Commento
al Vangelo: III domenica di Quaresima 2015 B (Gv
2,13-25)
Gesù
caccia i profanatori dal tempio
Da
Cana di Galilea Gesù, insieme con la Madre, i suoi parenti e i suoi
discepoli, scese a Cafarnao che si trovava a un livello più basso, e
vi rimase alcuni giorni, per unirsi al pellegrinaggio che si recava
in Gerusalemme per la solennità della Pasqua. Egli non aveva ancora
stabilito a Cafarnao la sua dimora. Andato a Gerusalemme si recò al
tempio per adorare il Padre, e vi notò un gravissimo sconcio, contro
il quale insorse con tutto l’impeto del suo zelo e il fulgore della
sua divina maestà.
Nell’atrio o cortile detto dei
pagani, si era formato un vero mercato di animali atti ai sacrifici
cruenti, e di ciò che poteva servire per le offerte sacre. Data
l’imminenza della Pasqua, il traffico era grande e, per facilitare
il cambio delle monete greche o romane che non potevano essere
introdotte nel tempio a causa dei loro simboli pagani, si erano
stabiliti nell’atrio sacro anche dei cambiavalute, pronti a
cambiare con interesse, ad usura, le monete in sicli ebraici
d’argento. La baraonda e il vociare dei trafficanti, unito alle
voci degli animali e al sudiciume che vi lasciavano, avevano ridotto
il luogo sacro in uno stato obbrobrioso; i sacerdoti e i leviti
lasciavano fare, perché ricavavano lauti profitti da quel commercio.
Nel tempo della sua vita nascosta,
Gesù aveva notato il sacrilego sconcio ogni volta che era andato a
Gerusalemme, ma aveva taciuto, perché non era giunto il tempo di
rivelarsi; ora, però, Egli iniziava la sua vita pubblica e, operando
da padrone, ripieno com’era d’amore per il Padre, avvampò di
santo sdegno e, prese alcune cordicelle, forse di quelle che
servivano a tener legati gli animali, ne formò come una sferza e
cominciò a cacciare fuori gli animali, e con essi gli uomini che li
custodivano o li vendevano. I banchieri, i più freddi e insensibili
al divino rimprovero, non si mossero, anzi, dovettero aggrapparsi ai
loro banchi per difenderli dall’urto degli animali che fuggivano in
ogni direzione, ma Gesù, avvicinatosi ai banchi, li rovesciò con
impeto divino, gettando per terra le loro monete. Solo verso i
venditori di colombe fu più pacato, perché essi le vendevano ai
poveri e le avevano in gabbia, e li esortò a togliere di là quella
roba, gridando ad essi e a tutti di non cambiare la casa del Padre
suo in una bottega di traffico. Nessuno osò reagire a quell’impeto
divino, e ne fu tanta la maestà amorosa che gli apostoli, benché
ancora novellini nelle vie di Dio, si ricordarono che nel salmo 68,10
era predetto del Messia che lo
zelo della Casa di Dio lo avrebbe consumato,
e videro spontaneamente, in quell’atto, il compimento della
profezia.
La Vergine Santissima, ottenendo
a Cana il miracolo dell’acqua mutata in vino, aveva anticipato
l’ora di Gesù,
cioè il tempo
della sua manifestazione pubblica come Messia e Salvatore del mondo,
e il primo atto del ministero di Lui fu quello di cacciare dal tempio
i profanatori che lo avevano ridotto ad una bottega.
Non
è sacro solo il tempio di Dio, ma tutto ciò che vi ha attinenza
I profanatori non stavano
propriamente nel tempio, ma nel cortile più esterno dov’era lecito
anche ai pagani di penetrare; era uno dei cortili, non era il santo
né tanto meno il Santo dei Santi, e ciononostante, Gesù ne cacciò
fuori i profanatori con grande impeto.
È una lezione per i ministri
dell’altare, per l’anima e per il mondo medesimo. Non è sacro
solo il tempio di Dio, ma tutto ciò che vi ha attinenza, o che ne è
complemento: la sacrestia, le sale annesse per le associazioni
cattoliche, e quello che serve al culto.
Non si può profanare in nessun
modo con traffico o avidità di guadagno, o mancanza di giustizia e
di carità, quello che appartiene a Dio.
La sacrestia è vestibolo del
tempio, il portico esterno o la piazza ne è come il cortile, la
compravendita di ciò che serve al culto è, indirettamente, un atto
di culto, e non può ridursi ad un traffico qualunque.
Chi vende deve ricordarsi che
vende per onorare Dio, e chi compra deve evitare tutto ciò che sa di
avarizia o di mancanza di carità. Il Signore retribuisce al centuplo
sia chi vende con generosità, per suo amore, sia chi compra con
carità.
È poi degno della sferza di Dio
ogni profanazione del luogo sacro propriamente detto; le sacrestie
sono luoghi di raccolta preparazione ai Sacri Misteri; non sono
luoghi di contrattazioni o, peggio, di alterchi, di mormorazioni e di
mancanze di carità; il tempio è luogo di orazione, e non vi si può
chiacchierare, trattandovi affari temporali e mondani, quasi fosse il
luogo di convegni, di appuntamenti o di conversazioni.
La profanazione della Casa di Dio
attira i flagelli nazionali e sociali sui popoli.
Quando scoppiano le guerre o le
rivoluzioni devastatrici, è la mano del Signore che caccia i
profanatori, e fa sentire loro che non è lecito offendere la divina
maestà.
Il
rimprovero dei Giudei a Gesù e la sua assoluta padronanza
Il frastuono prodotto dall’uscire
precipitoso dei venditori e degli animali dal cortile del tempio fece
intervenire intorno a Gesù, di furia, i
Giudei, cioè le
autorità del santuario, decise a mettere a posto il disturbatore del
loro traffico indegno, e di espellere, a loro volta, dal luogo santo,
colui che, a loro giudizio, si arrogava un potere che non aveva; ma
quando si trovarono innanzi al Signore furono così conquisi dalla
sua divina maestà che non osarono rimproverarlo e tanto meno
cacciarlo; videro, nel suo atteggiamento, qualcosa di straordinario,
e vollero accertarsene, domandandogli un miracolo come conferma.
La loro pretesa poteva essere
anche legittima, se avessero fatto quella domanda per accertarsi
della missione di Lui; ma essi, in realtà,
benché conquisi
della sua maestà, crederono di metterlo in imbarazzo, costringendolo
a riconoscere di non avere il potere di sostituirsi a loro nella
custodia del luogo santo. Lo sdegno, poi, che sentivano per il
mancato lucro che veniva ad essi da quell’indegno mercato dovette
farli avvampare d’ira, e far loro desiderare fin d’allora di
disfarsi di Lui.
Egli, perciò, riaffermando con i
fatti la sua divina potestà e padronanza che non doveva dar conto a
nessuno nel tutelare l’onore del Padre, rispose enigmaticamente:
Distruggete
questo tempio, e io in tre giorni lo riedificherò.
La frase sembrò un assurdo, data
la mole del tempio e la sontuosità della fabbrica.
L’edificio, cominciato da Erode
il Grande nell’anno 18°
del suo regno, e
quindi molto tempo prima della nascita di Gesù, non era terminato
ancora nei suoi particolari, benché ci si lavorasse da 46 anni. Fu
terminato solo nel 64 dell’era nostra, poco prima della sua
distruzione per opera dei Romani, il 70 dell’era volgare. I Giudei,
perciò, dissero a Gesù in tono ironico: Questo
tempio fu edificato in quarantasei anni, e tu lo rimetterai in piedi
in tre giorni? Gesù,
invece, – soggiunge l’evangelista –, parlava
del tempio del suo corpo, e
quindi alludeva alla sua morte ed alla sua risurrezione. I suoi
apostoli lo constatarono quando Egli risorse, si ricordarono che la
Scrittura in più luoghi aveva predetto la sua risurrezione (cf Sal
15,10; Is
53,10-12) e crederono alle sue parole.
Nonostante che la promessa di
Gesù avesse avuto il carattere di un paradosso, gli Ebrei non
osarono reagire violentemente contro di Lui; sentirono, loro
malgrado, che era la verità, benché non sapessero spiegarlo. Alcuni
suppongono che Gesù, nel dire quelle parole, avesse fatto cenno con
la mano al suo corpo, toccandosi il petto ma, pur facendo questo
gesto, Egli non avrebbe potuto farsi intendere da quelli che
ignoravano i prossimi misteri della sua morte e della sua
risurrezione. Con profondissimo pensiero, Egli accennò all’argomento
fondamentale della verità di tutta la sua opera, e parlò con piena
padronanza, precorrendo i tempi. Se pur avesse fatto un miracolo in
quel momento, come ne aveva già fatto molti in Gerusalemme (versetto
23), i Giudei non gli avrebbero creduto; Egli, invece, li tacitò con
una risposta enigmatica, detta in tutta la pienezza della sua maestà.
Mettendoli così a tacere, non diceva una cosa paradossale, se si
riguarda la sua affermazione nella luce divina.
Quel tempio maestoso, infatti,
era figura e ombra del suo Corpo divino; all’apparenza sembrava
immensamente più grande, ma, in realtà, era infinitamente più
piccolo. Per distruggere il tempio materiale ci sarebbero voluti
elementi umani, determinati e mossi dalla volontà umana; per
uccidere, invece, il suo corpo era necessario un permesso della
divina volontà, e occorreva il concorso del suo amore che si donava.
Era un prodigio di misericordia
il permesso dell’immolazione della Vittima divina, com’era un
prodigio di onnipotenza la sua risurrezione dalla morte.
Il tempio stava dunque al suo
Corpo come lo schizzo di una fabbrica sta alla fabbrica stessa; Gesù,
quindi, non si servì d’un paragone improprio né disse una parola
vana ma la sua fu una parola profondissima.
Un
enigma penoso per gli apostoli
Dal contesto si rileva che per
gli apostoli l’affermazione di Gesù dovette costituire sempre un
enigma penoso e un’oscurità in mezzo alla luce che pur vedevano
intensa; è per questo che l’evangelista soggiunge che essi,
dopo la risurrezione di Gesù si ricordarono di quelle parole, e
crederono alle Scritture e a ciò che aveva detto il Signore. Si
spiegarono solo allora un mistero incomprensibile che aveva per essi
l’apparenza di un assurdo.
Così avviene nelle grandi
manifestazioni della potenza, della sapienza e dell’amore di Dio;
accanto alla luce ci sono pure le ombre e le tenebre misteriose;
perché non tutto ciò che dice o opera il Signore si riferisce ai
nostri piccoli pensieri o al tempo presente.
Quando si vede la luce da un
lato, le oscurità non sono tenebre di falsità ma un’oscurità e
ombra di un mistero che può chiarificarsi dopo anni di attesa, e che
può attendere la sua luce anche nell’eternità.
Nel tempo nel quale Gesù stette
a Gerusalemme per la Pasqua – soggiunge l’evangelista –, molti
crederono in Lui per i miracoli che Egli faceva, ma la loro fede era
superficiale, benché esternamente sembrasse entusiasta, e Gesù non
si fidava di loro, perché li conosceva nell’intimo del cuore, e
non aveva bisogno che altri rendesse testimonianza di loro.
San Giovanni, con
queste parole,
vuol far notare che Gesù era Dio, e considerava le sue creature non
attraverso le apparenze esterne, ma scrutandone il cuore
e conoscendone
gl’intimi pensieri.
Innanzi a questo sguardo divino
non possiamo presumere di noi né fidarci della nostra giustizia,
perché Egli può vedere ciò che noi non vediamo.
A volte ci sentiamo soddisfatti
della nostra bontà e ci inorgogliamo, spesso paragonandoci agli
altri che crediamo a noi inferiori.
Umiliamoci profondamente e
pensiamo che Dio forse non può fidarsi di noi, umiliamoci pensando
che innanzi a Lui compaiono le nostre responsabilità anche occulte.
Quante angustie nella vita che ci sembrano immeritate sono effetto
dei nostri peccati nascosti, quante tribolazioni ci colpiscono per
purificarci di miserie che noi non
scorgiamo!
Quante risoluzioni di bene facciamo che poi miseramente svaniscono!
Tu non
puoi fidarti di
me, o Signore, ma io confido nella tua misericordia, e sono sicuro
della tua bontà.
Apri dunque le braccia e
accoglimi, rendi ferma in te la mia volontà e fa’ che io ti sia
fedele fino alla morte.
Don Dolindo ruotolo
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