Commento
al Vangelo della XXVI Domenica TO 2016 C (Lc
16,19-31)
La
parabola del ricco epulone
Per
imprimere meglio nei cuori il capovolgimento che avviene innanzi a
Dio di ciò che il mondo stima grandezza e ricchezza e per mostrare
più efficacemente quale uso deve farsi delle ricchezze, Gesù
raccontò una parabola bellissima che è una vera rivelazione sul
mistero della vita futura in ordine alla vita che conduciamo in
terra.
C’era un uomo ricco, tanto
ricco che vestiva come un re, di porpora e di finissimo lino di
Egitto, chiamato bisso. Era un gaudente, e ogni giorno faceva
splendidi banchetti. Alla porta del suo sontuoso palazzo v’era un
povero, chiamato Lazzaro – abbreviatura di Eleazaro –, il quale
era piagato, sfinito ed affamato e, sentendo il profumo delle vivande
del ricco, desiderava almeno averne i residui e nessuno gliene dava.
Andavano da lui i cani a leccargli le piaghe, forse i cani del
palazzo stesso del ricco, il che dimostra che vi erano riguardati più
del povero. Lazzaro non aveva neppure la forza di allontanarli, e
forse aveva da essi soltanto un sollievo al prurito delle sue piaghe.
Ecco una vita splendida e una
vita infelicissima innanzi al mondo; ma, innanzi a Dio, la cosa era
immensamente diversa. Morì infatti il povero e fu portato dagli
angeli nel seno di
Abramo,
cioè nel Limbo, dove
i giusti, in compagnia di Abramo, attendevano che il Redentore
aprisse loro le porte del cielo. Era un luogo di felicità e di pace
naturale, immensamente superiore a qualunque stato di terrena
felicità. Dopo poco tempo morì anche il ricco e fu sepolto
nell’Inferno. La sua vita dissoluta aveva prodotto il suo frutto di
morte, ed egli tra le fiamme dell’Inferno soffriva orribili
tormenti.
Dal luogo della sua perdizione,
così permettendolo Dio, vide da lontano Abramo e Lazzaro nel
suo seno,
cioè in sua felice
compagnia. Quale contrasto con la vita misera che quel povero aveva
condotto, e con la vita tormentosa che il ricco attualmente viveva!
Questi sperò almeno un minimo sollievo fra le pene che soffriva e,
rivolgendosi ad Abramo, quale capo del popolo cui apparteneva, lo
supplicò di mandargli Lazzaro perché avesse intinto la punta del
dito nell’acqua e gli avesse refrigerato la lingua, perché
bruciava nelle fiamme. Abramo gli rispose con una sentenza che non
ammetteva repliche: egli aveva ricevuto beni nella vita mortale e non
aveva compiuto opere sante; Lazzaro aveva ricevuto tribolazioni e le
aveva sofferte in pace, per amore di Dio. Ora la situazione si era
irrimediabilmente capovolta, perché lo stato dell’eternità è
immutabile, e non poteva mai avvenire che Lazzaro avesse potuto
sollevarlo, per l’abisso incolmabile che separava lo stato di
salvezza da quello della perdizione.
Il povero ricco, non potendo
avere egli un sollievo, si preoccupò di cinque fratelli che aveva e
supplicò Abramo di mandare Lazzaro ad avvertirli, perché
conducevano anch’essi vita sontuosa, e non voleva che avessero la
stessa sorte. Abramo non disse che Lazzaro non sarebbe potuto andare
da loro, ma replicò che avevano già Mosè e i Profeti, e potevano
alla luce delle loro parole salvarsi. Il ricco insistette che se
avessero avuto l’avviso salutare da un morto avrebbero fatto
penitenza; gli sembrò che l’apparizione di un’anima felice come
quella di Lazzaro e l’avviso della propria perdizione li avrebbero
scossi. Ma Abramo gli disse recisamente che se non credevano a Mosè
e ai Profeti, non avrebbero prestato fede neppure ad un morto
risuscitato.
Illusioni e realtà della vita
Ecco la precisa condizione
della vita e dell’eternità: su questa terra si subisce una prova,
durante la quale bisogna preoccuparsi non di godere ma di compiere il
bene. Le sofferenze che vi subiamo non sono un’infelicità ma un
mezzo per meritare, e producono in proporzione la felicità eterna.
Chi soffre a somiglianza di Lazzaro non è un diseredato ma un
privilegiato, e chi gode sfrenatamente ha poi la spaventosa sorpresa
di trovare, nell’altra vita, la perdizione. Il ricco epulone
disprezzava il povero, eppure era proprio lui degno di
commiserazione. La sua vita si ridusse ad un continuo banchettare,
mentre quella di Lazzaro fu un continuo meritare, per la sofferenza e
per la pazienza.
Chi si vede tra le pene,
dunque, non deve disperarsi, ma deve sollevare gli occhi alla vita
eterna, e tendere ai gaudi eterni che sono l’unica e vera gioia, e
chi sta tra le gioie della vita presente non deve dimenticare
l’eternità, e deve procurare di farsi amici nel Cielo con le opere
della carità. Il ricco epulone, dal luogo dei tormenti, volle
giovare ai suoi fratelli; non fece un atto di virtù soprannaturale,
del quale era incapace, ma un atto di compassione naturale verso i
suoi fratelli; anche i dannati possono avere simili sentimenti,
perché i vincoli naturali perdurano nell’eternità, ma a che
giovava la sua premura, e a che avrebbe giovato ai suoi fratelli
anche la visione di un morto redivivo? Erano increduli alle parole di
Mosè e dei suoi Profeti, ed avrebbero creduto illusione
l’apparizione di un morto.
Avviene proprio così a quelli
che ostinatamente conducono una vita disordinata: sono duri e
insensibili a qualunque avviso e svalutano ogni intervento
soprannaturale; credono realtà la loro vita insulsa, e credono
illusione quello che è divino ed eterno.
È necessario che noi ci
preoccupiamo di questi poveri infelici e che preghiamo ardentemente
per la loro conversione.
Non invidiamo mai la sorte dei
gaudenti, ma abbracciamoci con rassegnazione la nostra croce, e
ringraziamo Dio quando la nostra vita non ci dà nulla.
Che importano pochi anni di
effimere gioie che sono poi sempre cosparse di fiele amarissimo?
Che cosa valgono gli onori
della terra di fronte alla gloria eterna che aspettiamo?
È sintomatico che nella
parabola è ricordato solo il nome del povero, e quello del ricco è
sepolto nell’oblio. Se in terra può rimanere, infatti, un nome
glorioso, non è quello dei grandi del mondo ma quello dei santi del
Cielo, diseredati e disprezzati dal mondo.
Concepire la propria vita sotto
un aspetto tutto materiale significa concepirla a modo animalesco. Le
bestie, non avendo un eterno avvenire, non hanno aspirazioni che
trascendono la vita del tempo. Se si nota, non c’è nella creazione
un solo animale che faccia qualcosa che superi il tempo della sua
vita, o che faccia un’opera, sia pur rudimentale, per lasciare
qualcosa di sé dopo la morte. Si preoccupa della sua vita e della
conservazione della specie, solo per istinto che gli dà Dio; mangia,
beve, e lavora unicamente per questo.
L’uomo
mostra la sua aspirazione all’eternità nelle stesse opere che
compie, e lascia qualche cosa di sé nel suo lavoro, per non far
perire la sua memoria. È un sintomo dell’immortalità cui tende.
Ora, qual mezzo più grande per immortalarsi quanto il salvarsi
l’anima? Non sono le ricchezze che ci salvano ma le opere buone e
le opere della carità; bisogna, dunque, vivere santamente, e quando
Dio ci dà le ricchezze bisogna mutarle con la carità in tesori del
Cielo.
Se
i ricchi ponderassero i pericoli della loro condizione, non si
glorierebbero di essere ricchi né aspirerebbero all’accrescimento
dei loro beni materiali, ma diverrebbero, quali sono, fattori del
Padre celeste per soccorrere i poveri e i sofferenti! Quale dono è
sulla terra lo stato di santa povertà e di rassegnata sofferenza che
ci apre le porte del Cielo!
Don Dolindo Ruotolo
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