Commento
al Vangelo – II Domenica di Avvento 2015 C (Lc 3,1-6)
La
predicazione di Giovanni Battista
San Luca, da storico accurato qual
è, prima di parlare dell’apostolato di san Giovanni Battista,
accenna alla situazione politica della Palestina, cioè a quelli che
la governavano e ai sommi sacerdoti che la reggevano nella parte
religiosa. Non è a caso che lo Spirito Santo glielo fa fare, perché
i governanti stranieri e il sommo sacerdozio, assoggettato alla
politica e decaduto fino al punto da essere dominato da principi
pagani e da essere esautorato a loro piacere, dimostravano la
pienezza dei tempi predetti per la venuta del Messia, ossia la
completa rovina del regno di Giuda.
Tiberio Cesare,
figlio di Livia Drusilla e di Tiberio Claudio Nerone, adottato come
figlio dall’imperatore Augusto dopo che questi sposò Livia, sua
madre, fu prima associato al governo dell’impero e preposto
all’amministrazione delle province e poi, alla morte di Augusto,
gli successe e fu imperatore dal 767 al 791 di Roma. San Luca computa
gli anni dell’impero di Tiberio non dalla morte di Augusto, ma
dalla sua prima assunzione al governo nel 764-765 di Roma; Gesù
Cristo, essendo nato nel 748-749 di Roma, nel quindicesimo anno del
governo di Tiberio, aveva circa trent’anni, come dice san Luca al
versetto 23.
Il governo della Palestina era
così costituito: la Giudea, annessa alla provincia della Siria dopo
la deposizione e l’esilio di Archelao, era retta da governatori
dipendenti dal preside della provincia. Il primo governatore fu
Coponio, il quinto fu Ponzio Pilato, il quale governò dal 26 di Gesù
Cristo fino al 36-37. Alla morte di Erode, detto il Grande, il suo
regno fu diviso in quattro parti, ciascuna delle quali fu detta
tetrarchia,
cioè governo di
quattro persone. La Giudea, la Samaria e l’Idumea toccarono ad
Archelao, il quale fu poi deposto, come si è detto, e la Galilea e
la Perea toccarono ad Erode Antipa, il quale regnò dall’anno IV
prima di Gesù Cristo, fino all’anno 39-40 di Gesù Cristo.
Filippo, figlio di Erode, il grande, ebbe in eredità dal padre
l’Iturea che comprendeva la Bitinia, la Traconitide, l’Auranitide
ecc., e sposò Salomè, figlia di Erodiade, moglie di un altro suo
fratello, per parte di padre, chiamato anch’esso Filippo Erode,
colui al quale Erode Antipa tolse la moglie. Filippo Erode fu
diseredato dal padre e visse da privato. La moglie Erodiade,
ambiziosissima, si fece sedurre da Erode Antipa e lo seguì sul
regno, diventandone moglie adultera e incestuosa; Filippo il
tetrarca, poi, governò con una certa equità, e fu colui che edificò
Cesarea di Filippo ai piedi dell’Ermon, e Betsaida Giulia sulla
spiaggia nord del lago di Tiberiade.
L’Abilene, regione situata tra
il Libano e l’Ermon a nord-ovest di Damasco, era governata da un
certo Lisania, del quale non si conoscono fatti particolari.
Un’iscrizione, trovata recentemente ad Abila, capitale della
regione, conferma ciò che dice san Luca, indicando chiaramente che
al tempo di Tiberio vi era un tetrarca di nome Lisania.
Per ciò che riguardava la
religione, il Sacro Testo dice che a capo del Giudaismo vi
erano i pontefici Anna e Caifa. Il
pontefice presso gli Ebrei era uno solo e a vita; ma i Romani non
tollerarono questa legge e praticamente vollero un pontefice che
dipendesse dalla loro autorità, tanto per la nomina quanto per la
durata del pontificato. Anna aveva ottenuto il supremo potere
religioso dal preside della Siria, Cirino, nell’anno 7 di Gesù
Cristo, ma ne fu deposto nel 14 da Valerio Grato. Egli, però, benché
deposto, continuò ad avere una grande autorità, ed era riguardato
come pontefice insieme a Caifa, suo genero, nominato nell’anno 18 e
rimasto pontefice fino al 36 di Gesù Cristo.
La
predicazione di Giovanni Battista
Questa, dunque, era la posizione
religiosa e politica della Palestina quando la voce di Dio si fece
sentire con una particolare rivelazione a san Giovanni, figlio di
Zaccaria che abitava nel deserto di Giuda, conducendovi una vita di
penitenza e di preghiere.
Il Signore gli parlò
nell’interno del cuore, lo spinse con la sua grazia ad affrontare
animosamente il popolo, e diede efficacia alle sue parole per
conquiderlo. Da circa 400 anni non si vedeva un profeta in Israele e
l’improvvisa comparsa di Giovanni, appena vestito di un ruvido
manto di peli di cammello, e di una cintura di cuoio, fece
un’impressione profondissima.
La sua voce sembrava un grido
d’oltretomba, la sua vita ricordava le antiche glorie della
patriarcale santità, il suo zelo e il suo coraggio emulavano quello
di Elia contro gli empi e contro i principi scellerati del popolo, ed
egli era come un essere trasumanato che s’imponeva con la sola sua
presenza. La grazia di Dio, poi, soprattutto la grazia di Dio, gli
dava un tono penetrante di autorità che conquideva i cuori e
paralizzava, per così dire, gli empi e i potenti che avrebbero
potuto impedire il suo apostolato. Nessuno gli si opponeva anche
quando lo subiva a malincuore e avrebbe voluto eliminarlo.
È questo il carattere delle
grandi manifestazioni divine sulla terra, poiché, quando Dio vuole,
si fa sentire attraverso quelli che elegge, e agisce da padrone.
Giovanni andò per tutta la
regione del Giordano, dove poteva trovare acque abbondanti, e predicò
la penitenza, iniziandovi quelli che gli credevano, con un battesimo,
cioè con una lavanda, simbolo e spinta alla purificazione interna,
l’unica che poteva preparare il cuore alla venuta del Redentore.
Ricevere l’acqua dalle sue mani era lo stesso che confessarsi
peccatori e farlo con compunzione interna; l’acqua così versata
era un’umiliazione salutare e, versata annunciando il Redentore,
rinnovava la speranza della sua venuta e risultava salutare per la
remissione dei peccati.
Giovanni trovò le anime come uno
squallido deserto senza strade, incapaci di far passare per loro,
trionfante dei peccati, il Redentore.
Come in un deserto ci sono le
valli che interrompono il cammino, i monti e i colli che
l’ostacolano, e le vie tortuose e scabre che lo ritardano; così,
nelle anime, c’erano abissi di miserie morali ostacoli di orgoglio
e di tracotanza, e mancanza completa di quella rettitudine di cuore
che è la prima condizione per accogliere il Signore.
San Giovanni, col suo battesimo
di penitenza e con la sua vita severa, era come voce che gridava in
questo deserto morale, eliminando le miserie, umiliando l’orgoglio,
rinnovando la speranza della salvezza, e rettificando le intenzioni e
le aspirazioni del cuore; egli, quindi, compiva nelle anime, deserte
di grazie e di virtù, il vaticinio di Isaia (40,4-5) che il Sacro
Testo cita a senso dalla versione dei Settanta.
Le turbe correvano numerose sulle
rive del Giordano, animate da un desiderio di rinnovazione e di
redenzione. Vi andavano di tutte le classi sociali e desideravano
sapere che cosa dovevano fare per affrettare le vie di Dio. Sentivano
inconsciamente che qualche cosa di grande stava per accadere,
speravano di sottrarsi al dominio straniero che li tiranneggiava,
auspicavano un nuovo periodo di gloria per la nazione, e correvano da
Giovanni come da una nuova luce di speranza.
Quelli che vi andavano con
peggiori disposizioni erano gli orgogliosi farisei, desiderosi solo
della propria gloria, malvagi nelle loro intenzioni, velenosi nelle
loro critiche; vi andavano per non sembrare meno giusti degli altri,
e per sorvegliare l’opera del Battista.
Erano orgogliosi, e credevano di
non aver bisogno di penitenza; osservavano il movimento ma non vi
partecipavano, perché si credevano veri figli di Abramo, e stimavano
che bastasse loro questa gloria.
Ad essi e ai sadducei che si
univano a loro (cf Mt
3,7) – gente agghiacciata dalla miscredenza o dall’indifferenza
–, Giovanni rivolse parole severe per scuoterli, parole alle quali
non osavano reagire; li chiamò razza
di vipere per la
loro subdola e velenosa malignità, e domandò loro: Chi
vi ha insegnato a sfuggire l’ira che vi sovrasta? Cioè,
voleva dire: “Chi vi ha mai assicurato che la vostra falsa
giustizia o i vostri errori vi giustificheranno innanzi a Dio e vi
faranno fuggire al castigo che meritate? Su quali dati sicuri fondate
la persuasione di essere giusti e di non essere compresi nelle
minacce che io faccio al popolo? Non vi basta venire: è necessario
fare degni frutti di penitenza! Che vi giova essere figli di Abramo?
Che vi giova discendere da lui e far parte del popolo eletto, quasi
che la semplice discendenza da lui potesse darvi diritto alla grazia?
Dio non ha necessità di effondere le sue misericordie in voi per
avere un popolo fedele, perché Egli può suscitare anche dalle
pietre, cioè dai pagani, i figli veri di Abramo, la sua discendenza
spirituale, capace di accogliere e di far fruttificare la redenzione.
Ormai questa non è più un privilegio di razza, ma un dono di
misericordia, e il Signore reciderà assolutamente, dal suo popolo
nuovo, quelli che, come alberi infecondi, non portano frutto”.
Il discorso di Giovanni, come si
vede, era straordinariamente forte, e troncava di colpo tutte le
illusioni di una falsa giustizia.
Può sembrare dura, e magari
mancante di carità, l’espressione: razza
di vipere,
ma i farisei e i
sadducei, venuti sulla spianata dove Dio faceva miracoli di grazia,
col fare subdolo e strisciante che li distingueva, davano veramente
l’idea di vipere velenose che cercavano, con parole mordenti di
scherno o di diffidenza, di arrestare lo slancio del popolo alla
conversione.
Giovanni non parlava certo per
astio, ma per zelo, e dinanzi al popolo, che poteva subire il loro
fascino e la loro influenza, usò un’espressione capace di
smascherarli, e li umiliò perché avessero finalmente aperto gli
occhi. Il pericolo nel quale erano e la rovina nella quale tentavano
spingere il popolo allontanandolo dalle vie di Dio, giustificavano la
severa invettiva sulle labbra di chi aveva proprio la missione di
prepararle. Era come l’ultimo lampo della severità dell’Antico
Patto, perché Giovanni era al limite dei due Testamenti, ed era
anche un atto di misericordia per cuori orgogliosi e induriti che non
erano capaci di parole blande, dato il loro atteggiamento tracotante
e sprezzante.
San Luca ci dà qualche esempio
sintetico della predicazione di san Giovanni a varie categorie di
persone, per mostrare il fascino che esercitava su tutte le classi.
Le turbe, ascoltando le parole di minaccia rivolte ai farisei e ai
sadducei, furono atterrite del giudizio di Dio, e domandarono
ansiosamente che cosa dovessero fare per evitarlo.
La parola del Precursore,
infatti, vivificata dalla grazia, aveva una potenza che penetrava il
fondo del cuore. Egli rispose loro, esortandoli alla carità con due
opere di misericordia corporale: vestire i nudi e dar da mangiare
agli affamati.
Era come un’anticipazione della
grande legge della carità, la
quale, per
divina clemenza, copre la moltitudine dei peccati. I farisei
smungevano il popolo angariandolo, e con questo allontanavano da loro
la misericordia di Dio; ora, la via per meritarla era perfettamente
l’opposto: vestire e non spogliare la gente, alimentarla e non
affamarla.
L’appello alla carità rendeva
pensosi i pubblicani, perché essi, quali esattori fiscali, non
potevano fare a meno di esigere le imposte; domandarono pertanto come
dovessero regolarsi, e Giovanni disse loro di non richiedere più di
quello che era fissato dalla Legge. Gli esattori, infatti, erano
abituati alle più esose sopraffazioni, rubavano con destrezza come
potevano e si rendevano incapaci del regno di Dio.
I pubblicani erano assistiti
nelle loro funzioni dalla forza pubblica e, parlando ai soldati,
suscitarono in loro il desiderio di migliorarsi; andarono pertanto
anch’essi da Giovanni, e gli domandarono come dovessero regolarsi
nelle loro funzioni; egli rispose che dovevano star attenti a non far
ingiusta violenza a nessuno, a non calunniare e a contentarsi della
paga che ricevevano. Probabilmente si trovavano tra le turbe anche i
soldati mandati da Erode o a spiare quello che diceva il Battista, o
per ordine pubblico, data la ressa che faceva il popolo.
Padre Dolindo Ruotolo
Nessun commento:
Posta un commento