sabato 31 maggio 2014

Gli Apostoli mandati da Gesù ad evangelizzare il mondo

Commento al Vangelo – VII Domenica di Pasqua 2014 A (Mt 28,16-20)
Solennità – Ascensione del Signore
Gli apostoli mandati da Gesù ad
evangelizzare il mondo


Mentre i sacerdoti, gli scribi e i farisei cercavano, con la più stupida calunnia, d’impedire il propagarsi della buona novella, Gesù Cristo, con la sua divina autorità, investiva gli apostoli della loro missione e solennemente li mandava ad annunciare la verità a tutte le genti di buona volontà, battezzandole nel nome della Santissima Trinità, e incorporandole al suo Corpo mistico. Egli, mandandoli, non li fece ministri di una vana eloquenza, ma ordinò loro di istruire le genti e d’insegnare ad osservare tutto ciò che aveva comandato loro. La predicazione evangelica è perciò eminentemente didascalica, e non può perdersi in vane parlate che servirebbero più a magnificare l’oratore che a dilatare il regno di Dio. L’esposizione delle verità, del resto, è l’eloquenza più bella che possa desiderarsi, poiché è luce che illumina la mente, ed è calore che riscalda il cuore e la vita. L’oratoria non è mai apostolato, anzi molte volte diventa vera causa dell’ignoranza che affligge l’anima cristiana. Bisogna darle definitivamente il bando, e ritornare alle forme di omelia e di catechesi che avevano le prediche nella Chiesa primitiva.
Mandando gli apostoli in tutto il mondo, Gesù Cristo, fece ad essi e ai fedeli di tutti i secoli la consolante promessa di essere con la Chiesa e con loro fino alla consumazione dei secoli. Egli, difatti, è con noi vivo e vero, nella Santissima Eucaristia, ed è con l’autorità che regge la Chiesa, di modo che non può mai avvenire che la verità e la vita della Chiesa possano venir meno nel corso dei secoli. La promessa dell’indefettibilità del Corpo mistico del Re divino esclude, nella maniera più categorica, la fandonia di quelli, i quali affermano, con tracotanza, che la Chiesa ha deviato dal suo cammino. È un assurdo che contrasta con l’essenza della promessa del Redentore e con la testimonianza della storia. Se la Chiesa avesse deviato, Gesù non sarebbe stato con essa e non l’avrebbe assistita; se avesse smarrito la verità, sarebbe perita, perché la sua vita sta tutta nella verità e nel bene. Ringraziamo Dio che essa è, invece, più rigogliosa che mai, e cantiamo al Signore un inno d’amore riconoscente, perché si è degnato di conservarci nel suo seno.
Per la presenza di Gesù Cristo, la vita della Chiesa è una meraviglia di luce, di fecondità e di forza spirituale che trascende ogni immaginazione umana; per la presenza eucaristica, fiorisce nel suo seno l’eroismo più puro, ed essa ascende sempre dalla povera valle dove peregrina fino al godimento eterno.
Nel suo mortale cammino è sempre assalita e combattuta, perché segue il suo Re appassionato, ma il sapere che Egli è con essa, il constatarlo, il viverne è tale conforto che muta tutte le sue battaglie in trionfi, e le fa godere, nelle stesse angustie, la pace più profonda. La frase del poeta venosino che il sole non ha visto mai nulla di più grande di Roma può applicarsi solo nella Chiesa se si vuol dare ad essa il valore del vaticinio. Roma pagana, infatti, in mezzo alle grandezze militari, offrì uno spettacolo di tale miseria morale, da potersi dire che il sole non abbia visto nulla di più turpe; Roma pagana, oggi, è solo un insieme di rovine che sono archeologicamente interessanti e rivelano una grandezza passata, ma che, in fondo, sono ruderi informi. Solo la Chiesa ha reso Roma il centro dell’impero del Re divino; solo la Chiesa, nonostante le inevitabili debolezze degli uomini che ne fanno parte, offre lo spettacolo di un impero di verità, di bene e di amore, dove la potestà che comanda non cerca la gloria ma il bene, non opprime ma guida, non sfrutta ma dona, e dona le ineffabili ricchezze spirituali che essa possiede.
Quale società e quale istituzione può avere vivo in lei il suo fondatore? I mausolei e i monumenti più grandiosi non sono che pietre, e i resti mortali degli uomini illustri sono putredine e cenere. Solo la Chiesa possiede il suo Re risorto e immortale, lo possiede vivo e vero, lo adora, gli parla, gli si unisce, ne beve la vita, e si consola in Lui. Il sacro tabernacolo eucaristico è più che un monumento; è l’Arca dov’Egli vive, ci si dona, e regna.
Per l’Eucaristia, il dono della sua Parola diventa vita, immaginare il Vangelo senza il tabernacolo eucaristico è come immaginare una statua senza movimento e senza respiro, o come pretendere che un erbario possa essere lo stesso che la feconda campagna. Gesù Cristo è sempre con la Chiesa, e vi continua la sua vita ammirabile, riproducendola nel suo Corpo mistico, e comunicandola attraverso i Sacramenti; Egli è veramente con noi, perché ci genera, ci alimenta, ci istruisce, ci guida, ci sostiene, e ci porta alla vita eterna
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 24 maggio 2014

Gesù promise un altro Consolatore

Commento al Vangelo – VI Domenica di Pasqua 2014 A (Gv 14,15-21)
Gesù promise un altro Consolatore


A primo aspetto sembra quasi che Gesù Cristo prometta agli apostoli un altro Paraclito, per sostituire la sua presenza in mezzo a loro durante la sua assenza; Egli, infatti, soggiunge: Non vi lascerò orfani, tornerò a voi. Ancora un po’ di tempo e il mondo non mi vedrà più; ma voi mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. Intanto è certo che Gesù, anche senza la sua presenza visibile, rimase e rimane nella Chiesa; anzi Egli è in essa vivo e vero nell’Eucaristia, ed Egli stesso dice: Io vivo e voi vivrete, vivo nell’Eucaristia, e voi vivrete di me in questo Sacramento d’amore. Ora, se Gesù rimase e rimane nella Chiesa, perché promise un altro Paraclito? E perché disse che non avrebbe lasciato orfani i suoi apostoli, ma sarebbe ritornato a loro?
Letteralmente Gesù alluse al suo ritorno visibile dopo la sua risurrezione e alla fine del mondo; consolò gli apostoli della sua morte, dicendo che sarebbe ritornato, e consolò la Chiesa militante che nelle sue lotte l’avrebbe visto quasi assente, dicendo che sarebbe ritornato vivente nella sua gloria, per darle il possesso solenne della vita eterna: Mi vedrete perché io vivo e voi vivrete. Nella gloria della sua risurrezione, gli apostoli l’avrebbero riconosciuto meglio come Dio, ed avrebbero capito che Egli è nel Padre, come avrebbero capito che Egli è il Redentore, e gli uomini in Lui trovano la vita, ed Egli dimora in loro per donarla. Nell’ultimo giorno sarebbe apparso evidente il fulgore della sua divinità a tutte le genti, e la Chiesa, suo Corpo mistico, completa nella sua santità e nei suoi eletti, sarebbe apparsa congiunta a Lui come membro al corpo, ed Egli, congiunto ad essa, come Capo al corpo.
Gesù Cristo doveva eclissarsi dagli apostoli con la sua morte e sepoltura, e doveva eclissarsi anche dopo la risurrezione con la sua Ascensione al cielo. Gli apostoli non l’avrebbero più avuto come Maestro visibile, e non avrebbero più goduto della sua presenza sensibile, e perciò Egli promette loro lo Spirito Santo come Maestro interiore di verità, e come Consolatore intimo nel cammino terreno.
Egli parla loro e parla a tutta la Chiesa, promette loro il suo ritorno dopo la risurrezione, e promette alla Chiesa il suo ritorno non solo nel Giudizio finale, ma in una nuova effusione di misericordie e di grazie, in un trionfo grandioso che ne farà sentire la presenza, ne farà apprezzare la grandezza, e farà vivere talmente di Lui Sacramentato, da sentire che Egli è in noi e noi in Lui. In questa grande effusione di grazie e in questo trionfo Egli, sfigurato dagli errori del mondo persino nell’animo di tanti fedeli, sarà riconosciuto veramente come Dio: In quel giorno conoscerete che io sono nel Padre mio; e sarà riconosciuto per la maggiore diffusione della vita eucaristica: Conoscerete che voi siete in me e io in voi. Il trionfo sarà preparato dallo spirito di verità, in opposizione allo spirito del mondo, perché ci sarà grande luce di verità nella Chiesa, una maggiore comprensione della fede per i dottori che la illumineranno di nuovi fulgori, per la grazia dello Spirito Santo.

Una bella predizione?
Questo che diciamo risponde all’aspettazione della Chiesa fin dai suoi primordi.
La Chiesa, tra le sue pene e le sue prove, ha aspettato sempre e attende tuttora un trionfo smagliante del suo Redentore anche nel mondo; essa attende quasi una nuova Pentecoste, una nuova effusione di grazia e di amore, una clamorosa vittoria sul mondo, una grandiosa dilatazione del regno di Dio che sia pratica glorificazione dei tesori della redenzione nelle anime, e soprattutto dell’Eucaristia. Questa vittoria non sarà un’affermazione di prestigio politico, non deriverà da onori e da beni temporali, ma sarà un’affermazione di vita interiore in unione con Gesù Sacramentato, una potente affermazione della forza che può dare lo Spirito Santo, nelle glorie della santità e del martirio, un fervore nuovo nell’osservanza dei precetti e dei consigli evangelici, uno splendore di smagliante purezza, di umiltà, di carità, di vita interiore e soprannaturale, un rifiorire mirabile della vita religiosa, un ripopolarsi dei chiostri deserti, diventati ora covi di profanatori ladri, di soldati, di uffici pubblici, di ritrovi e persino di case di peccato.
Sarà anche una rifioritura ammirabile della vita mistica, in elevazioni superiori a quelle avute in ogni tempo, e Gesù Cristo si manifesterà alle anime elevate così in uno splendore di luce tanto grande, da renderle monumento vivo d’amore e tempio della Santissima Trinità.
È questo il trionfo che la Chiesa attende e che avrà dalla bontà di Dio in mezzo a lotte anche più aspre di quelle sostenute nel passato. Gesù lo espresse in poche parole, dicendo: Chi ha i miei comandamenti e li osserva, mi ama. L’amore, dunque, dovrà essere pratico e operativo per essere palpito vivo di santità. E chi mi ama sarà amato dal Padre mio, cioè sarà oggetto di particolari grazie dello Spirito Santo, che è Amore infinito. Ed io lo amerò – soggiunse Gesù –, e gli manifesterò me stesso; lo amerò comunicandomi a lui nella mia vita di amore eucaristico, e gli manifesterò me stesso nelle elevazioni dell’amore mistico.
Don Dolindo Ruotolo

sabato 17 maggio 2014

Signore facci vedere il Padre e ci basta

Commento al Vangelo: V Domenica di Pasqua A 2014 (Gv 14,1-12)
Don Dolindo Ruotolo
Signore, facci vedere il Padre e ci basta
Gli apostoli erano rimasti turbati e sconvolti da quello che Gesù aveva loro detto che sarebbe stato con loro solo per poco, e che l’avrebbero cercato, ma non avrebbero potuto seguirlo dov’Egli sarebbe andato allora.
Il loro turbamento era tanto più profondo, in quanto sembrava loro che svanissero d’un tratto tutte le speranze che avevano concepite, e gli ideali che avevano sognati. Speravano ancora che Gesù avesse dovuto trionfare clamorosamente e politicamente dei nemici d’Israele, e inaugurare un regno glorioso, nel quale essi avrebbero avuto posti eminenti; speravano che questo dovesse presto avverarsi, e pregustavano forse, fantasticamente, la confusione che avrebbero avuta i suoi nemici; ora, il sentir parlare di tradimento, e implicitamente di morte, li turbava e disorientava. Per questo Gesù, rincuorandoli, disse: Il vostro cuore non si turbi, abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me; cioè: abbiate fede in Dio che saprà compiere le sue promesse, ed abbiatela anche in me che non vi lascerò delusi nella speranza che avete riposta in me.
Al dolore per la mancata realizzazione delle loro speranze e dei loro sogni si univa, negli apostoli, quello per essi anche più penoso della separazione dal loro amatissimo Maestro. Le sue parole, infatti, erano un annuncio di prossima morte, ed essi pensavano, angosciati, che non l’avrebbero più visto. Per questo Gesù soggiunse che Egli se ne andava per preparare loro il posto, perché nella Casa del Padre suo c’erano molte dimore. Se non fosse così soggiunse –, ve l’avrei detto, cioè mi sarei licenziato da voi definitivamente; ma io verrò di nuovo, vi prenderò con me, e sarete anche voi dove io sarò.
Come padre amoroso, per non scoraggiarli, prospettò l’epilogo del loro pellegrinaggio ed il premio che avrebbero avuto un giorno, ma certo questo epilogo di gioia non sarebbe avvenuto né presto né senza lunghe e penose prove, delle quali, tante volte, aveva parlato loro, e delle quali dava l’esempio, e perciò soggiunse: Voi sapete dove io vado e ne sapete la via. Non volle parlar esplicitamente del cammino della croce, ma si richiamò con una sola espressione a quello che tante volte aveva detto, per non disorientarli in quel momento di angoscia. Tommaso prese l’espressione di Gesù in senso materialmente letterale e, immaginando che Gesù volesse fare un viaggio lontano, disse: Signore, noi non sappiamo dove tu vada, e come possiamo conoscerne la via? Con una parola sublime, Gesù gli rispose, aprendo all’umanità un orizzonte magnifico di ascensioni, e disse: Io sono la via la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per me. Egli è la via, l’unica via di salvezza, perché con i suoi meriti riconcilia gli uomini con Dio, li muove con la sua grazia, li illumina e li dirige con i suoi esempi e con la sua dottrina.
Egli non traccia solo la via della salvezza, ma è la via della salvezza, di modo che nessuno può andare a Dio se non per Lui, incorporandosi a Lui, e lasciandosi portare da Lui.
La via è un tratto immobile che congiunge due termini lontani. Napoli, per esempio, è lontana da Roma, e nessuno, stando in questa città, può trovarsi a Roma. La via congiunge questi due luoghi, e rappresenta il prolungamento dell’uno verso l’altro. La via partecipa, quindi, dei due luoghi che congiunge: Roma-Napoli e Napoli-Roma.
Gesù Cristo è Dio e uomo, e congiunge in sé questi due termini infinitamente distanti; chi va a Lui Redentore, si avanza verso Dio, e a misura che più si stacca da sé e più si congiunge a Lui, più si trova vicino a Dio e più lo raggiunge. La perfezione è, in fondo, un progredire in questa unione d’amore, un perdere di vista sempre più se stesso, ma congiungersi maggiormente a Lui, fin quasi a combaciare col punto di arrivo cui Egli ci porta.
Gesù Cristo è la verità prima ed essenziale, poiché è l’infinita ed eterna sapienza, conoscenza sostanziale e infinita del Padre. Dio è colui che è; è la verità, l’unica verità dalla quale dipendono tutte le altre, l’unico assioma infinitamente vivente. Chi va a Dio deve conoscerlo per amarlo, e non può conoscerlo fuori di Gesù Cristo che ce lo rivela in tutte le verità che ci annuncia. Noi non siamo capaci di conoscere l’eterna verità senza di Lui, e non possiamo quindi ascendere a Dio, conoscendolo e apprezzandolo sopra tutte le cose che unendoci a Gesù Cristo con una pienissima fede.
Gesù Cristo come Dio è la vita per essenza, e come uomo è la causa meritoria della vita soprannaturale che ci viene comunicata per mezzo della grazia e della gloria.
Egli ci vivifica, e da Lui dobbiamo attingere la vita, comunicandoci di Lui.
Gesù Cristo è la via che ci porta a Dio, la luce che illumina la via, la forza che la fa percorrere. È la vera Via delle ascensioni umane, è la vera sapienza dell’intelletto nostro, ed è la vera vita delle nostre attività e del nostro cuore. Per Lui si nasce soprannaturalmente e si percorre la via dell’eternità; per Lui si ha, diremmo, l’uso della ragione soprannaturale, e si conosce la verità; per Lui e in Lui il cuore viene vivificato ed ama Dio sopra tutte le cose.

Credere in Gesù com’Egli è veramente

Il discorso di Gesù Cristo, certo, era difficile per gli apostoli, ma non era per loro difficile constatare la soprannaturalità delle opere che Egli compiva; essi, dunque, potevano capire che Egli era Dio e come tale era una cosa sola col Padre, consustanziale a Lui. Il ripetere Gesù due volte: Non credete che io sono nel Padre e il Padre è in me?, mostra chiaramente che Egli aveva loro dato tanta luce che avrebbero potuto e dovuto credere. Gesù Cristo stabiliva un fondamento indispensabile a chi vuole seguirlo, credergli ed essere vivificato da Lui, a chi vuole averlo come via, verità e vita, a chi gli si dona interamente perché Egli viva in lui ed operi in lui, e questo fondamento indispensabile è il credere in Gesù com’Egli è veramente, l’apprezzarlo come merita, e il riguardarlo non come il termine o l’oggetto di un sentimento naturale qualunque, ma come vero Dio, le cui parole sono divine, e divine le opere.
È in questa luce soltanto che deve vedersi in Lui la via che ci conduce, la verità che ci illumina e la vita che ci vivifica.
Gesù non ci traccia solo un ideale, non ci parla come un maestro terreno, non appaga solo un nostro vago desiderio di elevazioni spirituali; Egli ci mostra la via dell’eternità, la via che ci porta a Dio, ci rivela le verità divine e assolute, e ci vivifica con la sua stessa vita nei Sacramenti, e specie nell’Eucaristia. È solo così che Egli può vivere in noi e noi in Lui, e che la nostra miseria può essere come sostituita dalla sua ricchezza. Perciò, con mirabile e profondissimo nesso logico, nel suo stile divinamente sintetico, Egli soggiunse: In verità, in verità vi dico: Chi crede in me farà anch’egli le opere che io faccio, e ne farà maggiori di queste, perché io vado dal Padre.
Io me ne vado, e continuo la mia azione in voi e nella Chiesa; voi, credendo in me, cioè uniti a me che vi vivifico, farete ciò che io ho fatto, e opere anche maggiori, com’è maggiore la pianta che sboccia dalla semente e cresce in albero maestoso. Non sarete più di me, evidentemente, ma farete per me opere maggiori di quelle che ho fatte io, domandandole al Padre nel mio nome, cioè per la mia gloria. Voi le domanderete al Padre per glorificarmi, ed io opererò in voi per glorificare il Padre; e se voi domanderete a me qualcosa nel mio nome, per glorificarmi, io la farò, per glorificare il Padre con la mia gloria che è sua gloria, perché io sono sua infinita ed eterna glorificazione.
Il discorso di Gesù, come si vede, raggiunge qui altissime vette, e ci apre un mirabile orizzonte di santità che solo i santi hanno intuito e seguito per sua grazia. Egli non parla di qualunque preghiera fatta al Padre o a Lui nel suo nome, cioè semplicemente invocandolo, per avere grazie temporali, o qualunque grazia spirituale; è importantissimo capirlo. Egli parla di quelle grazie che ci uniscono a Lui e lo donano a noi che lo rendono operante in noi e ci fanno dare a Lui come strumenti della gloria di Dio e della sua gloria; Egli ci dischiude l’orizzonte magnifico della soave schiavitù d’amore che, dandoci a Gesù interamente, fa che Egli compia in noi opere maggiori di quelle fatte nella sua vita mortale, elevandoci ad altissima santità per la gloria di Dio, e compiendo in noi e per noi anche opere straordinarie, affinché il Padre sia glorificato nel Figlio.
Questo, Egli l’ha fatto e lo fa nella Chiesa, organismo ammirabile, via degli uomini per la vita eterna, verità che li illumina, e vita che li vivifica per la gloria di Dio, di Gesù Cristo, suo Figlio, e dello Spirito Santo; questo Egli l’ha fatto nei santi e vuol farlo in ogni fedele; tutto sta, da parte nostra, a crederlo per quel che è, e a donarci a Lui perché Egli ci guidi, ci illumini e ci vivifichi.


sabato 10 maggio 2014

La parabola dell'ovile e della pecorella

Commento al Vangelo: IV Domenica di Pasqua A 2014 (Gv 10,1-10)
Don Dolindo Ruotolo
La parabola dell’ovile e della pecorella
Gesù Cristo, addoloratissimo perché i capi del sinedrio avevano cacciato fuori della sinagoga il cieco nato da Lui guarito, volle mettere in guardia il popolo contro quelli che si arrogavano il diritto di guidarlo, non per nutrirlo spiritualmente, ma per sfruttarlo e allontanarlo dalle fonti della grazia.
Era infatti terribile la situazione delle anime proprio in quel tempo nel quale il Signore compiva le promesse fatte nel corso di tanti secoli, e nel quale si apprestavano loro i pascoli abbondanti della verità e della grazia. Quelli che avrebbero dovuto condurle a questi pascoli, e che avrebbero dovuto far loro riconoscere il Redentore alla luce delle profezie, delle promesse e delle figure che in Lui si compivano, le allontanavano da Lui con tutte le arti più scellerate, tradendo così il mandato avuto da Dio. Essi attribuivano a fanatismo il movimento del popolo verso Gesù, e credevano che Egli lo sobillasse; rifiutavano qualunque luce e, lungi dal commuoversi di fronte a miracoli strepitosi, ne prendevano occasione per invelenire di più contro il Redentore, e per bistrattare quelli che lo seguivano. Avrebbero dovuto per i primi accoglierlo, ricevere da Lui il mandato di pascolare il gregge e condurlo nelle vie della salvezza ai pascoli eterni; invece lo rinnegavano, e proprio per questo rappresentavano degl’intrusi.
Essi non avevano più il mandato da Dio di guidare le anime, dal momento che rifiutavano di ricevere Colui del quale avrebbero dovuto essere come i precursori e i rappresentanti e, poiché cercavano di conquistare le loro cariche con intrighi, anche per questo erano degl’intrusi, e rappresentavano per le anime un pericolo.
Gli scribi e i farisei avevano cacciato il cieco guarito dalla sinagoga, solo perché non si era prestato a svalutare il miracolo ricevuto, e aveva proclamato Gesù un profeta, cercando di dimostrarlo proprio col miracolo ricevuto; avevano preteso, con questo, di esercitare la loro autorità, senza pensare che, dal momento che si erano compiute le promesse, le figure e le profezie in Gesù, essi non avevano più il diritto di pascolare le anime se non per suo mandato. Qualunque autorità che non faceva capo a Lui, Pastore divino del popolo, era un’intrusione e si riduceva ad un massacro di anime. Questa grande e scottante verità, Gesù Cristo la espresse con una parabola, tratta dagli usi che i pastori avevano nel custodire e pascolare le pecorelle.
In Oriente, gli ovili erano dei vasti recinti chiusi o da palizzate o da mura rozzamente elevate che servivano a difendere il gregge dagli animali feroci o dai ladri. Una porta immetteva in questi recinti, dove la sera si radunavano le pecorelle di vari pastori, i quali, andando a dormire, vi lasciavano un vigilante custode per la notte. Al mattino, ciascuno ritornava a prelevare le proprie pecorelle, ed esse, riconoscendo la voce del proprio pastore, lo seguivano, e uscivano con lui per andare ai pascoli. Un ladro che avesse voluto rubare una pecorella, non entrava certo dalla porta, ma scavalcava il muro o la palizzata, e le pecorelle, non riconoscendone la voce, lungi dal seguirlo se ne spaventavano e lo fuggivano. Gesù, perciò, disse: Chi non entra per la porta dell’ovile, ma vi sale per un’altra parte, è ladro e assassino. Chi invece entra per la porta è il pastore delle pecore. A lui apre il guardiano, le pecorelle ne ascoltano la voce, ed egli chiama per nome le sue pecore e le conduce fuori. Quando ha fatto uscire le proprie pecorelle cammina innanzi ad esse, e le pecorelle lo seguono perché ne conoscono la voce; ma non vanno dietro a uno straniero, anzi lo fuggono, perché non conoscono la voce degli estranei.
Gli scribi e farisei che lo ascoltavano non compresero di che cosa parlasse loro, perché erano tanto lontani dal considerarsi come pastori delle anime, e ancora più lontani dall’intendere che da allora nessuno poteva più pascolare le anime senza riceverne da Gesù il mandato. Perciò Gesù soggiunse: In verità, in verità vi dico che io sono la porta delle pecorelle. Quanti sono venuti prima di me sono tutti ladri e assassini e le pecorelle non li hanno ascoltati. E voleva dire: Io sono la porta che introduce le pecorelle nell’ovile eterno, e che per introdurvele le conduco ai pascoli salutari; tutti quelli che sono venuti a reggere le anime senza guardare a me, promesso da Dio come salvezza o a me venuto in terra come Redentore, non sono stati pastori, ma ladri e assassini di anime. Quanti sono venuti e il testo greco aggiunge: prima di me, cioè senza sospirare a me o credere in me –, hanno strappato alle anime la fede, hanno fatto loro sognare un regno temporale, e perciò le hanno uccise eternamente, allontanandole dai pascoli della vita. Per insistere sul suo concetto e per estenderlo agli uomini di tutti i tempi, Gesù Cristo soggiunse: Io sono la porta. Chi entrerà per me sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascoli. Entrerà nel mio ovile, trovandovi il riposo, uscirà ai pascoli nella mia Chiesa, e li troverà abbondanti; entrerà nel regno eterno, e si dilaterà nella felicità eterna, trovando ogni diletto.
Ritornando ai pastori che entrano nell’ovile non per condurre al pascolo le pecorelle ma per sfruttarle, Gesù soggiunse che essi sono ladri e vengono per rubare, uccidere e disperdere il gregge. Rubano loro la fede, ne uccidono l’anima, e le disperdono nella via della rovina eterna. Egli, invece, è porta delle pecorelle e porta per la quale entrano i veri pastori, perché unico supremo Pastore delle anime, è venuto in terra perché esse abbiano la vita e l’abbiano abbondantemente.

La Chiesa Cattolica è la porta,
l’unica, per la quale entra Cristo
Gesù Cristo è la porta dell’ovile per la Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana; non entra nell’ovile per la porta chi prescinde dall’autorità della Chiesa, dalla sua dottrina e dal tesoro che il Signore le ha dato. Gli eretici presumono di guidare il gregge ma, non entrandovi per la porta, sono ladri e assassini di anime ed invece di condurle al pascolo, le conducono alla perdizione eterna. Chi entra per la porta può influire sulle anime, perché ha i grandi mezzi della grazia a propria disposizione, va avanti alle pecorelle con una vita santa, e le pecorelle ascoltano la sua voce traendo profitto dal suo ministero.
I poveri protestanti – i soli che hanno la presunzione di chiamarsi pastori di anime, in opposizione ai veri pastori dell’ovile di Gesù Cristo –, debbono tremare, pensando alla terribile parola con la quale Gesù li designa: ladri e assassini di anime! Possono illudersi quanto vogliono, possono mascherarsi, quanto possono, ma non potranno mai distruggere il fatto che non entrano per la porta dell’ovile, e sono ladri e assassini di anime. Essi, poi, negano il Sacramento della vita e, negandolo, privano le anime della vita che Gesù è venuto a dare e la abbandonano alla morte eterna. Il triste epilogo del protestantesimo in quelle nazioni che hanno apostatato dalla Chiesa, e la loro spaventosa caduta nel razionalismo e nell’idolatria, è troppo eloquente per dirci come i famosi novatori sono stati e sono ladri e assassini delle anime. È Gesù Cristo che li ha definiti così, e nessuno può osare di infirmare la sua divina parola!

Il buon Pastore e il mercenario
Dal modo com’Egli parlò, traspare tutta la sua tenerezza verso le anime e, dal contrapposto che fece tra il buon pastore e il mercenario, tutto il dolore che provava non solo per i falsi pastori del popolo ebreo, ma per i pastori falsi e mercenari di tutti i secoli. Io sono il buon pastore esclamò –; era venuto per dare la vita e per darla abbondantemente, e la dava alle sue pecorelle non solo pascolandole, ma immolandosi per loro; perciò soggiunse: Il buon pastore dà la vita per le sue pecorelle e, secondo l’espressione del testo greco, dà la vita in prezzo di redenzione.
Egli era l’unico pastore che pascolando si offriva, e salvando dalla morte le sue pecorelle s’immolava per esse. Nell’Eucaristia donò se stesso, offrendosi al Padre e immolandosi incruentamente, e sulla croce s’immolò cruentamente. Per confermare e rendere vivo questo grande pensiero, Gesù Cristo ritornò alla similitudine dell’ovile e delle pecorelle, e disse: Il buon pastore dà la vita per le sue pecorelle; il mercenario, invece, è chi non è pastore, e al quale non appartengono le pecorelle; egli, quando vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo rapisce e le disperde. Il mercenario poi scappa perché è mercenario e non gl’importa delle pecorelle.
Dopo aver detto che Egli è il buon pastore perché dà la vita per le pecorelle, Gesù Cristo soggiunge che Egli ha tanta premura per le sue pecorelle che le conosce ad una ad una, si comunica loro, ed esse lo conoscono. Come il Padre, conoscendo se stesso, genera il Figlio e gli comunica la vita infinita, e come il Figlio conosce il Padre, dandogli una lode infinita, così Gesù Cristo conosce le sue pecorelle, vivificandole ad una ad una, come se fosse tutto e solo per ciascuna, e dà la vita per loro, ad una ad una, di modo che ogni sua pecorella ottiene in pieno il frutto e i benefici della redenzione. Le pecorelle, poi, vivificate da Lui, lo amano perché lo conoscono e lo glorificano. C’è dunque, tra Gesù buon pastore e le sue pecorelle, un’unione d’amore che Gesù stesso paragona all’unione del Padre con Lui Verbo eterno. Egli dona loro la vita, ed esse lo glorificano e lo amano; Egli le cura singolarmente, una ad una, ed esse lo amano d’amore singolare.
Gesù parlava agli Ebrei, ed essi avrebbero potuto capire che essi solo erano i privilegiati, eletti per essere il suo ovile, e per averlo come Pastore; Egli, invece, doveva chiamare al suo Cuore tutte le genti della terra, e perciò soggiunse: Ho altre pecorelle che non sono di quest’ovile; anche quelle bisogna che io conduca; esse ascolteranno la mia voce, e si farà un solo ovile e un solo pastore. Egli chiamò i pagani alla fede, e alla fine dei tempi chiamerà alla Chiesa gli Ebrei dispersi, formando così di tutte le nazioni un solo ovile sotto un solo pastore, il Papa. Dopo un periodo di apostasia generale, Gesù, con l’effusione di nuove grazie, chiamerà tutti i popoli al suo Cuore, e Israele finalmente conoscerà la sua voce, lo crederà come Messia e Redentore, si unirà alla Chiesa Cattolica, e si formerà così un solo ovile di tutte le genti, in una grande glorificazione di Dio su tutti i cuori. Questa glorificazione sarà frutto del Sacrificio della croce, e del rinnovarsi di questo Sacrificio nell’Eucaristia, e il Sacrificio si realizzerà perché Gesù si offrirà completamente alla divina volontà, dando la vita sulla croce, riprendendola nella risurrezione, e rinnovandone, poi, l’offerta sugli altari. Per questo Gesù soggiunse: Il Padre mi ama perché io do la vita per riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma io la dono da me stesso, e ho il potere di darla e il potere di prenderla di nuovo. Questo comandamento ho avuto dal Padre mio.
Ai pastori d’Israele che lo perseguitavano in nome della loro autorità, Gesù, dunque, annuncerà che Egli solo era il buon pastore, e che la loro autorità era tramontata. Ad essi, che avevano congiurato di ucciderlo, dichiarò che sarebbe morto solo per propria elezione, e che questo era conforme al piano della divina volontà. Annunciò la costituzione del nuovo suo ovile, formato dalle genti tutte della terra, e abbatté così, per sempre, le barriere che avevano separato Israele dagli altri popoli. Egli, prendendo la croce, avrebbe preso in mano lo scettro della sua regalità e il vincastro del suo pastorale ministero d’amore, portando al pascolo le sue pecorelle.

sabato 3 maggio 2014

La tenera e mirabile storia dei discepoli di Emmaus

Commento al Vangelo: III Domenica di Pasqua A 2014 (Lc 24,13-35)

La tenera e mirabile storia dei discepoli di Emmaus
Il racconto delle pie donne, lungi dal suscitare nel cuore degli apostoli e dei discepoli la fede nella risurrezione di Gesù, fu per alcuni di loro come il colpo di grazia e crederono ormai tutto finito, rassegnandosi a riprendere le loro occupazioni e a continuare una vita senza speranza di miglioramento. Due di essi, non sapendo più che cosa fare a Gerusalemme, e sembrando loro, dal racconto delle pie donne, di navigare in piena fantasia, determinarono senz’altro di ritornarsene al loro villaggio di Emmaus, distante da Gerusalemme sessanta stadi, cioè poco più di undici chilometri.
Quando si smarrisce l’idea fondamentale di un disegno divino e si pretende di ridurre tutto alle proprie vedute naturali o fantastiche, si crede falso ciò che intorno a quel disegno era stato profetizzato e si giurerebbe che le parole che vi si riferivano erano false. Qualunque luce che venga a confermarne la verità sembra un’illusione più grande, e la mente, concentrata nel proprio disinganno, non ammette che la propria convinzione. Tale era lo stato dei discepoli di Emmaus, di uno solo dei quali il Sacro Testo ci conserva il nome, Cleofa, forse perché in quel nome era sintetizzato lo stato di entrambi.
Se ne andavano mesti per la via solitaria e discorrevano fra loro di quello che era accaduto. Erano vissuti per molto tempo con Gesù ed erano talmente ricolmi dei suoi ricordi che non potevano parlare che di Lui. Il racconto delle pie donne che avrebbe dovuto essere per loro di grande luce, aveva dato il colpo finale alla loro fede, come si è detto ma, pur non credendo più, non potevano disinteressarsi di quello che era accaduto, o dimenticarsene.
Mentre ragionavano insieme, Gesù si avvicinò ad essi come un pellegrino, e camminava con loro. I loro occhi, però, erano incapaci di riconoscerlo. Essi credevano ormai che Gesù fosse un uomo e per di più un condannato; questa loro idea, priva di ogni fede, li rendeva incapaci di riconoscerlo, specie dopo la risurrezione, essendo il Corpo di Lui glorioso. Ricordavano il Redentore nella sua carne mortale, pellegrino addolorato; avevano ancora il cuore e la mente pieni dei tristi ricordi della Passione e non potevano riconoscerlo, perché per essi era cosa certa e assoluta che Egli era morto e non poteva rivivere.
Gesù, dal canto suo, non diede loro nessuna luce speciale per essere riconosciuto, perché voleva prima sanarli internamente e voleva che avessero avuto la certezza assoluta di averlo visto e di avergli parlato.
Egli, poi, appariva loro come essi lo avevano nel cuore e, poiché non lo riconoscevano più come Messia ma come un comune pellegrino della terra, Egli si mostrava loro in quella luce. A questo, può aggiungersi anche una ragione psicologica: essi erano pieni di dolore e in preda al più amaro disinganno; non avevano alcun interesse a riflettere sulla persona del pellegrino che loro parlava; era per essi un viandante, e questo bastava. Gesù Cristo utilizzò anche questo loro stato interiore per non farsi subito riconoscere.
Si avvicinò prima come uno che accidentalmente percorreva lo stesso cammino, ed essi non vi fecero caso, continuando i loro discorsi. Poi mostrò di prendere interesse a quello che dicevano, e li interrogò quasi per curiosità, esclamando: Quali discorsi andate facendo insieme mentre camminate, e perché siete rattristati? Avrebbero dovuto rispondere semplicemente di che cosa discorrevano, ma erano così compresi del loro argomento che supponevano dovesse essere di universale interesse, e si stupivano che potesse esserci uno che ignorasse quello che dicevano.
In verità non avevano ragione a rispondere così, perché il pellegrino domandava di che cosa discorressero, ma la loro risposta mostrava in quale stato di dolore si trovavano, e come l’anima loro era compresa degli avvenimenti che si erano svolti a Gerusalemme. Alla domanda di Gesù, perciò, rispose con un senso di stupore e di fastidio Cleofa, uno dei due discepoli: Tu solo sei straniero in Gerusalemme, e non hai saputo quello che v’è accaduto in questi giorni? E Gesù rispose, mostrandosi ignaro di tutto: Che cosa? Tutti e due allora, stupiti ancora più che egli ignorasse quel che era avvenuto, soggiunsero: Di Gesù Nazareno che fu un uomo profeta, potente in opere e in parole innanzi a Dio e a tutto il popolo e, come i principi dei sacerdoti e i nostri magistrati lo hanno condannato a morte e crocifisso. Ora, noi speravamo che Egli stesse per salvare Israele, e ora, oltre a tutto questo, oggi è il terzo giorno che tali cose sono accadute. Alcune donne tra noi ci hanno atterriti, essendo andate prima di giorno al sepolcro, e non avendo trovato il corpo di Lui sono venute a dirci di aver visto un’apparizione di angeli i quali affermano che Egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato la cosa come avevano detto le donne ma non hanno trovato Lui.
In queste parole dei due discepoli è tracciato tutto lo stato del loro animo: essi parlano di Gesù Nazareno, riferendosi solo alla sua origine terrena, e non ricordando in nessun modo che Egli era chiamato il Cristo. Difatti lo riguardano come un uomo e lo riconoscono come un profeta, potente per le opere da Lui fatte e per i discorsi tenuti al popolo, ma semplicemente un profeta. La fede, quindi, s’era completamente spenta in loro. Ricordano la sua condanna e la sua morte unicamente per esprimere il disinganno che avevano avuto per quella morte che aveva troncato le loro speranze in una ricostituzione del regno d’Israele. Negano, o meglio non riconoscono la redenzione e la salvezza per la sua Passione e Morte e mostrano come il loro animo, anche prima della morte di Lui, aveva una fede tutta umana e naturale nella missione che Egli era venuto a compiere. Notano, in particolare, la circostanza che in quel dì si compivano tre giorni dalla sua morte, ma non specificano il perché di questo e parlano confusamente di un fatto che per essi era fondamentale, ad un pellegrino che non avrebbe potuto capirli, essendo ignaro di tutto.
È profondamente psicologico: avevano atteso il terzo giorno con impazienza, per un barlume di fede e di speranza nelle parole del Signore che aveva promesso per il terzo giorno la risurrezione; attendevano, però, non tanto la sua risurrezione quanto quella d’Israele; non osavano parlare di questa loro speranza chiaramente, per non essere trattati da fantastici visionari dal pellegrino.
Come potevano aspettare che uno, morto in croce, risorgesse dopo tre giorni?
E come potevano sperare che avesse ricostituito in un giorno il regno d’Israele?
Pensavano di essere stati troppo ingenui a credere queste cose e, non volendo apparire tali al pellegrino, parlavano con reticenza. D’altra parte, mentre non credevano più, stava fissa nel loro pensiero la promessa di Gesù, e poiché il giorno non era ancora terminato, rinasceva in loro inconsciamente la speranza.
Anche questo è psicologico: chi ha creduto con entusiasmo in un’opera straordinaria, anche quando gli sembra che la falsità e il fallimento ne siano evidenti, conserva nel fondo della mente e del cuore il desiderio che sia vero, non per fede ma per proprio decoro, non volendo ammettere d’essersi ingannato; i discepoli di Emmaus non credevano più, ma affiorava ancora in loro, come ostinazione del loro antico pensiero, il residuo di una fede tanto imperfetta qual era stata la loro fede, e ancora avrebbero voluto non essersi ingannati. Perciò, senza mostrare di darvi peso, anzi, con un accento di scetticismo per non sembrare creduloni, allusero alla visione e alla testimonianza delle pie donne.
Non avevano loro creduto, anzi, addirittura si erano avviati ad Emmaus, non sapendo più che cosa fare in Gerusalemme, ma quella testimonianza, proprio al terzo giorno, li aveva impressionati.
Questo era lo stato del loro animo, e perciò Gesù, con un accento di rimprovero, disse: O stolti e tardi di cuore a credere a tutto ciò che i profeti hanno detto! Non doveva il Cristo patire tali cose e così entrare nella sua gloria? Egli cominciò a svelarsi perché, da ignaro pellegrino qual era apparso sino ad allora, si mostrò con grande maestà, Maestro, e rimproverò i discepoli con forza, chiamandoli stolti e tardi di cuore a credere ai profeti; stolti per i loro pensieri, e tardi di cuore per la mancanza di fede nei profeti.
Gesù risalì alle origini del loro disorientamento: essi non avevano capito che il Cristo doveva patire per entrare nella sua gloria, secondo il decreto divino (cf Fil 2,8; Eb 2,10), e non avevano saputo leggere nei profeti l’annuncio di questo mistero; perciò cominciò Egli a spiegare loro nelle Scritture quelle cose che si riferivano a Lui, cominciando da Mosè e da tutti i profeti.
Tutta la Scrittura è ripiena di Lui, ed Egli accennò con parole vive, vibranti d’amore, le cose principali che si riferivano al mistero della sua Passione e della sua morte.
La mente dei due discepoli era illuminata, il loro cuore ardeva, ed essi vivevano della verità senza riflettere; sparivano le tenebre dal loro spirito, come spariscono le ombre al sorgere del sole, il loro cuore si accendeva di un’insolita gioia; la verità splendeva nella loro mente e rinasceva la speranza, non più in un regno temporale del Messia, ma la speranza della salvezza eterna, e la certezza di non essersi ingannati nel seguire il Redentore. Il loro spirito non analizzava nulla in quel momento, non rifletteva nulla in particolare: viveva della gioia della verità e ardeva d’amore.
Giunsero frattanto nei pressi del villaggio dove essi si recavano, e Gesù fece come se dovesse andare più lontano; non finse, ma mostrò di voler fare quello che avrebbe fatto se non lo avessero trattenuto. Andò oltre perché volle che essi lo avessero invitato a rimanere, per avere il concorso della loro libertà e volontà in ciò che voleva fare, e affinché l’opera di carità di dargli ricetto avesse meritato loro la grazia piena della fede. Mostrò di andare oltre, e realmente sarebbe andato, perché, prima di cibarli di sé e raccoglierli nel suo Cuore, Egli volle che essi l’avessero accolto nella loro casa e gli avessero dato il cibo della carità.
I due discepoli, vedendo che andava oltre, lo trattennero, dicendo: Resta con noi perché si fa sera, e il giorno già declina.
Il sole, infatti, stava per tramontare, le ombre si allungavano, e un senso di pace inondava quei due cuori che risorgevano alla vita. Entrarono. La casetta era silenziosa, non c’erano altre persone. Entrò pure Gesù e vi diffuse un’aura di gioia; Egli era glorioso, benché non si mostrasse tale, e la sua gloria riempiva quella casa come la gloria divina riempì il tempio. I discepoli prepararono la mensa frugale e lo invitarono a sedere. Egli, allora, prese il pane, lo benedisse e lo diede loro.
Era uso, presso gli Ebrei, nei banchetti, che quando l’ospite era un dottore della Legge, spezzasse lui il pane e lo desse ai commensali.
Gesù prese il pane per cominciare a dichiararsi il Maestro. Era il primo segno di riconoscimento che dava ai discepoli. Ma Egli non lo prese semplicemente per darlo, lo prese per darsi e, spezzandolo, lo transustanziò nel suo Corpo e nel suo Sangue, com’è evidente dall’effetto che produsse nell’anima dei discepoli.
Nel consacrare il pane e nel darlo loro, essi lo riconobbero e si aprirono i loro occhi; sentirono la sua vita nel cuore, la grazia li inondò… era il dolcissimo Maestro, era Lui, immensamente più bello, certamente redivivo, l’avevano toccato, avevano conversato con Lui!
Egli sparì: non aveva ragione di mostrarsi oltre; sparì nei loro medesimi cuori, abitandovi, e ridonò loro la fede che avevano perduto; sparì perché il loro atto di fede fosse completo. Essi, infatti, credendo pienamente, si dicevano l’un l’altro: Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre Egli per la strada ci parlava e ci spiegava le Scritture?
Due ardori li avevano infiammati: la sua Parola nello spiegare le Scritture, e il suo Pane di Vita; i due elementi della vita cristiana, i due tesori della Chiesa, senza dei quali è impossibile vivere soprannaturalmente; l’uno illumina la mente, l’altro fortifica la volontà, l’uno fa ardere il cuore d’amore per la conoscenza che dà di Dio, l’altro apre gli occhi sui beni eterni. Scrittura ed Eucaristia, Parola di Dio e Cibo di vita sono due alimenti che non possono dividersi mai nella formazione dell’anima cristiana.
Il protestante, anche se spiegasse le Scritture secondo verità – il che dolorosamente non fa essendo separato dalla Chiesa –, senza l’Eucaristia avrebbe un cibo che non può essere assorbito; il cristiano che si ciba di Gesù Eucaristia, senza formare l’anima con la Parola di Dio, nella luce della Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana, non si unisce pienamente a Gesù, e non apre i suoi occhi per conoscerlo per quello che è.
Gesù Cristo, per sanare l’anima dei due discepoli infedeli, prima li interrogò, e volle dal loro labbro la confessione del loro stato deplorevole d’animo. Egli, che conosceva bene quello di cui parlavano e che scrutava il loro cuore, volle mostrarsi ignaro perché essi avessero confessato lo stato dell’anima loro. La confessione si chiuse con un rimprovero di Gesù: O stolti e tardi di cuore a credere, perché si fosse eccitato in essi il pentimento; al rimprovero seguì la luce della verità nella spiegazione delle Scritture, e finalmente il Cibo di vita nel Pane che Gesù spezzò loro. Il Signore si mostra quasi ignaro dei nostri atti e vuole che ci confessiamo; è questo il fondamento della rinascita spirituale.
I discepoli si confessarono da Gesù, ma sotto le sembianze d’un pellegrino; noi ci confessiamo a Gesù confessandoci dal sacerdote che è il pellegrino che ci accompagna nella nostra via di esilio. Pretendere di confessarsi direttamente a Dio è illusione, perché il Signore non ci si mostra visibilmente che nei suoi ministri. Il peccato ci rende stolti e tardi: stolti nell'apprezzamento della verità e tardi nella volontà, incapaci ad orientarci nella vita secondo i fini dell’adorabile volontà di Dio. Se non si risana prima l’anima come la si può cibare?
Padre Dolindo Ruotolo