sabato 28 dicembre 2013

La fuga in Egitto

Commento al Vangelo I Domenica dopo Natale 2013 (Mt 2,13-15.19-23)
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe

La fuga in Egitto
        Erode attendeva il ritorno dei Magi, e forse la sua attesa fu intensificata dalle voci che corsero a Gerusalemme per ciò che era avvenuto nel tempio durante la presentazione di Gesù. Le parole del vecchio Simeone, conosciutissimo e venerato da tutti, correvano di bocca in bocca, ed è verosimile che, tanto lui quanto la profetessa Anna, avessero fatto conoscere al popolo che era nato il promesso Messia. Certo è che il re, avendo atteso invano il ritorno dei Magi, capì di essere stato burlato da loro, e si sentì avvampare di sdegno. Capì, dalle voci che correvano, che veramente qualcosa di straordinario era dovuto avvenire, e senz’altro decise di mandare ad effetto il suo divisamento di uccidere il nato Bambino. Computò il tempo nel quale sarebbe potuto nascere, dalle indicazioni dei Magi e, per essere sicuro che non sfuggisse, ordinò la simultanea strage di tutti i bambini di Betlemme e dei suoi dintorni dai due anni in giù. Nessuno può immaginare la desolazione che colpì quelle pacifiche e ridenti contrade: pianti di madri, grida di bimbi innocenti, sangue che scorreva e, di fronte a questo spettacolo, l’implacabilità spietata dei carnefici!
        La borgata di Betlemme era piccola, e i suoi dintorni limitati, ma ciò non toglie che l’ordine crudele di Erode la gettò nella costernazione, perché i suoi bimbi furono uccisi spietatamente.
        L’evangelista sintetizza questa costernazione di Betlemme citando liberamente e sul testo ebraico una profezia di Geremia (31,15) che letteralmente riguardava i prigionieri Ebrei raccolti in Rama da Nabucodonosor per deportarli a Babilonia, e tipicamente riguardava la strage degl’innocenti. Vicino a Betlemme c’era la tomba di Rachele, e il profeta dice che la defunta piange da quella tomba i suoi figli, riguardando come suoi figli i connazionali del territorio dove era il suo sepolcro, sia quelli deportati da Nabucodonosor, sia quelli uccisi da Erode. L’espressione doppiamente profetica è bellissima, perché annuncia un lutto così grave e profondo, da suscitare il rammarico e far fremere le stesse ossa della defunta Rachele.
        Erode, nella sua crudeltà, aveva creduto di disfarsi definitivamente del nato Re, senza sapere che Egli era Dio e sarebbe sfuggito ai suoi tranelli.
        L’angelo del Signore, infatti, avvisò in sogno Giuseppe di fuggirsene in Egitto, e il santo Patriarca, senza indugiare, compì la divina volontà. Non discusse, non manifestò le difficoltà del viaggio per il Bambino e la sua Santissima Madre: raccolse le sue povere cose, e si avviò per la via carovaniera e per altre vie, attraverso il deserto, alla terra a lui indicata dal medesimo messaggero celeste.
        Il Signore aveva chiamato dall’Egitto il suo popolo, riguardandolo come suo figlio e, chiamandolo, aveva annunciato che suo Figlio, fatto uomo, sarebbe stato esule in quella regione e sarebbe stato richiamato dalla sua voce nella terra dove avrebbe dovuto svolgere la sua missione. La citazione che l’evangelista fa di un testo di Osea (11,1) dimostra che, al di sopra degli eventi provocati dalla malvagità umana, c’era il placido disegno di Dio che si svolgeva, compiendo i tipi e le profezie.
        Il Redentore voleva essere esule per richiamare alla Patria eterna gli esuli del mondo e, come il popolo ebreo, uscendo dalla schiavitù dell’Egitto, divenne nazione, così l’Esule divino, ritornando alla terra promessa, doveva formare gli esuli della Patria eterna, la nazione santa, la Chiesa.
        Erode, poco dopo la strage degl’innocenti, morì ignominiosamente nel mese di aprile del 750 di Roma.
        Subito dopo la sua morte, l’angelo del Signore apparve in sogno a san Giuseppe e lo esortò a ritornare in patria, essendo morti quelli che insidiavano la vita del Bambino divino. San Giuseppe ritornò e si avviò verso la Giudea per ristabilirsi a Betlemme. Seppe però che là regnava Archelao, empio e sanguinario; pregò per avere lumi e, avvisato dall’angelo, si avviò nella Galilea alla piccola borgata di Nazaret, dove c’era la casetta di Maria. Sembrava un evento ordinario, eppure il Signore stesso disponeva che san Giuseppe si fosse stabilito a Nazaret che doveva dare a Gesù il soprannome di Nazareno, e additarlo al mondo come il Re promesso, il Virgulto, il Germoglio, il Fiore della radice di Iesse. L’evangelista dice che si avverava ciò che avevano detto i profeti: Egli sarà chiamato Nazareno; in realtà i profeti l’avevano chiamato solo con quello che etimologicamente significa Nazaret: Isaia l’aveva chiamato Nezer, germoglio, virgulto (11,1); Geremia (23,5; 33,15) e Zaccaria (3,8; 6,12) l’avevano chiamato Zemah, gerna; il soprannome, perciò, preso dalla piccola, dispregiata e quasi sconosciuta Nazaret, mai nominata nell’Antico Testamento, si riferiva al significato etimologico del nome della borgata, e i profeti, annunciando il Nezer e il Zemah, annunciavano Colui che, come Re universale, si sarebbe chiamato Gesù Nazareno. Questo nome fu affisso sulla croce, e questo nome risuona dall’uno all’altro capo del mondo in mezzo ai popoli che acclamano il Re immortale dei secoli.
         Il timore di san Giuseppe, dunque, e la sua conseguente preghiera attrassero dal Cielo il lume di andare nella Galilea; andato là, le circostanze stesse della sua vita lo condussero a Nazaret, città di Maria, mentre dall’alto si utilizzavano queste circostanze per dare al Redentore, sotto il velo del nome della borgata, l’appellativo tipico col quale l’avevano designato i profeti.
Padre Dolindo Ruotolo

martedì 24 dicembre 2013

Natale del Signore

Commento al Vangelo Natale del Signore 2013 (Lc 2,1-14)
Messa del giorno – Don Dolindo Ruotolo
Il momento della nascita di Gesù Cristo
        Era stato predetto dai profeti che il Redentore doveva nascere a Betlemme, e il Signore, che tutto dispone attraverso i medesimi eventi umani, utilizzò una circostanza della vita civile per far trovare Maria a Betlemme.
        Nazaret distava da questa città circa 120 chilometri; ora, senza una pressione legale, Maria Santissima giovane madre prossima al parto, non avrebbe creduto prudente fare un viaggio così lungo. Il Signore avrebbe potuto, è vero, rivelarlo a san Giuseppe, ed ottenere lo stesso risultato, ma Egli volle escludere, dalla nascita di Gesù, tutto ciò che poteva sembrare appositamente voluto per far verificare la profezia; gli eventi, indipendenti dalla volontà, anzi contro la volontà umana, mostravano meglio le disposizioni divine nella nascita del Redentore.
        Cesare Augusto, primo imperatore romano, nel fasto della sua gloria ordinò parecchi censimenti per accertarsi della popolazione dell’impero e dell’obbligo del tributo per tutti i suoi sudditi. Il primo di questi censimenti, esteso anche alla Palestina, fu fatto sotto Publio Sulpizio Quirino che al modo greco è chiamato nel Sacro Testo Cirino. Il censimento fu fatto non secondo l’uso romano, per il quale ciascuno si faceva iscrivere nei registri del luogo dove abitava, ma secondo l’uso ebraico, per il quale ognuno andava ad iscriversi nella sua città di origine. Era logico, del resto, perché gli Ebrei erano tenaci conservatori delle tribù e delle famiglie, e un censimento di semplice domicilio non avrebbe dato la vera prospettiva demografica della nazione.
        La legge umana è inesorabile e non ammette scuse: bisogna sottostarvi per forza, se non vi si vuole sottostare per amore. San Giuseppe, però, e Maria Santissima, abituati all’obbedienza alla divina volontà, accettarono l’ordine non come un’imposizione inopportuna per essi, subita per timore, ma come una disposizione indiretta del Signore, e intrapresero subito il faticoso viaggio per recarsi a Betlemme, loro città d’origine perché discendenti di Davide.
        È commovente pensare a questo viaggio intrapreso quando la stagione era già fredda, perché è tradizione costante nella Chiesa che Gesù sia nato in inverno. Due creature ignote al mondo, ma immensamente privilegiate innanzi a Dio, camminavano portando con loro, nascosto nel seno materno, il Verbo di Dio! Camminavano in pace, nella povertà, lodando e benedicendo il Signore.
        Un asinello – com’è tradizione e com’è giusto pensare –, serviva loro di cavalcatura e portava il loro piccolo bagaglio. Giuseppe lo guidava, e Maria vi sedeva sopra; erano tutti e due il quadro vivo della purezza, dell’amore e della pace. L’asinello doveva sentire inconsciamente il benessere di avere dei padroni così sereni e, guidato dall’angelo di Dio, come potrebbe supporsi, prendeva il giusto cammino. Aveva quel portamento di sicurezza e di fedeltà che hanno gli animali vicino ai padroni benefici e, senza ripugnare o recalcitrare, andava avanti mansueto. Maria, tutta raccolta, pregava. Era più bella nella sua avanzata gravidanza, aveva il volto soffuso di pace, e sembrava l’Arca di Dio, perché portava nel grembo il suo Figlio divino. San Giuseppe andava avanti raccolto, con quel suo bel volto pieno di verginale fulgore, ingenuo, semplice, umile, servo fedele della divina volontà, col suo sensibile cuore pieno di angustia per il disagio della sua immacolata Sposa.
        Nel silenzio della strada deserta, fra la solitudine degli alberi già spogli, risuonava lo scalpitare dell’asinello ed echeggiavano gli ultimi canti sommessi degli uccelli... La natura sembrava un’immagine dell’uomo, intristito dalla colpa, e il Verbo divino, fatto per amore Pellegrino della terra, avanzava nel seno materno verso Betlemme, per compiere le promesse della misericordia e salvarlo. Nessuno supponeva che si avverassero in quel momento tanti vaticini dei profeti, e che il Sole di giustizia cominciasse a sorgere dalle tenebre della povera terra brumosa, carica di colpe e di affanni.
        Giunsero a Betlemme dove, a motivo del censimento, vi era un gran concorso di gente sia negli alberghi pubblici, sia nelle case ospitali, di modo che san Giuseppe non poté trovare chi lo accogliesse con la sua Vergine Sposa Immacolata. Dovette cercare rifugio in una grotta, adibita per ricoverarvi gli animali nelle notti fredde o tempestose, e lì procurò d’allestire un poverissimo alloggio, dato che per Maria si avvicinava il tempo del parto. Non può dirsi che fossero angosciati per quella povera dimora, perché erano ambedue immersi nella divina volontà, e amavano immensamente il nascondimento e la povertà; ma san Giuseppe, come custode di Maria, era afflitto dal disagio di Lei, e Maria pensava, con immensa pena e tenerezza, al suo Figlio che mancava di tutto, nel venire alla luce. S’intrecciavano, per così dire, due rami fioriti di carità e di amore, e formavano essi soli l’ornamento fragrante di quella grotta desolata.

La nascita di Gesù

        Venne la notte. Era algida ma serena, e brillavano gli astri nel cielo. Un silenzio grande circondava quel luogo, e una solennità più grande vi regnava, perché l’invisibile corte celeste già veniva in terra a corteggiare il Re divino, e rifulgeva nella sua placida luce spirituale, fatta tutta di conoscenza e di amore. Gli uomini e le cose dormivano, e lontano lontano si vedeva solo qualche bagliore dei fuochi dei pastori che vigilavano il gregge. Gli astri roteavano nel cielo, seguendo le leggi di ordine loro assegnato da Dio, e nel corpo immacolato di Maria si compivano con la stessa precisione le leggi della procreazione. Rutilavano le stelle e rutilava il Sole divino verso l’orizzonte della vita terrena, prossimo a spuntare come raggio attraverso il seno immacolato della Madre.
        Il sole è preceduto dall’aurora ed è accompagnato dalla stella più fulgida della notte che sparisce nei suoi raggi. Ora, la bella aurora della nascita del Re d’Amore era Maria, nell’elevazione del suo amore, e la stella tremolante in adorazione era san Giuseppe. Maria era tutta un fulgore di contemplazione e di estasi. Bella nella sua innocenza purissima, circondata da un tenue nembo di luce che la delineava nella notte come placida luna nel firmamento, genuflessa, con le mani congiunte e lo sguardo al cielo, era l’immagine del seno del Padre, e rifletteva da sé qualche barlume dell’eterno mistero.
        Contemplava.
        Si trovava tra l’eternità senza tempo e i tempi carichi di secoli; mirava nell’eternità il Verbo, Termine dell’eterna generazione del Padre, e mirava nel tempo il percorso dei secoli delle promesse che terminavano in Lei con la generazione temporale del Verbo nella umana carne.
        Era tutta avvolta dalla luce dell’eterna armonia, ed era tutta un’armonia d’amore. La grazia rigurgitava per così dire in Lei, tanta ne era l’abbondanza, ed Ella vi era immersa in un placidissimo riposo.
        Contemplava il cielo, e un sorriso le sfiorava le labbra nella gioia immensa che vi regnava; contemplava nel suo seno il Verbo eterno che vedeva nel Padre, e la sua vita mortale s’illuminava di splendori eccelsi, poiché era Madre di Dio. L’Amore eterno che l’aveva fecondata, la illuminava tutta ed Ella, a poco a poco, si trasumanava. Sembrava tutta luce e, come un ferro incandescente nel fuoco, brillava, perché traspariva da Lei il Verbo Incarnato.
        Il suo corpo immacolato era come spirito, sembrava trasparente, anzi evanescente nella luce del Verbo. L’eterna vita affiorava dalla piccola creatura umana e la passava come raggio che attraversa un cristallo.
        Oh, prodigio di Dio! Le madri sentono dolori immani quando un figlio viene alla luce, e sentono strapparsi quasi la vita dalla piccola vita che irrompe nel mondo; Maria, invece, sentiva una gioia immensa a misura che il momento della sua maternità si avanzava. L’amore quasi la liquefaceva e il suo corpo sembrava fluido come una cascata di fulgori placidissimi.
        Fu un momento sublime: tratta a Dio, si sentì tutta immersa nella conoscenza dell’infinita sua grandezza, la contemplò amandola, e volle applaudirla con una lode proporzionata che avrebbe voluto trarre dal pieno olocausto di se stessa.
        Le ritornò sulle labbra il suo cantico: Magnificat anima mea Dominum e, nell’elevarlo innanzi a Dio con tutto l’impeto del suo amore, non eruppe dal suo Cuore una parola ma il Verbo, la Lode eterna del Padre, e si adagiò sul terreno come un raggio di luce, lodando il Padre nell’umana carne. Era l’umiliato per amore e vagì.
        Il Verbo eterno aveva una voce d’immolazione e penava. Non era avvolto dall’eterna Fiamma che lo congiungeva al Padre, ma l’avvolgeva l’atmosfera gelata della notte e tremava. Non aveva trovato altro sulla terra. L’amore materno ritrasse Maria dall’estasi celeste e, scossa dai vagiti del Figlio divino, lo guardò: era perfettissimo, roseo come un bocciolo spuntato nell’inverno, soffuso di bontà, divino, santificante, inondante gioia. Lo adorò, lo prese, lo baciò, lo strinse al Cuore, lo avvolse in pannicelli mondi; nell’avvolgerlo, si sentì tutta inondata di tenerezza e lo ripose in una mangiatoia, perché non aveva altra culla per il Re del cielo.
        Adorò, tacque, ricongiunse le mani, volse al cielo lo sguardo e l’offrì al Padre; era un Fiore degno di Lui, era il Figlio suo, ed Ella l’offrì in nome di tutta l’umanità, perché era anche il Figlio del suo seno immacolato.
        Il piccolino si addormentò. Ahimè, era troppo triste la terra senza la luce di Dio, ed Egli era la Vittima dei peccati di tutti. Cominciò allora il palpito amoroso della sua immolazione, e si addormentò offrendosi, come se morisse nascendo, poiché il suo sonno era amorosa offerta di sé, come lo era la vita.
        San Giuseppe, poco lontano, era stato tutto immerso in una profondissima umiltà. Nessuna creatura sentì mai il proprio nulla come lo sentì lui, in quel momento. Non osò avvicinarsi. Sentiva troppo la grandezza della Madre e la divinità del Figlio.
        Maria gli fece un cenno e lo avvicinò a Gesù, Mediatrice d’amore e di misericordia, per la prima volta, tra Gesù e una creatura.
        San Giuseppe lo guardò, e l’ombra luminosa del Padre lo avvolse; Egli lo rappresentava, e una grande dignità elevava il povero fabbro ad un’altezza di santità che nessuno mai ebbe in terra, poiché nessuno fu reputato padre del Verbo di Dio Incarnato. Lo prese fra le braccia e, baciandolo, se ne comunicò, perché in quel bacio sentì ardere il cuore di una tenerezza d’amore mai provata; era come la consacrazione del suo grande ufficio d’amore. Lo ripose nella greppia e, genuflesso, rimase in adorazione con Maria...
        Passavano in alto gli astri quasi occhieggiando alla terra; la forza infinita che li teneva sospesi in un’armonia perenne era in quell’umile punto smarrito... Sembrò una festa tra le sfere celesti che avevano segnato il primo momento della vita temporale dell’Eterno... Avevano segnato per la prima volta un tempo che non poteva essere fugace e rimaneva negli splendori dell’eterna attualità. Il Signore li aveva sublimati ad una funzione più grande, poiché segnavano, ad uno ad uno, i palpiti d’una vita mortale di valore infinito. La terra era sublimata ad un’altezza mirabile anch’essa, poiché era divenuta il trono di Dio. La natura si ravvivava, e la pia tradizione che ce la fa vedere tutta rifiorire è tutt’altro che una leggenda, poiché essa ha tante volte fiorito anche alla presenza d’un santo, parte privilegiata del Corpo mistico del Redentore.
        Dormivano gli uomini, è vero, ed erano immersi in un torpore di morte, perché ingrati; ma, nel compimento della divina promessa, fremettero di gioia i patriarchi e i profeti, e su di essi passò un soffio d’immortale speranza per la prossima liberazione.
         Il coro del creato era come nota sommessa che accompagnava le note d’un cantico più bello d’amore, erompente dal Cuore di Maria e di san Giuseppe: Magnificat anima mea Dominum!


sabato 21 dicembre 2013

La nascita di Gesù Cristo

Commento al Vangelo IV Domenica di Avvento 2013 (Mt 1,18-24)

La nascita di Gesù Cristo
        La Vergine Santissima fu sposata a san Giuseppe per obbedienza, perché, come si usava presso gli Ebrei, il matrimonio veniva trattato dai genitori o dai parenti più prossimi della fanciulla, a volte senza che ella lo sapesse.
        Giunta all’età da marito che era quasi sempre al dodicesimo anno, veniva promessa al giovane che ne faceva richiesta, e celebrava gli sponsali, prendendo impegno con giuramento, ella e lo sposo, di contrarre le nozze.
        Il periodo degli sponsali durava un anno per le vergini e un mese per le vedove e, in questo tempo, benché dimorassero ognuno a casa propria, i promessi sposi si riguardavano legittimamente coniugati, e un figlio che fosse stato generato in questo periodo era riguardato come legittimo anche legalmente. Nel tempo degli sponsali, gli sposi corrispondevano fra loro per un intermediario di fiducia che era chiamato amico dello sposo. Dopo un anno si celebravano le nozze, e la sposa veniva accompagnata solennemente in casa del marito. Maria Santissima era stata sposata a san Giuseppe, giovane di circa ventisei anni, modello di virtù che il Vangelo caratterizza con una sola parola chiamandolo giusto, ossia santo. Probabilmente fu san Zaccaria che trattò il suo matrimonio sia perché sacerdote e sia perché i genitori della Vergine Santissima dovevano essere già morti.
        Sposata, non era stata ancora accompagnata a casa dello sposo. Ella aveva promesso a Dio con voto di conservarsi vergine, e aveva consentito alle nozze per obbedienza, confidando che il Signore l’avrebbe custodita, e confidando anche nella virtù dello sposo che doveva esserle nota, essendo egli suo cugino.
        Raccolta nella preghiera, umiliata profondamente innanzi a Dio, aspettava che la Provvidenza avesse pensato alla sua situazione. È evidente che non manifestò a nessuno, e neppure a san Giuseppe il voto che aveva fatto, ma aveva la certezza che il Signore sarebbe intervenuto con uno dei suoi tratti di misericordia, per liberarla dalle sue angustie. Fu in questo periodo di attesa e di preghiera che si trovò incinta del Verbo eterno per opera dello Spirito Santo.
        San Matteo non racconta i precedenti di questa concezione miracolosa: presenta il fiore verginale già fecondo senza opera umana, intatto e purissimo, e dice solo che Maria fu trovata feconda senza che convenissero insieme Ella e san Giuseppe, per mostrare che si era verificata la profezia di Isaia sul parto verginale della Madre del Redentore.
        San Giuseppe si accorse di questo per le mutate condizioni dell’aspetto di Maria; forse fu attratto a considerarla perché sentì da Lei una santità arcana; egli non poté pensare male di una Vergine che conosceva illibata, ma non osò contravvenire alla Legge che comandava di rimandare col libello del ripudio la consorte che fosse venuta meno alla fedeltà. Ciò che si manifestava in Maria, la quale stava già al quarto mese dalla concezione del Verbo, era umanamente inspiegabile, e legalmente poteva solo apparire come una trasgressione.
        Fu un momento terribile di angustia nel quale il santo dovette pregare ardentemente. La Vergine Santissima, dal canto suo, non osò rivelargli il mistero avverato in Lei, e si rimise al Signore, sembrandole che poteva essere incredibile senza una luce speciale di Dio. Il Signore intervenne e, attraverso il ministero di un angelo, illuminò l’afflitto Giuseppe sulla concezione miracolosa del Redentore. Il santo patriarca, semplice, silenzioso, umile, purissimo, compiva in sé la figura dell’antico Giuseppe, e il Signore gli si rivelò nel sonno, forse nella veglia, un’apparizione lo avrebbe troppo spaventato, forse avrebbe potuto anche soffrirne per la sua profonda umiltà; il fatto è che il Signore stimò più proporzionato a lui parlargli nel sonno.
        Il messaggio dell’angelo era eccezionalmente straordinario, ma san Giuseppe vi prestò piena fede, e vide in esso, con esultanza, il compimento delle antiche promesse. Capì perfettamente che egli era scelto come custode del Figlio divino di Maria, e dell’illibata verginità di Lei. Le parole di Isaia, citate dall’evangelista, furono luminosissime nell’anima sua, ed egli obbedì al Signore con piena sottomissione.
        Con ogni probabilità e verosimiglianza san Giuseppe celebrò il matrimonio con Maria Santissima per obbedienza, avendo anch’egli il fermo proposito di conservarsi vergine. Non è solo una supposizione questa, ma è consono al modo di operare di Dio che volle il matrimonio per celare il mistero ai profani e non esporlo alla profanazione, ma che non poté non affidare, ad un purissimo giglio, il giglio immacolato dal quale sbocciò il Redentore.
        Spira, dal racconto evangelico, un tale profumo di purezza che non può supporsi in nessun modo che san Giuseppe si sia sposato con un ideale umano. Egli capì di compiere la divina volontà, ed aspettò le disposizioni del Signore, consacrandosi tutto a Lui. Forse per questo, dopo che furono celebrate le nozze, non condusse ancora Maria a casa sua, ma lo fece solo al ritorno di Lei dalla casa di santa Elisabetta, dopo la rassicurazione dell’angelo.
         Il Vangelo insiste sulla verginità di san Giuseppe, facendo rilevare che non fu insieme con la consorte in nessun modo né quando Ella concepì il Redentore né dopo che l’ebbe partorito. L’espressione: ed egli non la conobbe fino a quando partorì il suo figlio primogenito (che egli chiamò Gesù), ha questo preciso valore nel Testo e nel contesto. L’evangelista usa quell'espressione proprio per insistere sulla concezione miracolosa del Redentore, e per escludere che nella sua nascita vi sia stato alcun concorso umano. Egli chiama Primogenito Gesù Cristo non per far supporre che sia stato il primo di una serie, ma per determinare le sue prerogative di primogenito che gli spettavano pur essendo Unigenito, e per designare soprattutto il Primogenito della nuova generazione dei figli di Dio, e del nuovo patto. Gesù Cristo è il Primogenito di Maria, noi siamo i secondogeniti. Se l’espressione del Vangelo sembra oscura – tanto da far disorientare i poveri protestanti e quelli che non concepiscono le arcane bellezze della verginità –, la sua oscurità è solo apparente, e serve a farci confessare per fede quello che è evidente perché è una realtà storica.
Sacerdote Don Dolindo Ruotolo

sabato 14 dicembre 2013

L'ambasciata di san Giovanni Battista

Commento al Vangelo III Domenica di Avvento 2013 (Mt 11,2-11)

L’ambasciata di san Giovanni Battista
        Gesù Cristo era andato ad annunciare la buona novella nelle città della Galilea, accompagnando la sua predicazione con strepitosi miracoli, e raccogliendo sempre più, intorno a sé, un gran numero di seguaci. Questo dovette urtare la suscettibilità dei discepoli di san Giovanni Battista, i quali credevano di vedere in Gesù Cristo quasi un emulo del loro maestro.
        Il santo Precursore si trovava imprigionato a Macheronte nella Perea, per aver rimproverato Erode del suo adulterio e, non potendo sfatare personalmente le idee dei discepoli, pensò d’inviarli a Gesù perché la stessa parola viva del Messia li avesse convinti. Che sia stata questa l’intenzione di san Giovanni risulta chiaramente dal contesto e dall’elogio che di lui fece Gesù.
        Per la relativa facilità con la quale allora i prigionieri potevano corrispondere con le persone care, e per la maggiore libertà che gli dava Erode stesso, san Giovanni fu informato delle grandi opere che Gesù compiva, e questo accrebbe la sua fede in Lui, e gli fece desiderare maggiormente di glorificarlo dinanzi al popolo. Era stato mandato per annunciarlo e aprirgli la strada, e volle compiere, anche dal carcere, la sua missione, rendendo testimoni del Messia i propri discepoli. Questi andarono da Gesù in un momento nel quale Egli faceva molti miracoli e, parlando in nome di san Giovanni, dissero: Sei tu colui che deve venire, o ne dobbiamo aspettare un altro? La stessa domanda dimostrava la stima che il Precursore aveva di Gesù Cristo, poiché si rimetteva a Lui per una risposta come la più autorevole e santa che potesse avere.
        Gesù Cristo rispose con la testimonianza dei fatti che rispondevano alle profezie fatte sul Messia (cf Is 35,5ss e 61,1): I ciechi recuperano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risorgono, i poveri sono evangelizzati.
        Era l’argomento più adatto a convincere i discepoli di san Giovanni, poiché il loro Maestro non aveva fatto miracoli e non poteva essere lui il Messia, come forse essi ammettevano, o per lo meno sospettavano. Ad essi sembrava che il loro maestro avesse un aspetto più austero e venerando e che il fare semplice e cordiale di Gesù fosse inconciliabile con la dignità di Messia, per questo il Redentore soggiunse: Beato chi non prenderà in me motivo di scandalo. Egli voleva dire: le opere parlano di me, ma io non cesso di essere ammantato di umiltà, e beato colui che, nonostante questo, mi segue e ascolta la mia parola.

Gesù Cristo elogia san Giovanni Battista
        La domanda fatta da san Giovanni per mezzo dei due discepoli, mandati per far loro toccare con mano la verità, poteva sembrare come un atto di sfiducia nella realtà del Messia da parte del Precursore. Per dissipare questo equivoco, Gesù ne fece l’elogio più bello, e lo fece dopo che gli ambasciatori di lui se ne andarono, perché il suo elogio non fosse apparso come una lusinga o un’adulazione. Le turbe erano andate dietro a san Giovanni, attratte dalla sua fama, e lo avevano seguito anche nel deserto dov’egli si ritirava; ora, che cosa erano andati a vedere? Forse un uomo incostante che, quasi come una canna sotto la raffica del vento, si lascia inclinare laddove il vento soffia?
        Egli, invece, era stato fermo contro la stessa perversità di Erode, e aveva compiuto con ferma fede la sua missione di Precursore, senza esitare un momento, come sarebbe potuto apparire dall’ambasciata da lui mandata.
        Che cos’erano andati a vedere? Un uomo vestito mollemente? Ma chi veste così sta nella casa dei re, dove la vita è spesso sensuale e leggera. Egli, invece, era l’esempio dell’austera penitenza, e col suo esempio insegnava a preparare l’anima alla redenzione, rinnegandosi. Egli non era solo un profeta, come lo stimavano le turbe, era più di un profeta, era colui che fu preannunciato da Malachia (3,1), come l’angelo, cioè il nunzio che doveva preparare le anime alla venuta del Messia, era l’ultimo e più grande rappresentante dell’Antico Testamento, il quale non annunciava o figurava il Messia futuro, ma lo additava presente. Per questa grande missione, da lui compiuta con fedeltà incrollabile, egli era il più santo di tutti i profeti e aveva una dignità che li superava tutti.
        Gesù Cristo conferma questa superiorità del Precursore sui profeti con gli effetti della sua missione: i profeti suscitarono la fede e la speranza nel futuro Messia; Giovanni, invece, attirò le turbe e le indirizzò verso il compimento delle antiche promesse, lo fece con tanto ardore che, dopo la sua predicazione, il regno dei cieli è diventato non un termine di aspirazione ma di conquista reale, e il desiderio della salvezza quasi una gara e una ressa per conseguirla.
        Il popolo, infatti, accorse sulle rive del Giordano, dove Giovanni predicava, domandò il battesimo di penitenza; cominciò a prepararsi a partecipare al regno di Dio, e letteralmente fece ressa e quasi violenza per avere il segno della penitenza. Giovanni, più che profeta, annunciava e cominciava a mostrare il compimento di quello che annunciava e di quello che era stato annunciato da tutti i profeti.
        Se Giovanni è più grande di tutti i profeti per aver attratto le turbe al regno di Dio, è evidente che il più piccolo di quelli che partecipano al regno dei cieli e ne vivono è maggiore di lui.
         Gesù non parla della santità di san Giovanni ma dell’ufficio che compiva, com’è evidente dal contesto; nelle sue parole c’è questa gradualità di dignità: il profeta che annuncia di lontano il regno di Dio; il Precursore che prepara le turbe perché vi entrino, e suscita il desiderio di farne parte; il cristiano che vi entra e fa parte dell’ordine nuovo, non solo desiderandolo, ma vivendolo. San Giovanni morì prima che la redenzione fosse compiuta, e la sua vita, benché santa, non ebbe i caratteri di quella grandezza che solo il Sangue e il sacrificio del Redentore poteva comunicarle. Se si pensa che il più piccolo fedele della Chiesa partecipa al Corpo e al Sangue di Gesù Cristo, s’intende perché è maggiore di Giovanni come dignità di carattere.
Don Dolindo Ruotolo

sabato 7 dicembre 2013

La voce che grida nel deserto

Commento al Vangelo II Domenica di Avvento A 2013 (Mt 3,1-12)

La voce che grida nel deserto
        L’età legale e tradizionale per diventare dottore e ministro di Dio – come può rilevarsi anche dal Primo libro delle Cronache (23,3) –, era di trent’anni. In questa età san Giovanni il Battista uscì dalla solitudine e cominciò la sua predicazione per preparare il popolo a ricevere il Redentore, vicino anche Lui al trentesimo anno di età.
        È probabile che la causa occasionale per la quale san Giovanni si ritirò nel deserto sia stata la persecuzione di Erode; la madre sua, per timore, vi si dovette rifugiare e, passato il pericolo, il bambino, già prevenuto dalla grazia, vi rimase per prepararsi alla sua missione con una vita di aspra penitenza. Non è raro, nella storia dei santi, una precocità di vita penitente né può stupire vedere un bambino prodigio di virtù come non ci stupiamo di vedere bambini-prodigio di musica, di pittura, di arti e di lettere, dei quali abbiamo molti esempi nella storia contemporanea. Se le doti naturali possono rendere più che adulto un piccolo, molto più lo può la grazia e la particolare elezione di Dio.
        Che cosa faceva Giovanni nel deserto, tutto solo? Guidato dalla luce dello Spirito Santo, meditava la grandezza di Dio, pregava, riparava per l’ingratitudine umana, e teneva in penitenza il suo corpo, con ogni specie di disagio, per amore di Dio.
        Si può credere, con ogni verosimiglianza, che la Vergine Santissima, sua dolcissima zia, l’abbia personalmente guidato nelle vie di Dio, perché i suoi genitori dovettero morire presto. Non è supponibile, infatti che la Vergine Santissima, così piena di bontà e di grazie, abbia trascurato colui che era andato a visitare e a santificare, stando ancora egli rinchiuso nel seno materno.
        Il deserto dove Giovanni si ritirò e dal quale uscì per invitare il popolo al regno di Dio era una vasta estensione di terra ad est di Gerusalemme e lungo il Mar Morto, quasi disabitata; il suo abito consisteva in una veste-cilizio, formata di peli di cammelli, cioè di peli duri che tormentavano il corpo, e che egli stringeva ai lombi con una cintola di cuoio, per meglio sentirne il fastidio. Egli stesso, logoratesi le sue vesti d’infanzia, aveva dovuto formarsi questo rozzo indumento, forse utilizzando i peli di cammelli, morti nel deserto. Si cibava di locuste – cibo comune allora come oggi in oriente –, e se ne cibava come le trovava, non certo cotte in acqua, o disseccate al forno che era il modo più comune di mangiarle. Alle locuste aggiungeva un po’ di miele selvatico, di quel miele formato dalle api silvestri nelle fessure delle rocce.
        Uscì dal deserto, scarno, coperto di quella veste di penitenza e di povertà che era stata indossata da tanti profeti, ammantato spiritualmente dallo splendore della grazia che lo arricchiva, e sembrò una visione soprannaturale, al popolo che incuriosito gli andava dietro.
        Con Malachia sembrava essere cessata la profezia, e l’apparizione di Giovanni, novello profeta agli occhi di tutti quelli che lo vedevano, fece anche più impressione per questo. Rinasceva la solenne poesia degli antichi profeti, e il popolo, oppresso dalla dominazione straniera, vedeva, nella misteriosa figura del Battista, il felice annuncio di qualche mutamento politico importante.
        Ma Giovanni non era venuto per suscitare una rivolta: era venuto per preparare i cuori con la penitenza al regno di Dio, alla redenzione, cioè che doveva compiere il Cristo promesso, alla Chiesa militante che Egli doveva fondare, e a quella trionfante che doveva essere la meta finale della salvezza.
        Con pochissime parole, il Battista capovolgeva tutte le aspirazioni falsate dal popolo, frutto del rilassamento religioso: la nazione aspirava a godere; s’era paganizzata, ed aveva visto prosperare in essa la setta dei sadducei che negavano persino la risurrezione futura e l’esistenza degli spiriti. Nella sua parte che sembrava ancora sana per lo scrupoloso attaccamento alla Legge, nei farisei, era deformata dal formalismo ipocrita, senz’anima, aspirante al dominio e ai posti alti. Il giogo romano le pesava, ed aspirava a scuoterlo per inaugurare un nuovo regno d’Israele. A queste aspirazioni, il Battista oppose la penitenza e la speranza del regno di Dio; mostrò in se stesso l’esempio della penitenza, e cominciò a battezzare i peccatori che accorrevano a Lui confessando le proprie colpe, per segnarli con un segno di umiltà, per dare a tutti una promessa e una figura della remissione dei peccati che doveva venire dal Redentore, e per suscitare, con quel segno esterno, il desiderio della purificazione dell’anima.
        La predicazione del Battista – come si rileva da san Luca (3,7-14) –, consisteva in pochi precetti pratici atti a rinnovare la vita; non aveva splendore di parole sublimi né di miracoli, era rude come il suo abito, e ciononostante fece tanta impressione, da trarre a lui le turbe da Gerusalemme, dalla Giudea e da tutta la regione del Giordano. Il popolo ricordò o trovò chi gli ricordò le parole del profeta Isaia: Voce di colui che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri; capì che quelle parole non si riferivano solo al ritorno degli Ebrei da Babilonia, ma che annunciavano la voce che doveva preconizzare il ritorno delle anime dalla schiavitù della colpa.
        La figura stessa di Giovanni, scarna e spettrale, sembrava che avesse solo la voce con la quale chiamava a penitenza; era quasi tipicamente una voce che sembrava venire dalle profondità del mistero, e corsero le turbe per farsi battezzare, confessando i propri peccati. Sentivano tutti il bisogno di purificarsi, erano stanchi di una vita di peccati, e avevano il desiderio di vederla mutata. Il battesimo di Giovanni non rimetteva di per sé le colpe; ma, eccitando l’anima a compunzione e a pentimento, attraeva la misericordia di Dio e non era una semplice e sterile cerimonia.
        Al popolo che andava da Giovanni si unirono anche dei farisei e dei sadducei, i quali andarono ad osservare il nuovo profeta, più per curiosità che per vera compunzione; più per criticare che per sanzionare la sua missione; è evidente dalle parole severe che il santo Precursore rivolse loro. Essi erano abituati ad avvelenare il popolo con le loro false teorie religiose e perciò Giovanni li chiamò razza di vipere, cioè anime avvelenate che non sapevano propinare che veleno, subdolamente e quasi senza farsi scorgere, ammantati d’ipocrisia gli uni, e di fasto gli altri. Li esortò particolarmente a far penitenza, come quelli che ne avevano più bisogno, e a non presumere di potersi salvare perché figli di Abramo, poiché i veri figli della discendenza spirituale di lui dovevano essere suscitati dalla grazia e non dalla natura.
        San Giovanni, quando disse queste severe parole, battezzava a Betabara, dove Israele, sotto la guida di Giosuè, aveva miracolosamente attraversato il Giordano. Vi erano là ancora le dodici pietre poste a ricordo del miracolo, e il Precursore, additandole, gridò che Dio per mantenere la promessa fatta ad Abramo di una discendenza spirituale non si sarebbe fermato alla progenie naturale di lui, ma avrebbe suscitato anche dalle pietre i suoi figli spirituali, tagliando, anzi, come alberi inutili e infruttuosi, quelli che, fidando sulla discendenza naturale da Abramo, non avrebbero fatto buoni frutti di penitenza. Era necessario, per formare la progenie eletta, non tanto discendere da Abramo, quanto dal Redentore; Egli avrebbe costituito negli apostoli le dodici pietre fondamentali della Chiesa universale, testimonianza viva del passaggio dalla morte alla vita operato da Lui, e da quelle pietre sarebbero nati i veri figli di Abramo, i veri discendenti ed eredi della grande promessa.
        Quest’allusione mirabile all’opera del Redentore gli diede modo di umiliarsi al ricordarlo, e di presentarlo alle turbe come l’unica via di salvezza: egli battezzava con l’acqua, per indurre sentimenti di penitenza, ma Colui che stava per manifestarsi, infinitamente più potente, avrebbe battezzato le anime, infondendo loro lo Spirito Santo e infiammandole del fuoco della divina carità. Egli è così grande – disse Giovanni – che io non sono degno neppure di prestargli gli umili uffici degli schiavi ai padroni, portandogli i sandali; Egli è così santo e giusto che verrà quale Giudice di tutti, e come col ventilabro si separa il grano dalla paglia per bruciarla, così Egli, diffondendo nel mondo la sua Chiesa, attraverso il vento delle prove e delle lotte separerà i buoni dai cattivi, raccoglierà i buoni nel suo regno, come si raccoglie il grano nel granaio, e condannerà i cattivi alle fiamme eterne dell’Inferno.
         Giovanni non aveva ancora visto il Redentore; parlava per divina ispirazione e, in poche ed efficaci parole, determinava i caratteri del suo regno: Egli non avrebbe raccolto solo le anime della promessa, ma avrebbe adottato le creature di qualunque nazione come figlie di Dio e discendenza spirituale di Abramo; non le avrebbe contrassegnate con un segno esterno, ma le avrebbe rinnovate con la grazia dello Spirito Santo, lasciando integra la loro libertà e separando alla fine, come Giudice supremo, definitivamente, i buoni dai cattivi.
Padre Dolindo Ruotolo