Commento al Vangelo – Natale del Signore 2013 (Lc 2,1-14)
Messa
del giorno – Don Dolindo Ruotolo
Il momento della nascita di Gesù Cristo
Era stato predetto dai profeti che il Redentore doveva
nascere a Betlemme, e il Signore, che tutto dispone attraverso i medesimi
eventi umani, utilizzò una circostanza della vita civile per far trovare Maria
a Betlemme.
Nazaret distava da questa città circa 120 chilometri; ora,
senza una pressione legale, Maria Santissima giovane madre prossima al parto,
non avrebbe creduto prudente fare un viaggio così lungo. Il Signore avrebbe
potuto, è vero, rivelarlo a san Giuseppe, ed ottenere lo stesso risultato, ma
Egli volle escludere, dalla nascita di Gesù, tutto ciò che poteva sembrare
appositamente voluto per far verificare la profezia; gli eventi, indipendenti
dalla volontà, anzi contro la volontà umana, mostravano meglio le disposizioni
divine nella nascita del Redentore.
Cesare Augusto, primo
imperatore romano, nel fasto della sua gloria ordinò parecchi censimenti per
accertarsi della popolazione dell’impero e dell’obbligo del tributo per tutti i
suoi sudditi. Il primo di questi censimenti, esteso anche alla Palestina, fu
fatto sotto Publio Sulpizio Quirino che al modo greco è chiamato nel Sacro
Testo Cirino. Il censimento fu fatto non secondo l’uso romano, per il
quale ciascuno si faceva iscrivere nei registri del luogo dove abitava, ma
secondo l’uso ebraico, per il quale ognuno andava ad iscriversi nella sua città
di origine. Era logico, del resto, perché gli Ebrei erano tenaci conservatori
delle tribù e delle famiglie, e un censimento di semplice domicilio non avrebbe
dato la vera prospettiva demografica della nazione.
La legge umana è inesorabile e non
ammette scuse: bisogna sottostarvi per forza, se non vi si vuole sottostare per
amore. San Giuseppe, però, e Maria Santissima, abituati all’obbedienza alla
divina volontà, accettarono l’ordine non come un’imposizione inopportuna per
essi, subita per timore, ma come una disposizione indiretta del Signore, e
intrapresero subito il faticoso viaggio per recarsi a Betlemme, loro città d’origine
perché discendenti di Davide.
È commovente pensare a questo viaggio
intrapreso quando la stagione era già fredda, perché è tradizione costante
nella Chiesa che Gesù sia nato in inverno. Due creature ignote al mondo, ma
immensamente privilegiate innanzi a Dio, camminavano portando con loro,
nascosto nel seno materno, il Verbo di Dio! Camminavano in pace, nella povertà,
lodando e benedicendo il Signore.
Un asinello – com’è
tradizione e com’è giusto pensare –, serviva loro di cavalcatura e portava il
loro piccolo bagaglio. Giuseppe lo guidava, e Maria vi sedeva sopra; erano
tutti e due il quadro vivo della purezza, dell’amore e della pace. L’asinello
doveva sentire inconsciamente il benessere di avere dei padroni così sereni e,
guidato dall’angelo di Dio, come potrebbe supporsi, prendeva il giusto cammino.
Aveva quel portamento di sicurezza e di fedeltà che hanno gli animali vicino ai
padroni benefici e, senza ripugnare o recalcitrare, andava avanti mansueto.
Maria, tutta raccolta, pregava. Era più bella nella sua avanzata gravidanza,
aveva il volto soffuso di pace, e sembrava l’Arca di Dio, perché portava nel
grembo il suo Figlio divino. San Giuseppe andava avanti raccolto, con quel suo
bel volto pieno di verginale fulgore, ingenuo, semplice, umile, servo fedele
della divina volontà, col suo sensibile cuore pieno di angustia per il disagio
della sua immacolata Sposa.
Nel silenzio della strada deserta, fra
la solitudine degli alberi già spogli, risuonava lo scalpitare dell’asinello ed
echeggiavano gli ultimi canti sommessi degli uccelli... La natura sembrava
un’immagine dell’uomo, intristito dalla colpa, e il Verbo divino, fatto per
amore Pellegrino della terra, avanzava nel seno materno verso Betlemme, per
compiere le promesse della misericordia e salvarlo. Nessuno supponeva che si
avverassero in quel momento tanti vaticini dei profeti, e che il Sole di
giustizia cominciasse a sorgere dalle tenebre della povera terra brumosa,
carica di colpe e di affanni.
Giunsero a Betlemme dove, a
motivo del censimento, vi era un gran concorso di gente sia negli alberghi
pubblici, sia nelle case ospitali, di modo che san Giuseppe non poté trovare
chi lo accogliesse con la sua Vergine Sposa Immacolata. Dovette cercare rifugio
in una grotta, adibita per ricoverarvi gli animali nelle notti fredde o
tempestose, e lì procurò d’allestire un poverissimo alloggio, dato che per
Maria si avvicinava il tempo del parto. Non può dirsi che fossero angosciati
per quella povera dimora, perché erano ambedue immersi nella divina volontà, e
amavano immensamente il nascondimento e la povertà; ma san Giuseppe, come
custode di Maria, era afflitto dal disagio di Lei, e Maria pensava, con immensa
pena e tenerezza, al suo Figlio che mancava di tutto, nel venire alla luce.
S’intrecciavano, per così dire, due rami fioriti di carità e di amore, e
formavano essi soli l’ornamento fragrante di quella grotta desolata.
La nascita di Gesù
Venne la notte. Era algida ma serena, e
brillavano gli astri nel cielo. Un silenzio grande circondava quel luogo, e una
solennità più grande vi regnava, perché l’invisibile corte celeste già veniva
in terra a corteggiare il Re divino, e rifulgeva nella sua placida luce
spirituale, fatta tutta di conoscenza e di amore. Gli uomini e le cose
dormivano, e lontano lontano si vedeva solo qualche bagliore dei fuochi dei
pastori che vigilavano il gregge. Gli astri roteavano nel cielo, seguendo le
leggi di ordine loro assegnato da Dio, e nel corpo immacolato di Maria si
compivano con la stessa precisione le leggi della procreazione. Rutilavano le
stelle e rutilava il Sole divino verso l’orizzonte della vita terrena, prossimo
a spuntare come raggio attraverso il seno immacolato della Madre.
Il sole è preceduto dall’aurora ed è
accompagnato dalla stella più fulgida della notte che sparisce nei suoi raggi.
Ora, la bella aurora della nascita del Re d’Amore era Maria, nell’elevazione
del suo amore, e la stella tremolante in adorazione era san Giuseppe. Maria era
tutta un fulgore di contemplazione e di estasi. Bella nella sua innocenza
purissima, circondata da un tenue nembo di luce che la delineava nella notte
come placida luna nel firmamento, genuflessa, con le mani congiunte e lo
sguardo al cielo, era l’immagine del seno del Padre, e rifletteva da sé qualche
barlume dell’eterno mistero.
Contemplava.
Si trovava tra l’eternità senza tempo e
i tempi carichi di secoli; mirava nell’eternità il Verbo, Termine dell’eterna
generazione del Padre, e mirava nel tempo il percorso dei secoli delle promesse
che terminavano in Lei con la generazione temporale del Verbo nella umana carne.
Era tutta avvolta dalla luce dell’eterna
armonia, ed era tutta un’armonia d’amore. La grazia rigurgitava per così dire
in Lei, tanta ne era l’abbondanza, ed Ella vi era immersa in un placidissimo
riposo.
Contemplava
il cielo, e un sorriso le sfiorava le labbra nella gioia immensa che vi
regnava; contemplava nel suo seno il Verbo eterno che vedeva nel Padre, e la
sua vita mortale s’illuminava di splendori eccelsi, poiché era Madre di Dio.
L’Amore eterno che l’aveva fecondata, la illuminava tutta ed Ella, a poco a
poco, si trasumanava. Sembrava tutta luce e, come un ferro incandescente nel
fuoco, brillava, perché traspariva da Lei il Verbo Incarnato.
Il suo corpo immacolato era
come spirito, sembrava trasparente, anzi evanescente nella luce del Verbo.
L’eterna vita affiorava dalla piccola creatura umana e la passava come raggio
che attraversa un cristallo.
Oh, prodigio di Dio! Le madri sentono
dolori immani quando un figlio viene alla luce, e sentono strapparsi quasi la
vita dalla piccola vita che irrompe nel mondo; Maria, invece, sentiva una gioia
immensa a misura che il momento della sua maternità si avanzava. L’amore quasi
la liquefaceva e il suo corpo sembrava fluido come una cascata di fulgori
placidissimi.
Fu un momento sublime: tratta a Dio, si
sentì tutta immersa nella conoscenza dell’infinita sua grandezza, la contemplò
amandola, e volle applaudirla con una lode proporzionata che avrebbe voluto
trarre dal pieno olocausto di se stessa.
Le ritornò sulle labbra il suo cantico: Magnificat
anima mea Dominum e,
nell’elevarlo innanzi a Dio con tutto l’impeto del suo amore, non eruppe dal
suo Cuore una parola ma il Verbo, la Lode eterna del Padre, e si adagiò sul
terreno come un raggio di luce, lodando il Padre nell’umana carne. Era
l’umiliato per amore e vagì.
Il Verbo eterno aveva una voce
d’immolazione e penava. Non era avvolto dall’eterna Fiamma che lo congiungeva
al Padre, ma l’avvolgeva l’atmosfera gelata della notte e tremava. Non aveva
trovato altro sulla terra. L’amore materno ritrasse Maria dall’estasi celeste
e, scossa dai vagiti del Figlio divino, lo guardò: era perfettissimo, roseo
come un bocciolo spuntato nell’inverno, soffuso di bontà, divino, santificante,
inondante gioia. Lo adorò, lo prese, lo baciò, lo strinse al Cuore, lo avvolse
in pannicelli mondi; nell’avvolgerlo, si sentì tutta inondata di tenerezza e lo
ripose in una mangiatoia, perché non aveva altra culla per il Re del cielo.
Adorò, tacque, ricongiunse le mani,
volse al cielo lo sguardo e l’offrì al Padre; era un Fiore degno di Lui, era il
Figlio suo, ed Ella l’offrì in nome di tutta l’umanità, perché era anche il
Figlio del suo seno immacolato.
Il piccolino si addormentò. Ahimè, era
troppo triste la terra senza la luce di Dio, ed Egli era la Vittima dei peccati
di tutti. Cominciò allora il palpito amoroso della sua immolazione, e si
addormentò offrendosi, come se morisse nascendo, poiché il suo sonno era
amorosa offerta di sé, come lo era la vita.
San Giuseppe, poco lontano, era stato
tutto immerso in una profondissima umiltà. Nessuna creatura sentì mai il
proprio nulla come lo sentì lui, in quel momento. Non osò avvicinarsi. Sentiva
troppo la grandezza della Madre e la divinità del Figlio.
Maria gli fece un cenno e lo avvicinò a
Gesù, Mediatrice d’amore e di misericordia, per la prima volta, tra Gesù e una
creatura.
San Giuseppe lo guardò, e
l’ombra luminosa del Padre lo avvolse; Egli lo rappresentava, e una grande
dignità elevava il povero fabbro ad un’altezza di santità che nessuno mai ebbe
in terra, poiché nessuno fu reputato padre del Verbo di Dio Incarnato. Lo prese
fra le braccia e, baciandolo, se ne comunicò, perché in quel bacio sentì ardere
il cuore di una tenerezza d’amore mai provata; era come la consacrazione del
suo grande ufficio d’amore. Lo ripose nella greppia e, genuflesso, rimase in
adorazione con Maria...
Passavano in alto gli astri quasi
occhieggiando alla terra; la forza infinita che li teneva sospesi in un’armonia
perenne era in quell’umile punto smarrito... Sembrò una festa tra le sfere
celesti che avevano segnato il primo momento della vita temporale
dell’Eterno... Avevano segnato per la prima volta un tempo che non poteva
essere fugace e rimaneva negli splendori dell’eterna attualità. Il Signore li
aveva sublimati ad una funzione più grande, poiché segnavano, ad uno ad uno, i
palpiti d’una vita mortale di valore infinito. La terra era sublimata ad
un’altezza mirabile anch’essa, poiché era divenuta il trono di Dio. La natura
si ravvivava, e la pia tradizione che ce la fa vedere tutta rifiorire è
tutt’altro che una leggenda, poiché essa ha tante volte fiorito anche alla
presenza d’un santo, parte privilegiata del Corpo mistico del Redentore.
Dormivano gli uomini, è vero, ed erano
immersi in un torpore di morte, perché ingrati; ma, nel compimento della divina
promessa, fremettero di gioia i patriarchi e i profeti, e su di essi passò un
soffio d’immortale speranza per la prossima liberazione.
Il coro
del creato era come nota sommessa che accompagnava le note d’un cantico più
bello d’amore, erompente dal Cuore di Maria e di san Giuseppe: Magnificat
anima mea Dominum!