sabato 24 settembre 2016

La parabola del ricco epulone

Commento al Vangelo della XXVI Domenica TO 2016 C (Lc 16,19-31)



La parabola del ricco epulone
Per imprimere meglio nei cuori il capovolgimento che avviene innanzi a Dio di ciò che il mondo stima grandezza e ricchezza e per mostrare più efficacemente quale uso deve farsi delle ricchezze, Gesù raccontò una parabola bellissima che è una vera rivelazione sul mistero della vita futura in ordine alla vita che conduciamo in terra.
C’era un uomo ricco, tanto ricco che vestiva come un re, di porpora e di finissimo lino di Egitto, chiamato bisso. Era un gaudente, e ogni giorno faceva splendidi banchetti. Alla porta del suo sontuoso palazzo v’era un povero, chiamato Lazzaro – abbreviatura di Eleazaro –, il quale era piagato, sfinito ed affamato e, sentendo il profumo delle vivande del ricco, desiderava almeno averne i residui e nessuno gliene dava. Andavano da lui i cani a leccargli le piaghe, forse i cani del palazzo stesso del ricco, il che dimostra che vi erano riguardati più del povero. Lazzaro non aveva neppure la forza di allontanarli, e forse aveva da essi soltanto un sollievo al prurito delle sue piaghe.
Ecco una vita splendida e una vita infelicissima innanzi al mondo; ma, innanzi a Dio, la cosa era immensamente diversa. Morì infatti il povero e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo, cioè nel Limbo, dove i giusti, in compagnia di Abramo, attendevano che il Redentore aprisse loro le porte del cielo. Era un luogo di felicità e di pace naturale, immensamente superiore a qualunque stato di terrena felicità. Dopo poco tempo morì anche il ricco e fu sepolto nell’Inferno. La sua vita dissoluta aveva prodotto il suo frutto di morte, ed egli tra le fiamme dell’Inferno soffriva orribili tormenti.
Dal luogo della sua perdizione, così permettendolo Dio, vide da lontano Abramo e Lazzaro nel suo seno, cioè in sua felice compagnia. Quale contrasto con la vita misera che quel povero aveva condotto, e con la vita tormentosa che il ricco attualmente viveva! Questi sperò almeno un minimo sollievo fra le pene che soffriva e, rivolgendosi ad Abramo, quale capo del popolo cui apparteneva, lo supplicò di mandargli Lazzaro perché avesse intinto la punta del dito nell’acqua e gli avesse refrigerato la lingua, perché bruciava nelle fiamme. Abramo gli rispose con una sentenza che non ammetteva repliche: egli aveva ricevuto beni nella vita mortale e non aveva compiuto opere sante; Lazzaro aveva ricevuto tribolazioni e le aveva sofferte in pace, per amore di Dio. Ora la situazione si era irrimediabilmente capovolta, perché lo stato dell’eternità è immutabile, e non poteva mai avvenire che Lazzaro avesse potuto sollevarlo, per l’abisso incolmabile che separava lo stato di salvezza da quello della perdizione.
Il povero ricco, non potendo avere egli un sollievo, si preoccupò di cinque fratelli che aveva e supplicò Abramo di mandare Lazzaro ad avvertirli, perché conducevano anch’essi vita sontuosa, e non voleva che avessero la stessa sorte. Abramo non disse che Lazzaro non sarebbe potuto andare da loro, ma replicò che avevano già Mosè e i Profeti, e potevano alla luce delle loro parole salvarsi. Il ricco insistette che se avessero avuto l’avviso salutare da un morto avrebbero fatto penitenza; gli sembrò che l’apparizione di un’anima felice come quella di Lazzaro e l’avviso della propria perdizione li avrebbero scossi. Ma Abramo gli disse recisamente che se non credevano a Mosè e ai Profeti, non avrebbero prestato fede neppure ad un morto risuscitato.

Illusioni e realtà della vita
Ecco la precisa condizione della vita e dell’eternità: su questa terra si subisce una prova, durante la quale bisogna preoccuparsi non di godere ma di compiere il bene. Le sofferenze che vi subiamo non sono un’infelicità ma un mezzo per meritare, e producono in proporzione la felicità eterna. Chi soffre a somiglianza di Lazzaro non è un diseredato ma un privilegiato, e chi gode sfrenatamente ha poi la spaventosa sorpresa di trovare, nell’altra vita, la perdizione. Il ricco epulone disprezzava il povero, eppure era proprio lui degno di commiserazione. La sua vita si ridusse ad un continuo banchettare, mentre quella di Lazzaro fu un continuo meritare, per la sofferenza e per la pazienza.
Chi si vede tra le pene, dunque, non deve disperarsi, ma deve sollevare gli occhi alla vita eterna, e tendere ai gaudi eterni che sono l’unica e vera gioia, e chi sta tra le gioie della vita presente non deve dimenticare l’eternità, e deve procurare di farsi amici nel Cielo con le opere della carità. Il ricco epulone, dal luogo dei tormenti, volle giovare ai suoi fratelli; non fece un atto di virtù soprannaturale, del quale era incapace, ma un atto di compassione naturale verso i suoi fratelli; anche i dannati possono avere simili sentimenti, perché i vincoli naturali perdurano nell’eternità, ma a che giovava la sua premura, e a che avrebbe giovato ai suoi fratelli anche la visione di un morto redivivo? Erano increduli alle parole di Mosè e dei suoi Profeti, ed avrebbero creduto illusione l’apparizione di un morto.
Avviene proprio così a quelli che ostinatamente conducono una vita disordinata: sono duri e insensibili a qualunque avviso e svalutano ogni intervento soprannaturale; credono realtà la loro vita insulsa, e credono illusione quello che è divino ed eterno.
È necessario che noi ci preoccupiamo di questi poveri infelici e che preghiamo ardentemente per la loro conversione.
Non invidiamo mai la sorte dei gaudenti, ma abbracciamoci con rassegnazione la nostra croce, e ringraziamo Dio quando la nostra vita non ci dà nulla.
Che importano pochi anni di effimere gioie che sono poi sempre cosparse di fiele amarissimo?
Che cosa valgono gli onori della terra di fronte alla gloria eterna che aspettiamo?
È sintomatico che nella parabola è ricordato solo il nome del povero, e quello del ricco è sepolto nell’oblio. Se in terra può rimanere, infatti, un nome glorioso, non è quello dei grandi del mondo ma quello dei santi del Cielo, diseredati e disprezzati dal mondo.
Concepire la propria vita sotto un aspetto tutto materiale significa concepirla a modo animalesco. Le bestie, non avendo un eterno avvenire, non hanno aspirazioni che trascendono la vita del tempo. Se si nota, non c’è nella creazione un solo animale che faccia qualcosa che superi il tempo della sua vita, o che faccia un’opera, sia pur rudimentale, per lasciare qualcosa di sé dopo la morte. Si preoccupa della sua vita e della conservazione della specie, solo per istinto che gli dà Dio; mangia, beve, e lavora unicamente per questo.
L’uomo mostra la sua aspirazione all’eternità nelle stesse opere che compie, e lascia qualche cosa di sé nel suo lavoro, per non far perire la sua memoria. È un sintomo dell’immortalità cui tende. Ora, qual mezzo più grande per immortalarsi quanto il salvarsi l’anima? Non sono le ricchezze che ci salvano ma le opere buone e le opere della carità; bisogna, dunque, vivere santamente, e quando Dio ci dà le ricchezze bisogna mutarle con la carità in tesori del Cielo.

Se i ricchi ponderassero i pericoli della loro condizione, non si glorierebbero di essere ricchi né aspirerebbero all’accrescimento dei loro beni materiali, ma diverrebbero, quali sono, fattori del Padre celeste per soccorrere i poveri e i sofferenti! Quale dono è sulla terra lo stato di santa povertà e di rassegnata sofferenza che ci apre le porte del Cielo!
Don Dolindo Ruotolo

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