Commento
al Vangelo – VI Domenica del T.O. 2014 A (Mt
5,17-37)
Legge
antica e Legge nuova
Di fronte
ad un maestro che annuncia nuove dottrine, è profondamente
psicologico che nella massa degli ascoltatori sorga un sentimento
rivoluzionario che trascende le idee del maestro. Nasce nell’anima
un desiderio di novità che l’agita, un’insofferenza al giogo che
la fa aspirare ad una libertà senza confine, ed essa sogna nuovi
orizzonti di felicità, spesso effimera.
Gesù
Cristo, da Dio qual è, scrutò il cuore dei suoi ascoltatori, e
prevenne nell’anima loro questa mossa della natura, affermando
solennemente che Egli non veniva a sciogliere la Legge o i Profeti,
ma veniva a portarli a compimento, che neppure un jota della Legge, o
una virgola sola sarebbe stata mutata, ma essa sarebbe stata solo
compiuta, e quindi sarebbero svanite da essa le figure e i simboli
per dar luogo alla realtà, ben più grande di qualunque simbolo.
Chi si
crederà autorizzato a violare anche il più piccolo precetto di Dio,
con la scusa del nuovo ordine, invece di parteciparvi sarà l’ultimo
nel regno dei cieli; con queste parole Gesù Cristo annuncia le vie
della santità e non solo di una santità esterna, come quella degli
scribi e dei farisei, ma di una santità interiore che tende alla
perfezione dell’anima.
Egli,
dunque, non propone una rivoluzione, ma promulga una legge di
santità; non vuole abolire le pratiche esterne dei precetti di Dio
ma vuole che siano accompagnate dalla vita interiore, non si contenta
dell’osservanza dei precetti più gravi, ma vuole la perfezione.
Gesù
e l’omicidio…
Gesù
comincia
a dare qualche esempio della giustizia che doveva essere santità
interiore, a differenza della giustizia esteriore degli scribi e dei
farisei e si richiama alla legge contro l’omicidio. Gli scribi e i
farisei, gonfi del loro orgoglio, avevano in disprezzo gli altri:
erano mormoratori, calunniatori, litigiosi, tenaci nell’odio e
nell’invidia; credevano di essere irreprensibili solo perché si
astenevano dal commettere omicidio. Andavano
nel tempio in atteggiamenti d’ipocrita pietà e si gloriavano di
portarvi l’offerta, senza pensare che, a volte, quella stessa
oblazione era frutto di sopraffazioni e d’ingiustizie, senza
pensare che, con l’offerta, portavano le maledizioni e le lacrime
di quelli che essi avevano angariati.
Gesù
alza
la sua voce divina contro questa falsa santità che prescindeva
completamente dalla carità e dalla giustizia, ed esclama che, se
fino ad allora l’omicida era stimato degno d’essere condannato
nel giudizio
–
ossia
nel tribunale di ventitré giudici che risiedeva in ogni città per
le piccole cause –, d’ora innanzi chi si adirerà contro il
proprio fratello, desiderandogli del male, sarà degno di essere
condannato in giudizio, cioè commetterà una colpa reale, meritevole
di pena, della quale Dio terrà conto nel suo Giudizio. Chi poi,
nell’esplosione dell’ira, aggiunge il disprezzo, dicendo al suo
fratello raca,
ossia
testa
vuota, imbecille,
sarà
reo di una colpa maggiore, simile a quelle che si giudicavano nel
sinedrio.
Il
sinedrio era un tribunale di settanta membri che giudicava le colpe
d’idolatria, il delitto del sommo sacerdote, ecc., e comminava le
pene più infamanti. Chiamare imbecille
nell’ira,
il proprio fratello e disprezzarlo è dunque una colpa che offende
Dio e copre l’anima d’infamia dinanzi al Signore che è Carità.
Chi infine chiamerà il proprio fratello stolto,
cioè
secondo il significato ebraico, lo chiamerà scellerato,
empio, maledetto da Dio,
maledicendolo
con ira e desiderandogli la maledizione di Dio, sarà
condannato al fuoco della Geenna,
cioè
sarà colpevole di peccato mortale, passibile dell’Inferno.
Non c’è
dunque da confondersi per le parole di Gesù Cristo né c’è da
pensare che Egli parli per modo di dire; nella sua divina sapienza
distingue le mancanze di carità che sono frutto d’ira e che
possono indurre all’ira più grave, in mancanze veniali, più gravi
e mortali. Quando si sente la responsabilità della carità, e si
evita di ingiuriare il prossimo, non c’è pericolo che si possa
trascendere in atti di violenza, e tanto meno nell’omicidio.
Gli
scribi e farisei si contentavano di riprovare l’omicidio, cioè
l’estremo atto esterno di violenza, Gesù Cristo, invece, condanna
l’ira, la mancanza di carità e l’ingiuria, e vuole che, più che
preoccuparsi dell’omicidio, bisogna pensare a comparire innanzi a
Dio col cuore pieno di carità e in armonia con tutti; bisogna
sfuggire le liti e accordarsi con i propri avversari, per evitare di
avere dal giudice una condanna che serve poi a fomentare l’odio e
le dissensioni; bisogna non solo stare in pace con tutti, ma togliere
dal cuore altrui – per quanto è a noi possibile –, le ragioni
del dissidio e dell’avversità. Gesù Cristo, infatti, non c’impone
solo di riconciliarci con colui che avversiamo, ma di riconciliarci
con chi ci avversa, con
chi ha qualcosa contro di noi perché
ha ricevuto da noi qualche torto o qualche ingiustizia. È logico che
si debba lasciare
il dono innanzi all’altare,
e
che, prima di offrirlo, si debba trovare la riconciliazione con il
fratello al quale abbiamo fatto del male; è logico, per noi
cristiani che non possiamo comunicarci se abbiamo coscienza di aver
danneggiato o amareggiato ingiustamente un nostro fratello.
È chiaro
che il precetto di Gesù Cristo non può riguardare quelli che
ingiustamente ci avversano, e che stanno in astio contro di noi per
la loro malignità.
In questi
casi non siamo noi i colpevoli della mancanza di carità, e basterà
cercare la riconciliazione, se è possibile, o almeno pregare per chi
ci avversa, come si vedrà in seguito. Sta poi nello spirito del
precetto del Signore evitare ogni causa di dissidio, e conservare
sempre intatta la carità, anche a costo di un nostro sacrificio. Le
liti non risultano mai di utilità, e l’ostinarsi nel dissidio può
dar origine a spiacevoli conseguenze, passando così noi dalla
ragione al torto. Al cuore ringhioso degli scribi e dei farisei,
carichi di odio, Egli vuol sostituire il cuore placido e sereno del
cristiano, pieno di rispetto per gli altri, di compatimento e di
misericordia e, diciamo pure, saggio e serio nella vita che guarda le
cose da adulto e non da fanciullo, che sa passare sopra alle
stoltezze e conservare il bene della pace.
L’adulterio
Dall’omicidio,
Gesù passa a parlare dell’adulterio, un altro peccato gravissimo,
conseguenza di altri peccati. Non basta la legge che punisce
l’adulterio: occorre la legge che ne evita le cause, e perciò il
Redentore afferma che chiunque guarda una donna per desiderarla ha
già commesso il peccato nel suo cuore, benché non l’abbia
materialmente consumato. L’atto esterno, infatti, è conseguenza
del peccato interno e, quando si è vigilanti sui propri occhi e sui
desideri che essi suscitano, non c’è pericolo di cadere. Bisogna
quindi evitare le occasioni, ed essere attenti a troncare
energicamente quello che può attrarci al male. Gesù Cristo usa
delle espressioni energiche, proprio per indicare che, di fronte alla
salvezza eterna, non ci si può indulgere in alcun modo con la
natura.
Se una
persona o un oggetto pericoloso ci fossero cari come l’occhio e la
mano destra, non dovremmo esitare un momento solo a staccarcene, pur
di evitare il peccato e la conseguente perdizione eterna. Non si può
addurre, come scusa della propria ostinazione, la necessità e
l’esigenza del cuore e della vita, perché, per salvarsi
eternamente, bisogna avere il coraggio di recidere tutto quello che
può farci cadere in peccato.
Tutto sta
a non cedere alla natura, neppure per poco, soprattutto in quello che
riguarda i peccati impuri; la più piccola accondiscendenza
all’occhio o alle mani, cioè al desiderio, all’immodestia e al
senso del tatto, può produrre una tentazione e uno sconvolgimento
tale, da non trattenere più l’anima sul precipizio. Bisogna essere
fermi, soprattutto al principio delle tentazioni e nelle piccole
cose, perché le piccole e continue vittorie sono quelle che ci
attirano nuove grazie, e ci rendono tetragoni contro i maggiori
assalti di satana.
Gesù
Cristo va oltre e, per farci sfuggire anche le occasioni del male che
potrebbero sembrare lecite, condanna quelle abitudini della medesima
Legge ebraica, introdotte più come tolleranza che come regola
d’ordine. L’uomo che non voleva più convivere con la moglie, la
rimandava con una dichiarazione detta libello
del ripudio,
con
la quale la scioglieva dal vincolo coniugale. Era un uso che poteva
anche sussistere quando i costumi erano corretti, e quando
praticamente il libello del ripudio era una rara eccezione; ma, col
decadere della moralità, il libello del ripudio costituiva una vera
occasione di pervertimento, e perciò Gesù lo condanna e lo
abolisce. Chi ripudia la propria moglie, salvo
il caso di fornicazione
–
cioè
eccetto il caso che le sia legato con un vincolo di peccato, perché
allora il ripudiarla sarebbe un dovere –, la induce all’adulterio,
lasciandola libera di stringere un nuovo legame, e chi sposa la
ripudiata commette adulterio, profanando un vincolo che Dio non ha
sciolto.
Gesù
Cristo condanna, così, assolutamente, il divorzio, come causa di
peccati e di dissoluzione.
Egli
riprova ogni degradazione di sensi, riconduce il matrimonio alla sua
nobiltà; ridona alla donna la sua dignità, negando recisamente che
ella sia oggetto di piacere, o termine di ammirazioni sensuali o
sentimentali. Egli l’ammanta di maestoso pudore quando dice che chi
la guarda semplicemente desiderandola, pecca, ed insiste con tanta
forza sul dovere di allontanare ogni occasione di peccato, da usare
quella similitudine tagliente di chi si acceca ad un occhio o si
mutila di una mano per evitare uno scandalo. Toglie ogni pretesto
anche legale alla corruzione e alla degradazione della donna, e
abolisce la legge del ripudio; vuole che la donna sia regina e madre
nella casa e non sia come un oggetto di divertimento che si desidera
e si abbandona come si vuole.
Ognuno
vede come deve giudicare – non diciamo l’orrore dell’impurità
cui si abbandonano oggi gli uomini e le donne –, ma anche quello
che si dice amore platonico, idealizzando così la degradazione
dell’anima, e rendendo più tenace la degradazione dei sensi
interni ed esterni, sfiorandoli di quello che potrebbe farne
risaltare le brutture. Questi cosiddetti amori platonici sono pieni
di peccato di desiderio, sono catene di schiavitù spesso più tenaci
che nella stessa insoddisfazione dei sensi si ribadiscono e diventano
perenni. Non c’è da illudersi: la creatura si può amare solo in
Dio e per Dio, e per questo lo stesso amore coniugale è un
Sacramento. Non si può amare una creatura concentrandosi in lei o
attirandola a sé, perché noi siamo di Dio. Come? Tu uomo, avendo
sposata una donna, la riguardi talmente come tua, da prendere le armi
contro chi semplicemente la distrae da te, e credi di non commettere
colpa, attraendo a te una creatura di Dio e distraendola da Lui? Come
puoi trarre la creatura nel tuo desolante vuoto, sottraendola alla
pienezza soavissima del divino Amore? Che cosa le puoi dare tu se non
parole, e spesso tempeste e pene spaventose? Se tu l’amassi
veramente potresti tradirla fino al punto da devastarla?
L’amore
umano è sempre un ladro che ruba; è sempre un fuoco che consuma; è
sempre un’inondazione che devasta, ruba a Dio e all’anima,
consuma ogni ricchezza del cuore e devasta ogni gioia e ogni pace.
La
menzogna…
Gesù
Cristo, dopo aver divelto, per così dire, le radici stesse delle
sopraffazioni dell’ira e dei sensi, sana dalle fondamenta la piaga
della menzogna e della slealtà che tanto nuoce alle reciproche
relazioni tra gli uomini. Nell’antica Legge si credeva che si
dovesse tener fede solo al giuramento, e per il continuo decadimento
dei costumi si era giunti a tal punto da non parlare senza giurare.
L’atto solenne del giuramento, ammesso solo in casi di eccezionale
importanza, era ridotto, così, quasi come un intercalare. Gli scribi
e farisei, poi, insegnavano che quando non si nominava esplicitamente
Dio, non si era tenuti a mantenere quello che si era giurato e, con
questo principio, moltiplicavano i giuramenti falsi e la conseguente
sfiducia fra gli uomini.
Gesù
Cristo vuole che un cristiano sia talmente veritiero e leale da non
aver bisogno né di giurare né d’imprecare per esempio sul suo
capo, non avendo egli dominio su se stesso, e non potendo rendere
bianco o nero uno dei suoi capelli, imprecando. Il suo linguaggio
deve essere decisamente vero: Sì,
sì, no, no;
qualunque
altra parola viene
dal male,
cioè
dalla diffidenza o dalla malafede, ed è soprattutto testimonianza
del male che sta in noi, non essendo degni di essere creduti sulla
semplice parola. Anche nell’infanzia chi giura non è il fanciullo
buono incapace di cattive azioni, ma è quello cattivo, al quale
possono con facilità addebitarsi delle scappate, e al quale è più
difficile prestar fede.
Padre Dolindo Ruotolo
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