Commento al Vangelo della XXVII Domenica TO 2013 C (Lc 17,5-10)
La potenza della fede
Parlando
degli scandali, Gesù Cristo alludeva principalmente ai farisei che
allontanavano le anime dalla fede nel regno di Dio e, parlando del perdono,
evitava negli apostoli un risentimento inesorabile contro di loro. Egli voleva
che aborrissero dal male ma non che si isolassero in loro stessi quasi fossero
un partito o una setta. La Chiesa
è universale anche quando discaccia gli erranti dal suo seno, perché li vuole
salvi e perdona loro con generosità.
Gli
apostoli capirono che Gesù li premuniva contro gli scandali che li scuotevano
nella fede e, riscontrando in loro effettivamente una diminuzione di fede, lo
pregarono di accrescerla nei loro cuori. Tra gli scandali, infatti, il più
spaventoso è quello che scalza dall’anima la fede; è un vero assassinio
interiore, poiché un’anima senza la fede è oscurata, è confusa, è disperata, è
morta.
A
volte una sola parola stolta o sprezzante può gettare l’anima nel dubbio, e un
dubbio positivo e volontario sulle verità eterne è già la perdita della fede.
Anche un sogghigno può disorientare un’anima dalla
verità e può produrre in lei una grande rovina. Se si ponderasse la natura di
questa rovina non si sarebbe così facili a riportare gli errori dei perversi né
si oserebbe fare una stupidissima ed insulsa propaganda contro tutto quello che
è soprannaturale, con la scusa di precisione critica e storica. Anche se si
avesse ragione per farla, non si dovrebbero gettare nell’anima dei piccoli quei
dubbi che essi poi allargano a tutta l’universalità della fede, naufragando miseramente
nei gorghi dell’errore e perdendo la grazia di Dio.
La
fede è un tesoro immensamente prezioso per l’anima e per la medesima vita
presente, poiché è faro di luce e consolazione immensa nelle sue angustie;
bisogna, dunque, custodirla gelosamente nel proprio cuore e in quello degli altri.
Gli
apostoli, domandando l’accrescimento della loro fede, desiderarono vedere
compiute opere meravigliose per confusione dei farisei e probabilmente
desiderarono compierle essi stessi. Per questo Gesù rispose che se ne avessero
avuto quanto un granello di senapa, cioè anche poca, ma viva e capace di
accrescersi, avrebbero potuto con un comando far trapiantare nel mare un
albero di sicomoro.
Col
suo sguardo divino Gesù vide le opere grandi e miracolose che gli apostoli
avrebbero fatto per la diffusione della fede nel mondo e, per prevenire in loro
e nei loro successori qualunque atto di vanità o di presunzione soggiunse, col
suo stile divinamente sintetico, che essi avrebbero un giorno lavorato molto,
ma che non avrebbero avuto mai motivo di inorgoglirsi e dovevano riguardarsi
come servi inutili, cioè
non necessari a Dio, dato che i miracoli li avrebbe operati Lui con la sua onnipotenza.
I servi inutili
È
evidente dal contesto che gli apostoli avevano domandato l’accrescimento della
fede anche per un senso subcosciente e remoto di vanità e che, desiderando confondere
con i miracoli i farisei, si stimavano necessari per la difesa del Maestro
contro le insidie dei suoi nemici. Perciò Gesù disse sotto il velo della
parabola che essi erano come servi che arano il campo del padrone e pascolano
il suo gregge e che quand’anche avessero fatto prodigi di apostolato, non
avrebbero dovuto credere di potersene gloriare, ma avrebbero dovuto riguardarsi
solo come servi inutili che,
comandati, avevano fatto il loro dovere.
Chi
conosce quanto l’orgoglio si gonfia e quanto la misera natura prova facilmente
vanità per un bene fatto, capisce tutta l’opportunità e la verità dell’avviso
di Gesù. Nel credersi nulla, c’è un’immensa gioia interiore e il sentimento
dell’umiltà tutela il bene che si fa, lo rifonde in Dio, lo feconda
maggiormente con la sua grazia e lo moltiplica nelle anime. Le parole di Gesù
sono state in tutti i secoli una difesa contro la vanità dei messaggeri della
divina Parola. Chi compie l’apostolato, infatti, essendo strumento della grazia
di Dio, può facilmente assistere ai prodigi della potenza e della misericordia
divina e può anche attribuirli
alla propria virtù o abilità.
Il
Signore, misericordiosamente, opera le cose grandi attraverso minimi mezzi e
uomini inetti; ma anche quando è evidente il suo intervento nelle opere di
bene, chi ne è strumento può sentire almeno la soddisfazione orgogliosa del
lavoro fatto, ed affacciare pretese innanzi a Dio. La parola di Gesù lo
richiama subito alla visione della realtà e, riconoscendo di aver compiuto solo
il proprio dovere e d’essere servo inutile per averlo compiuto imperfettamente,
si umilia, si annienta, fa appello alla divina misericordia, e rende così
possibile l’accrescimento del bene.
Chi
ha un po’ di esperienza di apostolato vero, sa quanto è letale per esso
l’orgogliosa soddisfazione, e sa che essa è il segno sicuro di non avervi
prodotto veri frutti di vita eterna.
È
necessario, dunque, mettervi come base l’umiltà e cercarvi non la propria
soddisfazione ma la gloria d i Dio e il vero bene delle anime. Servo inutile Don Dolindo Ruotolo
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