Commento
al Vangelo della XXVIII Domenica TO 2016 C (Lc
17,11-19)
La
guarigione dei lebbrosi
Si avvicinavano le feste
pasquali, e Gesù intraprese l’ultimo suo viaggio a Gerusalemme per
compiervi la sua divina missione. Passò
in mezzo alla Samaria,
ossia tra i confini
della Samaria e della Galilea, avviandosi verso la Perea e, stando
per entrare in un villaggio, ancora nell’aperta campagna, gli
andarono incontro dieci lebbrosi, i quali, fermatisi da lontano per
non avere contatti col popolo, alzarono la voce implorando pietà. La
loro fede in Gesù era in quel momento un atto di fiducia; essi lo
sapevano potente e speravano che avrebbe potuto alleviare le loro
pene; non era ancora una fede di pieno abbandono, e Gesù volle
suscitarla in loro con un comando al quale potevano obbedire solo con
una fede piena. Andate
–
Egli disse –,
fatevi vedere dai
sacerdoti.
Si andava dai sacerdoti per far
constatare la guarigione e fare l’offerta al tempio (cf Lv
14,10-21); ora essi erano ancora infermi, e solo con un atto di viva
fede e di obbedienza poterono avviarsi a Gerusalemme. Mentre
andavano, si sentirono sani, e continuarono il loro viaggio; solo uno
di essi, un Samaritano, accortosi d’essere guarito, ritornò sui
suoi passi e, glorificando Dio ad alta voce, si prostrò ai piedi del
Redentore, ringraziandolo. Gli altri nove, nell’esultanza della
riacquistata salute, preoccupati com’erano di rientrare subito nel
consorzio umano, dal quale la terribile malattia li escludeva, non
pensarono di andare a ringraziare Gesù glorificando Dio. Questo era
un atto d’ingratitudine del quale Gesù si lamentò, sia per far
rimarcare a tutti la loro guarigione, sia per esortarli alla
gratitudine nei benefici divini, facendo rilevare che questo dovere
l’aveva sentito solo un Samaritano da essi sprezzato come eretico e
scismatico.
La
lebbra del peccato
Passando per la Samaria, Gesù
volle fare un atto di delicata misericordia verso quel popolo
disprezzato e, mostrando la gratitudine e la fede del Samaritano,
volle mostrare che quel popolo non era inferiore, anzi poteva dirsi
in quel momento superiore a quello Giudeo. Egli così stroncava quel
senso di disprezzo che aveva il popolo nell’attraversare la
Samaria, impediva ogni recriminazione, e chiamava tutti,
indirettamente, all’unità che Egli era venuto a stabilire in
terra.
Gesù Cristo andava verso
Gerusalemme per dare la sua vita per tutti e rendersi Egli come un
lebbroso per amore; andava incontro ai peccatori, veri lebbrosi
nell’anima, e volle, con un miracolo, manifestare in simbolo quello
che gli ardeva nel Cuore. Egli avrebbe dato il Sangue per salvarci,
ma non ci avrebbe applicato il prezzo della redenzione senza la
mediazione sacerdotale.
È un’illusione tristissima
pensare che solo perché Egli può salvarci senza mediatori, lo
voglia. Istituendo il Sacerdozio, Egli ha detto a tutti gli uomini:
Andate e mostratevi ai
sacerdoti. Era
logico, del resto, poiché, avendoci Egli salvati con la sua
obbedienza fino alla morte di croce, ha voluto che avessimo usufruito
della salvezza, obbedendo nell’umiliazione di tutti noi stessi ai
piedi di un sacerdote, fino alla morte delle nostre miserie.
La
gratitudine degli uomini
Il Signore si lamentò che dei
dieci lebbrosi guariti uno solo fosse ritornato per ringraziarlo e
dare lode a Dio, e volle insegnarci così che è un nostro
imprescindibile dovere la gratitudine per i benefici che riceviamo
dal Signore. L’atto della gratitudine è un riconoscimento della
gloria di Dio, è una confessione della sua potenza, ed è un
sentimento di abbandono filiale a Lui perché ci benedica come Padre
amorosissimo.
Il Signore lo esige non tanto
perché la nostra gratitudine possa essergli necessaria – benché
la nostra lode accresca la sua gloria accidentale –, ma perché
l’atto della gratitudine apre per noi nuove fonti di misericordie e
di grazie. Gesù Cristo, infatti, benché il lebbroso Samaritano
fosse già guarito, vedendolo prostrato ai suoi piedi, intenerito
disse: Alzati,
vattene, la tua fede ti ha salvato. Con
queste parole volle indicare che nuove grazie scendevano su
quell’anima e su quel corpo, e che la fede di lui, preziosissimo
dono fra tutti i doni, veniva in lui fortificata con quella speciale
misericordia.
Ogni volta che ringraziamo Dio,
riceviamo dalla sua bontà un nuovo dono, e per questo i primi
cristiani solevano salutarsi con queste dolci parole: Deo
gratias. Ai pagani
sembrarono parole stolte, perché erano più una conclusione che un
saluto; eppure i primi cristiani si salutavano veramente,
ringraziando Dio di essersi rivisti, e ringraziando di essere redenti
da Gesù Cristo.
Noi,
gl’ingrati!
Bisogna confessare che noi
siamo ingrati al Signore, pur vivendo in mezzo ai suoi continui doni
spirituali e corporali. Noi non possiamo ponderarli, tanto essi sono
innumerevoli. Se riflettessimo solo ai principali, cioè alla vita
dell’anima e a quella del corpo, ai pericoli dai quali siamo
liberati, alle bellezze soprannaturali e naturali che ci circondano,
dovremmo vivere con la faccia prostrata nella polvere, pieni di
riconoscenza. Invece non solo siamo ingrati, ma ci lamentiamo proprio
dei doni più belli di Dio: della vita, delle purificazioni della
vita per le croci, e di tutte le delicatezze amorose con le quali
Egli ci libera dal male e ci orienta all’eternità.
Abbiamo a nostra disposizione
il sacramento della Penitenza, dove la nostra lebbra spirituale viene
mondata e non solo non ringraziamo Dio, ma tante volte lo riguardiamo
come un peso. Abbiamo l’Eucaristia, Dono dei doni, e viviamo tanto
freddamente innanzi al tabernacolo, da mostrarcene annoiati. Abbiamo
mille ricchezze nella Chiesa e viviamo sempre poveri, sprezzando
quasi la vita che da essa riceviamo, e attaccandoci miseramente alle
vanità del mondo! Quanti dolori diamo a Gesù con la nostra
ingratitudine!
don Dolindo Ruotolo
Nessun commento:
Posta un commento