Commento
al Vangelo della XVIII Domenica TO 2015 B (Gv
6,24-35)
Gesù
si annuncia Pane della vita
Fattosi
giorno, cominciarono le ricerche di Gesù su per il monte. Il popolo,
infatti, aveva notato la sera che sulla riva v’era una sola barca,
e che in essa erano entrati i soli apostoli quando s’erano
allontanati; Gesù dunque, pensavano tutti, doveva essere in quei
dintorni. Essendo riuscite vane le ricerche, ridiscesero alla riva,
dove frattanto erano giunte molte barche da Tiberiade, e saliti in
esse si avviarono verso Cafarnao, dove supposero che Gesù fosse
andato a loro insaputa. Infatti lo trovarono là e, sorpresi, gli
domandarono: Maestro
quando sei venuto qui?
Evidentemente
non tutte le turbe erano riuscite a prender posto nelle barche, e
quindi il numero di quelli che giunsero a Cafarnao fu ristretto.
Attraversarono il lago i più audaci e i più entusiasmati dal
miracolo che avevano visto, e per questo domandarono a Gesù quando e
come era giunto in quel luogo, supponendo che fosse stato per un
altro miracolo.
In questa
domanda, psicologicamente e sottilmente si manifestava il loro
spirito interessato, perché è spontaneo, in chi ha ricevuto un
beneficio materiale e ne spera altri, interessarsi della persona che
glielo ha fatto, ed avere per lei parole di complimento. In quella
domanda: Quando
sei venuto qui? C’era
un senso di stupore, di premura, e anche di subcosciente adulazione,
un sentimento tutto materiale e naturale che prescindeva da Gesù
come vero Messia, e lo riguardava come uno capace di fare cose
sorprendenti per iniziativa naturale.
Gesù
rispose: Voi
mi cercate non per i miracoli che avete visti, ma perché avete
mangiato i pani e ve ne siete saziati.
E
voleva dire: Voi non mi cercate per i miracoli, vedendo in essi un
segno chiaro della mia missione, ma perché vedete in essi solo un
mezzo per avere dei benefici corporali. Considerate il miracolo più
come un prestigio, come un segno di attitudine nel governare il
popolo, come una manifestazione di genialità, anziché come un segno
divino di un’opera divina di redenzione. Procuratevi
non quel cibo che passa
–
soggiunse
Gesù –, ma
quello che dura sino alla vita eterna, il quale sarà dato a voi dal
Figlio dell’uomo, poiché in Lui impresse il suo sigillo il Padre
Dio.
Escludete
da me che io sia venuto per occuparmi delle vostre necessità
temporali; se vi ho nutriti non l’ho fatto per darvi un pane
materiale, ma per attrarvi al Pane spirituale che dona la vita
eterna. Il miracolo fatto non è stato l’inizio di una serie di
benefici corporali, ma un segno e un sigillo di Dio Padre per
confermare la mia missione redentrice.
Il popolo
interpretò le sue parole come un rimprovero alla negligenza
nell’osservanza dei riti legali, domandò che cosa dovesse fare per
osservarli e compiere così le
opere di Dio. Non
capì che sorgeva un’era nuova di grazie che i riti e le figure si
compivano nella Realtà, e che la Realtà di tutta la Legge era Gesù
stesso, Salvatore del mondo. Non capì che, per compiere davvero le
opere di Dio,
bisognava
riguardare Lui solo che in esse era annunciato e figurato e, poiché
Egli era già venuto e stava con loro, bisognava credere in Lui come
il mandato da Dio. La Legge, infatti, anche prima della venuta di
Gesù Cristo, non aveva valore che per la fede nel futuro Messia; ora
che il Mandato da Dio era venuto, la Legge doveva mutarsi tutta in un
atto di fede in Lui.
Il popolo
capì che Gesù lo esortava a credere in Lui e, con incoscienza pari
all’ingratitudine, gli disse: Quale
miracolo fai tu perché noi vediamo e crediamo? I
nostri
padri mangiarono la manna nel deserto, come sta scritto: diede loro a
mangiare il pane del cielo. Non
terminarono la frase, ma volevano dire: Tu che cosa ci dai di perenne
nella nostra vita, come segno della tua missione? È stupefacente
questa pretesa della turba! Non era essa andata con entusiasmo dietro
a Gesù perché
vedeva i miracoli che faceva per quelli che erano infermi?
E non aveva il giorno prima mangiato un pane miracoloso, tanto da
correre a Lui per proclamarlo re?
L’ingratitudine
e l’incoscienza di quella gente giungeva dunque a tanto da
reclamare miracoli quando ne aveva visti e ne vedeva tanti?
È
evidente da questo che il popolo riguardava i miracoli visti solo da
un punto di vista utilitario, e non li approfondiva per quello che
significavano; per esso quei prodigi erano fatti da un uomo e da un
profeta singolare, ma non giungeva a persuadersi profondamente che
quel profeta fosse il Messia; l’entusiasmo suscitato da un prodigio
era superficiale, e la fede del cuore era come un fiocco di neve
primaverile che cadendo si liquefa.
Quando
Gesù disse esplicitamente che si doveva credere in Lui come
Colui che Dio aveva mandato,
il
popolo credé di trovarsi innanzi ad un fatto nuovo, ad un problema
arduo, ad una proclamazione che non poteva accettare senza miracoli,
fatti per dimostrarne la verità, sembrandogli che il Messia avesse
dovuto mostrarsi almeno alla pari di Mosè, per condurre la nazione
in una nuova via di gloria.
Anche in
questa pretesa del popolo c’era una concezione tutta materiale del
Messia, perché esso credeva che il Messia dovesse essere un
condottiero come Mosè, e dovesse guidarlo con prodigi continui alla
riscossa dal giogo romano, come Mosè aveva guidato i suoi padri alla
riscossa dal giogo egiziano. Gesù Cristo rispose con profondità
degna di Lui, mostrando in sé il compimento della grande figura
profetica di Mosè e della manna, ed esclamò: In
verità, in verità vi dico: non Mosè diede a voi il pane del cielo,
ma il Padre mio dà a voi il vero pane del cielo. Poiché pane di Dio
è Colui che è disceso dal cielo e dà la vita al mondo.
La manna
che aveva dato Mosè non era il vero pane del cielo, ma ne era solo
una figura; non era nutrimento dell’anima ma del corpo, non donava
la vita eterna, ma sosteneva per poco quella temporale. Gesù Cristo
era venuto dal cielo in terra per sostenere la vita spirituale di
quanti avrebbero creduto in Lui, e per sostenerla incorporandoli a sé
e diventando loro vita soprannaturale. In questo senso, Egli poteva
chiamarsi loro
pane, perché
li nutriva con la parola della verità, e voleva diventare loro cibo
vero col dono ineffabile dell’Eucaristia.
Adamo ed
Eva erano stati nutriti dalla menzognera parola di satana, avevano
colto e mangiato il frutto proibito, ed erano caduti nella morte
spirituale ed in quella corporale; Gesù Cristo, novello Adamo,
voleva nutrire i suoi nuovi figli con la parola di verità che doveva
elevarli al Padre, e darsi come frutto di vita dall’albero della
croce, dandosi come Vittima immolata e come Cibo di vera vita.
Sentendo
parlare di pane di vita e di pane che dà la vita al mondo, il popolo
che aveva fresco il ricordo della moltiplicazione dei pani e dei
pesci, prese la frase in senso tutto materiale, e credé che Gesù
volesse rinnovare quel miracolo; perciò esclamò con premura:
Signore
dacci sempre un tal pane.
Il
Redentore li disingannò subito, aggiungendo che il Pane di vita che
voleva dare era Lui stesso, un pane che avrebbe saziato l’anima non
il corpo, e che avrebbe estinto la sete della cupidigia e delle
passioni con la prospettiva dei beni eterni, nella luce della fede;
un pane che, essendo un mistero di fede, avrebbe nutrito l’anima
con l’atto di fede più bello, quello di credere senza vedere. Voi
poi – soggiunse Gesù –, avete
visto i
miracoli che ho fatti, e
non mi credete,
perché,
come già vi ho detto, cercate il vostro benessere materiale; volete
vedere per credere, e siete tanto lontani dal credere, perché il
vedere non è più fede.
Gesù
Cristo, dunque, come appare chiaramente dal contesto, chiamandosi
Pane del cielo e cominciando a parlare dell’ineffabile Dono che
voleva dare, vi mette come fondamento la fede, una fede che crede
senza vedere, una fede non sostenuta dai miracoli esterni, ma piena e
completa nel più grande miracolo di amore nascosto. Diremmo quasi
che era la prova a cui Dio sottoponeva l’uomo nella nuova Legge.
Adamo
ebbe come prova la proibizione di un frutto bellissimo, la cui
privazione esigeva un atto pieno di fede alla Parola di Dio; quel
frutto non manifestava, nel suo aspetto e nel suo gusto, nulla che
fosse nocivo e mortale, anzi, era bello e dilettevole; eppure l’uomo,
credendo a Dio, doveva privarsene.
Il
Signore diede all’uomo redento e rigenerato la prova opposta: un
frutto di vita e d’amore che non ha nessuna manifestazione esterna
né di bellezza né di gusto, un frutto che dev’essere colto con un
atto di fede piena nella parola del Redentore.
Adamo
credé non a Dio ma alle apparenze del frutto, lo mangiò e cadde;
l’anima nell’Eucaristia non crede alle apparenze ma alla parola
di Gesù, crede e riceve la vita. La sua prova è quotidiana, il suo
Eden è la Chiesa, il suo albero di vita è l’Eucaristia, il suo
frutto è Gesù nascosto dai veli del pane e del vino.
Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo
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