Commento al Vangelo della XXVII Domenica TO 2016 C (Lc17,5-10)
La potenza della fede
Parlando degli scandali, Gesù Cristo alludeva principalmente ai farisei che allontanavano le anime dalla fede nel regno di Dio e, parlando del perdono, evitava negli apostoli un risentimento inesorabile contro di loro. Egli voleva che aborrissero dal male ma non che si isolassero in loro stessi quasi fossero un partito o una setta. La Chiesa è universale anche quando discaccia gli erranti dal suo seno, perché li vuole salvi e perdona loro con generosità.
Gli apostoli capirono che Gesù li premuniva contro gli scandali che li scuotevano nella fede e, riscontrando in loro effettivamente una diminuzione di fede, lo pregarono di accrescerla nei loro cuori. Tra gli scandali, infatti, il più spaventoso è quello che scalza dall’anima la fede; è un vero assassinio interiore, poiché un’anima senza la fede è oscurata, è confusa, è disperata, è morta.
A volte una sola parola stolta o sprezzante può gettare l’anima nel dubbio, e un dubbio positivo e volontario sulle verità eterne è già la perdita della fede.
Anche un sogghigno può disorientare un’anima dalla verità e può produrre in lei una grande rovina. Se si ponderasse la natura di questa rovina non si sarebbe così facili a riportare gli errori dei perversi né si oserebbe fare una stupidissima ed insulsa propaganda contro tutto quello che è soprannaturale, con la scusa di precisione critica e storica. Anche se si avesse ragione per farla, non si dovrebbero gettare nell’anima dei piccoli quei dubbi che essi poi allargano a tutta l’universalità della fede, naufragando miseramente nei gorghi dell’errore e perdendo la grazia di Dio.
La fede è un tesoro immensamente prezioso per l’anima e per la medesima vita presente, poiché è faro di luce e consolazione immensa nelle sue angustie; bisogna, dunque, custodirla gelosamente nel proprio cuore e in quello degli altri.
Gli apostoli, domandando l’accrescimento della loro fede, desiderarono vedere compiute opere meravigliose per confusione dei farisei e probabilmente desiderarono compierle essi stessi. Per questo Gesù rispose che se ne avessero avuto quanto un granello di senapa, cioè anche poca, ma viva e capace di accrescersi, avrebbero potuto con un comando far trapiantare nel mare un albero di sicomoro.
Col suo sguardo divino Gesù vide le opere grandi e miracolose che gli apostoli avrebbero fatto per la diffusione della fede nel mondo e, per prevenire in loro e nei loro successori qualunque atto di vanità o di presunzione soggiunse, col suo stile divinamente sintetico, che essi avrebbero un giorno lavorato molto, ma che non avrebbero avuto mai motivo di inorgoglirsi e dovevano riguardarsi come servi inutili, cioè non necessari a Dio, dato che i miracoli li avrebbe operati Lui con la sua onnipotenza.
I servi inutili
È evidente dal contesto che gli apostoli avevano domandato l’accrescimento della fede anche per un senso subcosciente e remoto di vanità e che, desiderando confondere con i miracoli i farisei, si stimavano necessari per la difesa del Maestro contro le insidie dei suoi nemici. Perciò Gesù disse sotto il velo della parabola che essi erano come servi che arano il campo del padrone e pascolano il suo gregge e che quand’anche avessero fatto prodigi di apostolato, non avrebbero dovuto credere di potersene gloriare, ma avrebbero dovuto riguardarsi solo come serviinutili che, comandati, avevano fatto il loro dovere.
Chi conosce quanto l’orgoglio si gonfia e quanto la misera natura prova facilmente vanità per un bene fatto, capisce tutta l’opportunità e la verità dell’avviso di Gesù. Nel credersi nulla, c’è un’immensa gioia interiore e il sentimento dell’umiltà tutela il bene che si fa, lo rifonde in Dio, lo feconda maggiormente con la sua grazia e lo moltiplica nelle anime. Le parole di Gesù sono state in tutti i secoli una difesa contro la vanità dei messaggeri della divina Parola. Chi compie l’apostolato, infatti, essendo strumento della grazia di Dio, può facilmente assistere ai prodigi della potenza e della misericordia divina e può anche attribuirli alla propria virtù o abilità.
Il Signore, misericordiosamente, opera le cose grandi attraverso minimi mezzi e uomini inetti; ma anche quando è evidente il suo intervento nelle opere di bene, chi ne è strumento può sentire almeno la soddisfazione orgogliosa del lavoro fatto, ed affacciare pretese innanzi a Dio. La parola di Gesù lo richiama subito alla visione della realtà e, riconoscendo di aver compiuto solo il proprio dovere e d’essere servo inutile per averlo compiuto imperfettamente, si umilia, si annienta, fa appello alla divina misericordia, e rende così possibile l’accrescimento del bene.
Chi ha un po’ di esperienza di apostolato vero, sa quanto è letale per esso l’orgogliosa soddisfazione, e sa che essa è il segno sicuro di non avervi prodotto veri frutti di vita eterna.
È necessario, dunque, mettervi come base l’umiltà e cercarvi non la propria soddisfazione ma la gloria d i Dio e il vero bene delle anime.Servo inutile Don Dolindo Ruotolo
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