Commento al Vangelo della XXVIII Domenica TO 2013 C (Lc 17,11-19)
La guarigione dei lebbrosi
Si
avvicinavano le feste pasquali, e Gesù intraprese l’ultimo suo viaggio a
Gerusalemme per compiervi la sua divina missione. Passò in mezzo alla
Samaria, ossia tra i
confini della Samaria e della Galilea, avviandosi verso la Perea e, stando per entrare
in un villaggio, ancora nell’aperta campagna, gli andarono incontro dieci
lebbrosi, i quali, fermatisi da lontano per non avere contatti col popolo, alzarono
la voce implorando pietà. La loro fede in Gesù era in quel momento un atto di
fiducia; essi lo sapevano potente e speravano che avrebbe potuto alleviare le loro
pene; non era ancora una fede di pieno abbandono, e Gesù volle suscitarla in
loro con un comando al quale potevano obbedire solo con una fede piena. Andate – Egli disse –, fatevi vedere
dai sacerdoti.
Si andava
dai sacerdoti per far constatare la guarigione e fare l’offerta al tempio (cf Lv 14,10-21); ora essi erano ancora
infermi, e solo con un atto di viva fede e di obbedienza poterono avviarsi a
Gerusalemme. Mentre andavano, si sentirono sani, e continuarono il loro
viaggio; solo uno di essi, un Samaritano, accortosi d’essere guarito, ritornò
sui suoi passi e, glorificando Dio ad alta voce, si prostrò ai piedi del
Redentore, ringraziandolo. Gli altri nove, nell’esultanza della riacquistata
salute, preoccupati com’erano di rientrare subito nel consorzio umano, dal
quale la terribile malattia li escludeva, non pensarono di andare a ringraziare
Gesù glorificando Dio. Questo era un atto d’ingratitudine del quale Gesù si
lamentò, sia per far rimarcare a tutti la loro guarigione, sia per esortarli
alla gratitudine nei benefici divini, facendo rilevare che questo dovere
l’aveva sentito solo un Samaritano da essi sprezzato come eretico e scismatico.
La
lebbra del peccato
Passando
per la Samaria ,
Gesù volle fare un atto di delicata misericordia verso quel popolo disprezzato
e, mostrando la gratitudine e la fede del Samaritano, volle mostrare che quel
popolo non era inferiore, anzi poteva dirsi in quel momento superiore a quello
Giudeo. Egli così stroncava quel senso di disprezzo che aveva il popolo nell'attraversare la Samaria ,
impediva ogni recriminazione, e chiamava tutti, indirettamente, all'unità che
Egli era venuto a stabilire in terra.
Gesù
Cristo andava verso Gerusalemme per dare la sua vita per tutti e rendersi Egli
come un lebbroso per amore; andava incontro ai peccatori, veri lebbrosi nell'anima e volle, con un miracolo, manifestare in simbolo quello che gli
ardeva nel Cuore. Egli avrebbe dato il Sangue per salvarci, ma non ci avrebbe
applicato il prezzo della redenzione senza la mediazione sacerdotale.
È
un’illusione tristissima pensare che solo perché Egli può salvarci senza mediatori,
lo voglia. Istituendo il Sacerdozio, Egli ha detto a tutti gli uomini: Andate
e mostratevi ai sacerdoti. Era logico, del resto, poiché, avendoci Egli
salvati con la sua obbedienza fino alla morte di croce, ha voluto che avessimo
usufruito della salvezza, obbedendo nell'umiliazione di tutti noi stessi ai
piedi di un sacerdote, fino alla morte delle nostre miserie.
La
gratitudine degli uomini
Il
Signore si lamentò che dei dieci lebbrosi guariti uno solo fosse ritornato per
ringraziarlo e dare lode a Dio, e volle insegnarci così che è un nostro imprescindibile
dovere la gratitudine per i benefici che riceviamo dal Signore. L’atto della
gratitudine è un riconoscimento della gloria di Dio, è una confessione della
sua potenza, ed è un sentimento di abbandono filiale a Lui perché ci benedica
come Padre amorosissimo.
Il
Signore lo esige non tanto perché la nostra gratitudine possa essergli necessaria
– benché la nostra lode accresca la sua gloria accidentale –, ma perché l’atto
della gratitudine apre per noi nuove fonti di misericordie e di grazie. Gesù
Cristo, infatti, benché il lebbroso Samaritano fosse già guarito, vedendolo
prostrato ai suoi piedi, intenerito disse: Alzati, vattene, la tua fede ti
ha salvato. Con queste parole volle indicare che nuove grazie scendevano su quell'anima e su quel corpo, e che la fede di lui, preziosissimo dono fra tutti
i doni, veniva in lui fortificata con quella speciale misericordia.
Ogni
volta che ringraziamo Dio, riceviamo dalla sua bontà un nuovo dono, e per
questo i primi cristiani solevano salutarsi con queste dolci parole: Deo gratias.
Ai pagani sembrarono parole stolte, perché erano più una conclusione che un
saluto; eppure i primi cristiani si salutavano veramente, ringraziando Dio di
essersi rivisti, e ringraziando di essere redenti da Gesù Cristo.
Noi, gl’ingrati!
Bisogna
confessare che noi siamo ingrati al Signore, pur vivendo in mezzo ai suoi
continui doni spirituali e corporali. Noi non possiamo ponderarli, tanto essi sono
innumerevoli. Se riflettessimo solo ai principali, cioè alla vita dell’anima e
a quella del corpo, ai pericoli dai quali siamo liberati, alle bellezze
soprannaturali e naturali che ci circondano, dovremmo vivere con la faccia
prostrata nella polvere, pieni di riconoscenza. Invece non solo siamo ingrati,
ma ci lamentiamo proprio dei doni più belli di Dio: della vita, delle
purificazioni della vita per le croci, e di tutte le delicatezze amorose con le
quali Egli ci libera dal male e ci orienta all'eternità.
Abbiamo a nostra
disposizione il sacramento della Penitenza, dove la nostra lebbra spirituale
viene mondata e non solo non ringraziamo Dio, ma tante volte lo riguardiamo
come un peso. Abbiamo l’Eucaristia, Dono dei doni, e viviamo tanto freddamente
innanzi al tabernacolo, da mostrarcene annoiati. Abbiamo mille ricchezze nella
Chiesa e viviamo sempre poveri, sprezzando quasi la vita che da essa riceviamo,
e attaccandoci miseramente alle vanità del mondo! Quanti dolori diamo a Gesù
con la nostra ingratitudine! Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo
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