Commento
al Vangelo della XXIX Domenica del TO 2015 B (Mc
10,35-45)
Dio
esige che gli rendiamo gloria
Il tratto
del Vangelo che stiamo meditando ci presenta, come in un contrasto
eloquente, le vedute umane e quelle di Dio, la ricerca dei propri
interessi che degradano e quelli della gloria di Dio che elevano. I
farisei interrogano Gesù Cristo sul divorzio perché non vedono che
l’interesse della carne; vorrebbero che la Legge di Dio si
adattasse alle loro passioni, e che la bellezza del connubio,
immagine della vita di Dio che si conosce, genera e si ama, si
riducesse alla ricerca di un piacere brutale che avvilisce,
isterilisce e si consuma nella discordia e nell’odio.
Gli
apostoli riguardano come un fastidio i fanciulli e li allontanano da
Gesù, mentre essi, nella loro innocenza, sono templi vivi della
divina gloria.
Il
giovane che vuol seguire Gesù cerca l’onore ma rifugge dalla
rinuncia; Pietro, che con gli apostoli lo segue, domanda, a nome suo
e di tutti, la ricompensa del suo sacrificio.
Eppure la
via del Redentore era tanto diversa, ed Egli, per contrastare le
vedute terrene dei suoi apostoli, la ricorda loro con i fatti e con
la parola: si mette in viaggio verso Gerusalemme, la città dove
aveva nemici accaniti e potenti, e annuncia chiaramente che va
incontro all’immolazione e al sacrificio completo. Questa è la sua
via. Gli apostoli camminano a malincuore, si stupiscono come mai il
Maestro abbia, secondo loro, l’imprudenza di andare in una città
tanto pericolosa, e lo seguono timorosi.
Egli li
precede, va
avanti a tutti perché vuol dare la vita per la gloria del Padre e
per la salvezza di tutti. Com’è bella questa scena!
Gesù va
avanti, non
teme il pericolo perché l’amore lo spinge. Gli apostoli non
capiscono ancora e stentano a seguirlo.
Il
Redentore non li illude con falsi miraggi; anzi, li chiama in
disparte, e parla loro in tono profetico delle grandi pene che lo
aspettano, della sua morte e della sua risurrezione. In
disparte Egli
può parlare loro più confidenzialmente, può effondere il suo amore
e confortarli, ma gli apostoli non approfondiscono il suo discorso e,
sentendolo parlare di risurrezione, immaginano che alluda al suo
regno glorioso e al suo trionfo sui nemici, e passano dallo
scoramento alle fantastiche speranze. Indice di questo stato d’animo
è la domanda fatta da san Giacomo e da san Giovanni. Essi si
avanzano e, come è detto in san Matteo, interpongono anche la
mediazione della loro madre (cf Mt
20,20-27), per essere più sicuri di essere esauditi, e vogliono, in
certo modo, impegnare la parola di Gesù, dicendo: Vogliamo
che qualunque cosa ti domanderemo, Tu ce lo conceda. Gesù
Cristo sapeva bene quello che volevano domandargli, ma li interrogò,
perché avessero riflettuto a quello che presumevano avere. Certe
aspirazioni fantastiche, infatti, quando vengono espresse, perdono
quel fascino particolare che hanno e quando vengono dette innanzi
agli altri possono incontrare una speciale opposizione che le sfata
o, per lo meno, danno un senso di pudore.
Giacomo e
Giovanni non esitarono, e domandarono un posto privilegiato a destra
e a sinistra nella sua gloria.
In un
momento nel quale Gesù parlava della sua Passione, Egli considerava
chi sarebbe stato alla sua destra, e alla sua sinistra; sul Calvario
che era come il trono del suo vero regno d’amore; Egli doveva
essere, ahimè, messo a livello dei malfattori, e stare fra due
ladri.
Forse a
questo alludeva quando disse loro: Non
sapete quello che domandate: Potete voi bere il calice che io bevo,
ed essere battezzati col battesimo col quale sono battezzato?
Egli non
poteva andare nel regno della sua gloria senza passare per il
Golgota, e se gli apostoli avessero voluto stargli a destra e a
sinistra nella sua gloria, avrebbero dovuto stargli vicini anche
nella Passione e morte. Essi, invece, erano tanto lontani in quel
momento da volerlo seguire nel dolore! Risposero, è vero,
risolutamente che potevano bere il calice del Maestro, ma non
sapevano quello che significasse, e forse capirono di dovergli fare
da coppieri o da servi nel suo regno, dandogli la coppa per bere e
l’acqua per lavarsi.
Gesù
soggiunse, con un senso di tristezza, guardando il futuro, che essi
avrebbero certamente bevuto il suo calice e ricevuto il suo battesimo
di sacrificio quando sarebbero stati martirizzati, ma
che il sedere alla sua destra o alla sua sinistra non stava a Lui
concederlo, ma era per quelli ai quali era stato preparato.
Dalle
meschine aspirazioni di un posto privilegiato in un regno temporale,
Gesù trasporta i suoi apostoli alla visione del regno eterno, e dice
che Egli non può concedere là un posto d’onore particolare a
chiunque lo domanda, perché in Cielo tutto è ordine e gerarchia
dipendente dalle disposizioni di Dio e non dal capriccio delle
creature.
È
evidente che Gesù non risponde ai due apostoli come Dio, ma come
Redentore e come Re, perché essi avevano fatto appello al suo regno;
ora, come Redentore, Egli era Mediatore tra Dio e l’uomo, e non
poteva disporre ma intercedere; come Re, poi, in quanto uomo, Egli
non poteva prescindere dalla divina volontà. Il Padre lo avrebbe
fatto Re dell’universo anche in quanto uomo, ma il suo regno
sarebbe stato il regno della divina volontà sugli uomini e su tutte
le creature.
All’orgogliosa
ambizione dei due apostoli, Gesù oppone la sua umiltà e, parlando
in quanto uomo, interamente sottomesso alla volontà del Padre,
dichiara che Egli non può assegnare i posti d’onore nel suo regno.
Dicendo poi, com’è riferito da san Matteo, che quei posti li
avrebbero avuti quelli ai quali erano stati preparati dal
Padre suo, allude
alla giustizia con la quale viene distribuito nel Cielo ogni premio,
e che non basta desiderare un privilegio, ma bisogna meritarlo con le
opere buone.
Gli altri
apostoli considerarono la domanda di Giacomo e di Giovanni come una
pretesa che poteva manomettere i loro diritti, e contrastava le loro
ambizioni; ognuno di loro aveva in cuore un desiderio e un progetto
da far valere nel regno di Gesù Cristo, da loro concepito come un
regno temporale, e ognuno credé di essere danneggiato dalla proposta
dei due loro compagni.
L’indignazione
che
ebbero rivela questo loro stato psicologico: quando, infatti, si
prospetta da un capo la possibilità di mutamenti nell’ordine
sociale, i suoi seguaci fanno immediatamente i progetti di quello che
essi possono farvi e, con la fantasia, assegnano a loro stessi e a
ciascuno gli uffici, proporzionandoli non al merito ma all’ambizione.
In queste concezioni fantastiche tutto quello che sembra contrastarle
causa un’indignazione, perché la fantasia eccitata confina con la
pazzia e questa non tollera né contrasti né opposizioni.
Giacomo e
Giovanni, domandando di sedere uno a destra e uno a sinistra nel
regno di Gesù Cristo, pensavano di esercitare un dominio sui loro
compagni, o per lo meno questi interpretarono così il loro
desiderio, e se ne indignarono, perciò, grandemente; si rileva
dall’esortazione che loro fece Gesù per pacificarli. Ognuno
presume di avere qualità eccellenti per stare a capo, e ognuno
aspira al comando perché, al proprio orgoglio, ripugna obbedire.
Tutti gli apostoli credevano occultamente di poter comandare sugli
altri, e il vedere che due di loro pretendevano una preminenza, li
indignò.
Evidentemente
cominciarono fra loro a discutere animatamente; perciò Gesù li
chiamò a sé, evitando,
con questo, che la discussione degenerasse. Li chiamò, e fece
sentire loro che Egli era il loro Capo amorosissimo con quel gesto
d’invito paterno, troncando nel loro cuore, d’un tratto, quel
senso d’indipendenza e di comando che li aveva presi, e manifestò
quale doveva essere, nella sua Chiesa, il concetto del comando e del
dominio.
Egli
additava così un’altra delle sue vie contrastanti quelle del
mondo: i prìncipi della terra dominano sui loro sudditi, ed esigono
di essere serviti; invece i capi della Chiesa dovevano essere come
servi di tutti, poiché chi comanda per beneficare e per salvare deve
dare e non ricevere, deve sacrificarsi e non soggiogare, e dev’essere
come immagine viva del Redentore venuto
sulla terra per servire le anime e per dare la sua vita per la
redenzione di molti, cioè
di tutti come tesoro di meriti, e
di molti, ossia
di quelli che effettivamente avessero voluto usufruire del comune
tesoro di salvezza.
Padre Dolindo Ruotolo
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