Commento
al
Vangelo
–
Le
Sacre Ceneri
2014
(Mt
6,1-6.16-18)
Quando
l’elemosina
è
ipocrisia
e
orgoglio
Il nostro
Redentore, volendoci persuadere praticamente, con qualche esempio, a
cercare Dio solo, parla di quelle opere nelle quali è più facile
raccogliere la simpatia o il rispetto degli altri. E prima di tutto
l’elemosina che i farisei facevano con ostentazione orgogliosa
nelle sinagoghe e nelle strade, per essere onorati come uomini
benefici. L’orgoglio di questa gente non era solo una colpa innanzi
a Dio, ma era anche uno scandalo, perché guastava l’anima del
popolo, e perciò Gesù lo bolla pubblicamente. Egli vuole tanta
delicatezza e tanto riserbo in quest’opera di misericordia che
quasi esige che la
mano sinistra non conosca ciò che fa la destra. È
mirabilmente psicologico poiché, nel fare l’elemosina, si può
trovare l’ostacolo ad operare per Dio nella soddisfazione che prova
chi la fa. È facilissimo ripensare con compiacimento all’opera
buona, consolarsene, gonfiarsene, e tutto questo concentra l’anima
in se stessa e la impoverisce. È necessario dare per amore di Dio, e
distrarsi quasi dall’opera fatta, per non riflettervi e perderne
così il merito.
Quale
rimprovero al mondo che nelle sue opere di beneficenza suona
letteralmente la tromba, annunciandole clamorosamente per averne lode
e gloria! Quale riprovazione a quelle beneficenze fatte
ipocritamente, promovendo feste da ballo e simili sconcezze, nelle
quali l’ostentazione di se stessi diventa il turpe prezzo della
carità che si dona! Quale condanna anche a quelle opere sociali,
ispirate dalla politica, le quali mirano solo ad incatenare le
reazioni del popolo affamato e si riducono praticamente a
favoritismi, fatti, molte volte, a chi meno ne ha bisogno! Leggete il
programma dell’assistenza dello Stato e vi sembra di vedervi la
risoluzione dell’assillante problema di tante miserie; andate a
vedere praticamente chi ne benefica, e constaterete che i veri
bisognosi ne sono molte volte esclusi, per mancanza di sufficienti
raccomandazioni, ossia ogni volta che un motivo tutto umano non
induca ad elargire il soccorso.
Il
Signore, comandandoci di fare l’elemosina per suo puro amore, ci ha
dato modo di donare a Lui qualche cosa del nostro, pur essendo noi
estrema miseria ed Egli infinita ricchezza. Tu dai al povero ma, in
realtà, chi ti stende la mano è il Signore; se non dai per puro suo
amore, tu elargisci a un bisognoso un soccorso e lo neghi a Dio che
si degna di domandartelo per bocca del povero, promettendoti i doni
immensi della sua generosità!
La
preghiera
I farisei
avevano determinate ore di orazione e, dovunque si trovavano, si
volgevano verso il tempio di Gerusalemme e pregavano. Essi cercavano,
però, nelle ore di orazione, di trovarsi nelle sinagoghe, nelle
piazze o nei crocicchi delle vie, in cui maggiore era il concorso,
per farsi riguardare come uomini di orazione, e raccogliere povere
lodi umane. La loro preghiera, in tal modo, non era un’elevazione
dell’anima in Dio, ma una coreografia di vanità, alla quale non vi
poteva essere, come ricompensa, che la vanità di un applauso o di
una considerazione umana.
Gesù
vuole che l’anima si raccolga innanzi a Dio solo e preghi
nell’intimo raccoglimento che le faccia quasi sparire dagli occhi
quelli che la circondano, come uno che si chiude in una stanza. Egli
parlava contro l’ostentazione dei farisei, e perciò disse di
entrare
nella stanza e chiuderne la porta,
cioè
di cercare il nascondimento e non le piazze. Con questo, non volle
proibire la preghiera pubblica – che è un dovere sociale e
individuale –, ma volle dire che l’anima, anche pregando in
pubblico, sia così lontana dallo sguardo umano, da sentirsi come
rinchiusa in una stanza e pregare nel nascondimento interiore. Si
prega in pubblico non per farsi vedere, ma per onorare Dio
pubblicamente; allora tutto il popolo forma come un’anima sola,
raccolta nella Chiesa o anche in pubblico, come in una stanza chiusa,
dove Dio solo è presente e ascolta i sospiri del cuore.
Gesù
volle liberarci anche dalla preoccupazione dello sguardo altrui che
spesso c’impedisce di pregare in pubblico; chi prega deve
considerarsi solo, raccolto in Dio, quasi fosse chiuso in una stanza;
deve avere, quindi, la stessa libertà che avrebbe se fosse solo. Il
mondo non fa il male in pubblico quasi fosse solo nel suo ambiente? E
perché esso deve avere la libertà di fare il male, e noi non
possiamo avere quella di fare il bene e di onorare Dio? Incediamo,
dunque, anche nelle solenni processioni, con piena libertà di
preghiera, riguardandoci quasi soli sotto lo sguardo di Dio,
osannando a Lui per testimoniare la nostra fede, e per glorificare la
sua grandezza. Non dobbiamo preoccuparci che gli altri ci vedano, e
dobbiamo cercare il raccolto nascondimento interiore nella piena
libertà dello spirito; non dobbiamo preoccuparci per rispetto umano
che gli altri non ci vedano, quasi temendo che ci riguardino come
bigotti, ma dobbiamo avere il cuore come lampada ardente che,
consumandosi per Dio, lo glorifichi anche nel mondo che è tempio
della sua gloria.
È
facile, nella preghiera, ripetere le stesse cose macchinalmente e non
preoccuparsi di elevare la mente a Dio; quelle invocazioni non sono
allora che parole vuote. I pagani, poi, pregando i loro idoli,
gridavano e moltiplicavano le loro invocazioni, credendo così di
essere ascoltati. Gesù Cristo vieta le molte parole
nella
preghiera, non però i ripetuti slanci del cuore che accompagnano le
parole; non vuole parole vuote ma preghiere, e quindi non proibisce
le ripetute invocazioni ma, secondo la parola greca del testo, il
balbettare,
il biascicare macchinalmente le
invocazioni; in questo caso è evidente che la preghiera si riduce a
molte parole senza che da esse sbocci un solo affetto dell’anima.
Egli,
poi, parla di quelle preghiere che si fanno per ottenere un beneficio
temporale, come è chiaro dal contesto, e vuole ammonirci di pregare
in modo da abbandonarci con fiducia alla divina bontà, con quelle
poche e sincere espressioni dell’anima che sono lo slancio filiale
di chi confida nella provvidenza e nella bontà del Signore: Dio
sa quello che ci occorre prima che glielo domandiamo,
ossia
pensa a noi con amore paterno, ed ha cura di provvederci; basta
quindi affidarsi a Lui, pregando, senza necessità di dovergli
esporre minutamente quello che ci occorre. Egli vuole che domandiamo
prima il regno di Dio, come si vedrà in seguito, e quindi, pur
concedendo che si possa pregare per le cose temporali, vuole che lo
si faccia con poche parole di fiducia.
Il
digiuno, il distacco, lo sguardo a Dio solo
L’antica
Legge comandava un solo digiuno nel giorno dell’espiazione (cf Lv
16,29ss). In seguito se n’erano aggiunti degli altri e i farisei
digiunavano spesso per apparire uomini austeri, anzi si mostravano di
proposito in pubblico con il volto tetro, col capo in disordine, con
le vesti dimesse, per averne gloria dinanzi agli altri.
Gesù
Cristo non condanna il digiuno, ma questa specie di digiuno che era
sazietà della propria vanagloria, e vuole che le opere di penitenza
appaiano solo innanzi agli occhi di Dio, per averne da Lui la
ricompensa. La preghiera è completata e integrata dalla penitenza, e
la penitenza più facile è il digiuno; quando il corpo, infatti, non
è aggravato, lo spirito è più libero e l’elevazione dell’anima
in Dio è più facile.
Ma il
digiuno non è solo l’astinenza da alcuni cibi: è il distacco
dell’anima dai beni della terra. Si digiuna nel corpo per impedire
che sia d’impaccio all’anima, e si digiuna nell’anima per non
impigliarla nelle reti delle cose terrene; per questo Gesù soggiunge
di non accumulare tesori materiali e di non attaccarvi il cuore
poiché, dov’è il tesoro, là essa si ferma e s’impiglia. È
cento volte meglio essere liberi da quelle ricchezze che
appesantiscono il cuore, e che sono, del resto, tanto fallaci.
O mio Dio,
o eterna e infinita Grandezza, perché oggi le anime sono così poco
desiderose della luce mistica e così incapaci di averla? Perché
l’occhio dell’orazione è così offuscato e pieno di cispa, da
rendere tediosa la contemplazione delle tue grandezze? Perché non si
posa, proprio come un riflettore, per raccogliere dall’Infinito lo
splendore che l’illumina, e che gli dona poi un fascio di luce
d’intelligenza e d’amore che glorifica Dio nell’ansietà
dell’amore che in Lui si slancia? Perché è così infermo da non
tollerare la luce, e da non saper rimanere nei suoi raggi? Perché
scambia i colori del Cielo con quelli della terra, come gli occhi
degli infermi di daltonismo,
e
non discerne più la bellezza dei riflessi eterni, fermandosi sulle
misere luci delle creature? Perché l’occhio spirituale non si
educa a vedere, a poco a poco, la tua luce? Ridonaci la vista
spirituale, o mio Dio, perché siamo attratti in te solo!
Padre Dolindo Ruotolo
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