Commento
al Vangelo: V Domenica di Pasqua 2015 B (Gv
15,1-8)
L’unione
dell’anima con Gesù Cristo
Gesù
Cristo esortò gli apostoli ad alzarsi da tavola e andar via, ma non
uscirono immediatamente, perché dovettero rassettare la sala del
banchetto. Mentre raccoglievano i residui della mensa, Gesù continuò
il suo discorso con loro. Egli, che già si chiamò pane di vita e si
paragonò al granello di frumento, vedendo gli apostoli che
toglievano i vasi del vino, o forse anche vedendo qualche tralcio
disseccato di vite che poteva essere nella sala per attizzare il
fuoco, esclamò: Io
sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Gesù
era il coltivatore divino della vigna novella che era venuto a
piantare in mezzo al popolo eletto, ma in quel momento si era donato
vivo e vero come Cibo e come Bevanda, ed era Egli stesso la vite che
dava il frutto soave, e lo dava perché le anime, congiunte a Lui,
avessero prodotto anch’esse il loro frutto, in Lui e per Lui.
Dandosi sacramentalmente, Egli si era come moltiplicato e aveva
promesso di darsi a tutti i suoi fedeli, unendoli a sé; era dunque,
per l’Eucaristia, come una vite che doveva coprire dei suoi tralci
tutto il mondo e i fedeli erano i suoi tralci, congiunti a Lui, per
attingere da Lui il succo vitale e produrre il frutto. Il Padre suo,
sotto questo aspetto, era il vignaiolo e il coltivatore di questa
vite divina, poiché Egli aveva mandato il Figlio suo in terra
perché, salvando le anime, le avesse congiunte a sé e le avesse
rese come suoi tralci vivi e fecondi. Per mezzo dei Sacramenti, e
soprattutto per l’Eucaristia, i fedeli, congiunti a Gesù Cristo
come i tralci alla vite nel suo mistico Corpo, avrebbero attinto la
sua vita e prodotto in Lui e per Lui frutti di eterna gloria.
L’espressione
più bella della schiavitù d’amore al Re divino sta proprio nel
paragone della vite e del tralcio, simbolo del Corpo mistico unito al
suo capo in una dedizione piena che è in Lui legame d’amore e
libertà piena da ogni vincolo di morte. Il tralcio non è libero
quando è congiunto alla vite, perché la sua vitalità dipende da
essa; ma questa dipendenza non è oppressione o mancanza di attività
proprie, è invece espansione di vita, fioritura e produzione di
frutto. Se il tralcio si stacca dal ceppo e pretende di vivere da sé,
muore, è reietto, è schiavo del terreno in cui giace inerte, è
schiavo di chi lo raccoglie per gettarlo nel fuoco ed è schiavo del
fuoco medesimo che lo consuma. L’anima che si dona interamente a
Gesù, senza restrizioni, rinuncia alla propria inerzia e, per la
dolce schiavitù d’amore, è tutta vivificata da Lui. Essa, più
che rinunciare alla propria libertà, dona a Lui l’intera libertà
di elevarla e santificarla, e vive di una libertà divina,
immensamente più vera e più bella della propria effimera libertà.
Sta, infatti, nell’essenza della libertà, non tanto il potere di
operare il male o di degradarsi, ma la possibilità di elevarsi in
Dio senza restrizione, in una continua ascesa verso le vette della
perfezione e della santità.
La
libertà del male è un difetto della libertà non un vantaggio,
com’è un difetto il servirsi di una tastiera libera di pianoforte
per strimpellarvi note confuse e accordi stridenti.
Si
è veramente liberi al pianoforte quando si è legati alla melodia e
al ritmo, e quando vi si suona ogni specie di musica, senza esser
costretto da un diaframma ad una sola suonata o, peggio, senza esser
costretto dalla paralisi del braccio o delle dita a percuotere i
tasti senza nesso alcuno.
Gesù
Cristo è
la vera vite, cioè
è il vero centro della vita delle anime, congiunte a Lui nella
Chiesa e per la Chiesa. Ora, come nella vigna l’agricoltore toglie
via dalla vite quei tralci che non portano frutto e pota salutarmente
quelli che ne portano poco, così Dio recide dal Corpo mistico del
Redentore le anime che non portano frutto alcuno, perché non
assorbono più la sua vita, e purifica con le tribolazioni, le prove
e le tentazioni, le anime che danno con facilità corso alle proprie
miserie, e si espandono nel mondo, come un povero tralcio che si
allunga lontano dal tronco, si avvinghia agli sterili pali, e
disperde tutto l’umore che dovrebbe farlo fiorire e fruttificare.
Se
rimarrete in me e le mie parole rimarranno in voi,
qualunque
cosa vorrete e la domanderete vi sarà concessa
Gesù,
rivolto agli apostoli, disse che essi erano
già mondi per la parola che aveva loro annunciato, perché
i loro pensieri e la loro anima per quella parola di vita erano
orientati a Dio. Tutto ciò che nell’antica Legge era simbolico e
transitorio, era in loro già illuminato dalla realtà, e tutto
quello che di arbitrario vi avevano frammischiato gli scribi e i
farisei era stato illuminato, in loro, dalla luce della verità. Nel
loro spirito Egli aveva come piantato il seme della carità e
dell’universalità, di modo che non erano più isolati nella
cerchia ristretta di una stirpe o di una nazione né erano presi dal
disprezzo verso gli altri e dall'aborrimento verso i peccatori;
aveva dato loro il nuovo precetto della carità perché avessero amato tutti, e li aveva designati ad un apostolato universale, per
conquistare al suo Cuore tutto il mondo. Benché conservassero ancora
le loro idee e le loro debolezze, la sua parola aveva determinato nell'anima loro un mutamento radicale che avrebbe portato il suo
frutto, come lo porta un tralcio potato, al primo tepore della
primavera. Non bastava, però, questo per portare il frutto che Egli
voleva dal loro apostolato e dalla loro anima; essi dovevano rimanere
in Lui e accoglierlo in loro, dovevano attingere la sua vita e cedere
la propria, dovevano essere come tralci uniti alla vite feconda,
poiché senza di Lui nulla di buono o di utile per la vita eterna
potevano fare.
Evidentemente,
Gesù parlava dell’unione eucaristica di Lui negli apostoli, e
degli apostoli in Lui. Lo stesso paragone della vite e dei tralci vi
aveva relazione, poiché Egli aveva loro dato, sotto le specie del
vino, il suo medesimo Sangue, quasi vite divina che aveva donato il
suo grappolo d’uva e il vino generoso che corrobora le forze. È
impossibile portare un vero frutto di opere buone e di apostolato
senza unirsi a Gesù Sacramentato e vivere di Lui e per Lui. È
questo il grande segreto della santità personale e
dell’evangelizzazione del mondo. Ma, per attingere la vita
dall’Eucaristia, non basta semplicemente riceverla: occorre
rimanere
in Gesù, donandosi a
Lui, e farlo rimanere nel proprio cuore, accogliendolo come Re
dell’anima. Ora, non si può rimanere in Gesù senza donarsi né lo
si può accogliere senza lasciargli la piena libertà di operare in
noi, secondo i fini ineffabili del suo amore. Chi si comunica senza
rinunciare a se stesso, ai suoi pensieri, alle sue idee, al mondo,
allo spirito mondano e a tutto ciò che lo attrae alla terra rimane
un tralcio sterile, è gettato via, inaridisce ed è buono solo per
il fuoco eterno.
Per
questo Gesù, dopo aver parlato dell’unione eucaristica con Lui,
parla della necessità di custodire la sua parola: Se
rimarrete in me e le mie parole rimarranno in voi, qualunque cosa
vorrete, la domanderete e vi sarà concessa. Qualunque
cosa vorrete, cioè qualunque frutto vorrete raccogliere dall’anima
vostra, lo otterrete rimanendo
in me nella
Comunione eucaristica, e facendo
rimanere in voi le mie parole, nell’unione
ai miei pensieri e alla mia volontà. Questa duplice unione con Lui
produce la vera ricchezza delle opere buone, rende l’anima vera sua
discepola, e la rende glorificazione di Dio nella vita e nelle opere.
Anche
in questo passo evangelico, Gesù non promette l’esaudimento di
qualunque preghiera, ma l’esaudimento delle preghiere fatte per
ottenere la santificazione dell’anima e il frutto dell’apostolato,
per la gloria di Dio. Ci lamentiamo della nostra miseria e della
nostra debolezza; eppure, se ci uniamo veramente a Gesù
Sacramentato, rinnegando noi stessi, i nostri pensieri e la nostra
volontà otterremo qualunque aiuto e potremo progredire nella via
della santità e dell’apostolato, per la divina gloria, unica meta
della nostra vita in terra.
Padre Dolindo Ruotolo
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