gesù che, pur tacendo,
essi erano contrari a far guarire uno in giorno di sabato, non tanto per amore
della Legge, quanto per ostilità verso il Signore e, vedendo che Egli, difatti,
guarì l’idropico, fecero segni di riprovazione, e mormorarono nel loro cuore.
Perciò Gesù rispondendo ai loro pensieri disse: Chi di voi, se gli
cade l’asino o il bue nel pozzo il giorno di sabato non lo estrae subito?
I farisei non poterono rispondergli
nulla, ma si mostrarono contrariati di quella umiliazione subita e, mettendosi
a tavola, quasi per rifarsene, ebbero cura di prendere i primi posti. È
probabile che qualcuno di essi fosse stato invitato, proprio allora, dal capo
di famiglia a cedere il posto che spettava ad altri più degni, e che ne avesse
fatto lagnanza, perché Gesù rivolse la parola a tutti e cominciò ad esortarli a
prendere l’ultimo posto se non per virtù, almeno per non fare una brutta figura
innanzi agli altri.
Certo,
Gesù voleva spingerli a cercare l’ultimo posto per umiltà vera e sentita, ma i
suoi commensali non erano capaci di tanto, e si contentò di convincerli almeno
con un motivo umano. Con questo, volle in certo modo promulgare e sanzionare
quelle regole di buona creanza che sono una certa preparazione e disposizione
alla virtù vera, perché rappresentano sempre un dominio sulle proprie debolezze
e un primo abbozzo della carità verso gli altri.
È
importante, infatti, anche ai fini della virtù, disciplinare le proprie azioni
con la sana educazione e il galateo. La virtù vera produce sempre un modo di
agire delicato e gentile, ma quando la virtù manca o non si è ancora formata,
il modo delicato e gentile produce nell’anima una disposizione naturale che può
facilitare, poi, l’azione della grazia. Gesù Cristo non esorta ad operare per
un fine naturale, è evidente, ma a constatare che la mancanza di virtù induce
una mancanza di forme esterne che raccolgono il disprezzo degli altri. Ai
farisei, del resto, che operavano solo per essere onorati innanzi a tutti, era
questo il motivo per indurli a smettere quei loro atteggiamenti tracotanti e
superbi che tanto male facevano all’anima loro.
Il
galateo, base della virtù
Forse se alle anime principianti nella virtù
s’insegnasse il galateo ne guadagnerebbe la stessa virtù; il galateo è come un
abito decente posto addosso ad un pover’uomo del volgo, è una spinta a cambiare
certe abitudini disordinate, contratte a volte dalla nascita, con abitudini più
decorose e l’incivilimento della vita che è poi utilizzato dal Signore per
l’elevazione dello spirito, è il primo dirozzamento della natura che si dona a
Dio, è un tratto di nobiltà insegnato a chi non ha l’abito della gentilezza.
Insegnando
a scegliere l’ultimo posto negl’inviti, Gesù notò che alla tavola del fariseo
c’erano tutte persone di riguardo, le quali perciò facevano a gara a prendere i
primi posti.
Era
una vana ostentazione della propria eccellenza, e un profondersi in cerimonie
fatte per pura convenienza. Gesù scrutava i cuori e vedeva il retroscena di
quegl’inviti fatti per opportunismo, per disobbligo, per obbligare gli altri, e
sentì in quel pranzo tutta l’assenza agghiacciante di ogni fine gentile e
soprannaturale; perciò, rivolto al fariseo che lo aveva invitato, lo esortò,
per un’altra volta che volesse fare un pranzo, ad invitarvi i poveri, gli
storpi, gli zoppi e i ciechi, per averne merito poi innanzi a Dio nella vita
eterna.
Esortandolo
così, Gesù gli rendeva un servigio spirituale, e lo indirizzava per la via del
vero bene, dandogli Egli stesso un contraccambio prezioso dell’invito che in
quel giorno aveva avuto.
I
pranzi e
le feste
L’esortazione
di Gesù al fariseo è preziosissima per noi, e ci guida in quello che è uso comunissimo
tra tutte le genti: i pranzi fatti nelle feste e nelle solennità. Gesù non
condanna un pranzo, fatto anche per accrescere la letizia di una festa, ma ci
esorta a non renderlo una misera speculazione di orgoglio o d’interesse
personale. Egli vuole che alle nostre feste partecipino i poveri e gl’infelici,
e non dice proprio letteralmente di invitarli a pranzo, il che pure sarebbe
lodevole, ma di renderli partecipi della nostra gioia.
Un
pranzo non può ridursi, evidentemente, ad una scorpacciata, il che sarebbe cosa
indegna; è come un accrescimento della famiglia fatto con persone care ed è
un’effusione di generosità, poiché la gioia è naturalmente espansiva.
Ora, noi
siamo tutti figli del Padre celeste, ed è giusto che facciamo usufruire della
nostra generosità quelli che ne hanno più bisogno. Oh, se si capisse quale
vantaggio porta la carità e quanta benedizione portano con loro i poveri nelle
nostre feste, non faremmo mai mancare in esse la beneficenza e la carità. È
così che i pranzi non si riducono ad un più o meno larvato epicureismo, ed è
così che la povera gioia della terra si muta in gioia del CieloDon Dolindo Ruotolo.
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