Commento al
Vangelo della XXV Domenica TO 2016 C (Lc
16,1-13)
Il
fattore infedele
La parabola che raccontò Gesù probabilmente fu un
fatto realmente avvenuto, da Lui utilizzato per insegnamento della
verità: un uomo ricco, tanto ricco da non adirarsi della frode
fattagli dal fattore anche all’ultimo momento della sua gestione,
aveva un servo al quale, secondo la parola greca, aveva affidato
l’amministrazione di tutti i suoi averi. Questa padronanza che gli
aveva lasciato, spiega la facilità con la quale gli fu possibile
dilapidargli i beni fino al punto che se ne accorsero anche gli altri
e lo accusarono presso il padrone. Il padrone constatò certamente,
dopo un esame della situazione che l’accusa era tutt’altro che
infondata e, chiamato il fattore, gl’ingiunse di rendere i conti e
lasciare senz’altro l’amministrazione. Nonostante la
dilapidazione avvenuta, il padrone aveva ancora un residuo di fiducia
nel servo, e d’altra parte, avendo quegli tutto in mano, doveva per
forza far capo a lui per conoscere la situazione. Doveva anche voler
bene al misero fattore e, ricco com’era, gli volle lasciare il modo
di accomodare le sue faccende.
Il fattore non pensò alla bontà del padrone né si
mostrò rammaricato del danno che gli aveva fatto, tanto da giungere
a produrgliene altro all’ultimo momento. Si preoccupò della
propria situazione e pensò: «Ecco, io cado d’un colpo nella più
squallida miseria. Ora come farò per vivere? Dovrei lavorare
zappando la terra e non so farlo; dovrei elemosinare, e dopo il posto
che ho occupato ne ho estrema vergogna. L’unica mia risorsa sta
nell’essere soccorso dagli altri senza mio scorno». E pensò
subito di rendersi obbligati i debitori stessi del suo padrone,
rimettendo loro una parte del debito.
Li convocò, quindi, come per liquidare i loro conti e
definire le loro pendenze, e domandò ad uno quanto doveva al
padrone. Quegli rispose che gli doveva cento barili d’olio, ossia,
in misura ebraica, cento bati. Essendo
un bath circa 38
litri, doveva al padrone 3800 litri di olio. Il fattore gli fece
prendere l’obbligazione scritta, e ridusse il debito a metà.
Domandò ad un altro quanto doveva, e quegli rispose: Cento
staia di grano. Stando alla misura ebraica,
doveva cento cori;
e siccome un cor era
dieci bath,
ossia 380 litri, doveva 38 mila litri di
grano. Il fattore glieli ridusse ad ottanta, perché se li avesse
ridotti addirittura a metà avrebbe mostrato una generosità che
poteva renderlo sospetto, e far scoprire più facilmente al padrone
la nuova frode. Rimettendogli, poi, il 20% di quella misura, gli
rimetteva di più di quanto aveva condonato al primo. Così fece con
tutti i debitori, com’è evidente dal contesto della parabola.
Quando il padrone si accorse del tiro giocatogli dal
fattore e seppe dello scopo per il quale gliel’aveva giocato, lo
lodò, non
per approvare il furto che gli aveva fatto, ma ammirando la
scaltrezza con la quale aveva operato per salvarsi in quell’estrema
rovina che lo minacciava, poiché – soggiunse Gesù –, i
figli di questo secolo sono, nel loro genere, più prudenti dei figli
della luce.
Con queste ultime parole, Gesù giustificava
indirettamente il motivo per il quale aveva proposto quella parabola:
gli uomini del mondo, figli del secolo
presente, cioè
tutti dediti alle cose della terra, sanno badare bene ai loro
interessi e sanno avere la prudenza umana e anche maligna per
tutelarli, preoccupandosi di un avvenire temporale; i figli della
luce, invece, che hanno il possesso della verità eterna e aspirano
ai beni eterni, non pensano a questo loro avvenire, e spesso lo
barattano per nulla.
La massima di Gesù, nei limiti della parabola,
significa che i figli del mondo fanno
per le cose temporali molto più di quello che i
figli della luce fanno per i beni spirituali
e per l’avvenire eterno, e che i primi cercano di ricavare il
maggior vantaggio temporale dalle ricchezze, mentre i secondi non ne
traggono neppure quel poco di vantaggio spirituale che potrebbe
accrescere i loro beni spirituali. Per questo Gesù esorta a farsi
amici nel cielo con le stesse ricchezze ingiuste, cioè, come si è
detto, materiate d’ingiustizia per la loro stessa natura, e a
raccogliere mediante le opere della carità le ricchezze eterne; e
soggiunge che la fedeltà che si ha nel poco,
cioè in ciò che è transitorio e temporale,
rende fedeli nel molto,
cioè nella corrispondenza alle grazie e a
ciò che porta alla vita eterna.
Le ricchezze temporali sono una cosa molto meschina di
fronte a quelle spirituali che conducono alla vita eterna; ora, se
uno è ingiusto nel poco e non sa fare buon uso delle ricchezze con
la carità, sarà anche ingiusto nel molto e sperpererà le grazie e
le ricchezze spirituali e se uno non sa fare buon uso di una cosa
meschina, come le ricchezze temporali, Dio come gli potrà dare
quelle spirituali? Queste sono le vere ricchezze, e queste il
patrimonio vero di un’anima che può dirsi suo,
perché le dà il diritto all’eterna
gloria. I beni materiali sono stati di altri e saranno di altri,
poiché passano con la vita e non possono chiamarsi propri
beni, ora
se non si sa fare buon uso di ciò che è nostro, chi ci darà ciò
che non è nostro? Il Signore non può dotare di grazie un’anima
che non sa servirsi bene di ciò che le viene dato solo
provvisoriamente.
Siamo tutti «fattori» del Padre celeste
Queste massime di Gesù sono preziosissime e danno un
nuovo concetto della vita; perciò bisogna approfondirle alla luce
della stessa parabola che Egli propone: nella vita presente siamo
tutti fattori del
Padre celeste, poiché abbiamo un ufficio e una missione nella
complessa armonia della sua provvidenza, e dobbiamo compierla per
avere da Lui il patrimonio delle grazie che ci fanno meritare la vita
eterna. Chi ha una ricchezza d’intelligenza, chi di forze, e chi
anche di denaro e di beni materiali.
Sono piccole cose di fronte ai tesori della grazia,
alla fede, alla speranza, alla carità, e ai doni che ci vengono
dallo Spirito Santo. La vita presente è un impiego che bisogna
riguardare sempre in relazione alla vita eterna. Chi compie bene la
sua missione riceve da Dio come sua proprietà tutte le grazie che lo
preparano al possesso dei beni eterni; è dunque importantissimo, per
chi possiede ricchezze, mutarle con la carità in titoli di eterna
gloria, perché essi possano supplire le deficienze e le colpe che si
commettono nell’amministrazione di ciò che passa e non può dirsi
proprio.
La balordaggine di quelli che pretesero e pretendono di
mettere il mondo su basi sociali cervellotiche è giunta fino a
chiamare la ricchezza materiale un furto, salvo a rubarla essi stessi
su larga scala, e in modo brigantesco, con tutte le spaventose
conseguenze sociali delle quali siamo spettatori e vittime. Gesù
Cristo, con divina sapienza, dà il vero concetto della ricchezza:
essa è mammona iniquitatis,
riguardata in tutte le ingiustizie dalle
quali è macchiata, e in tutte quelle alle quali serve.
Essendo l’uomo di passaggio sulla terra, e dovendola
lasciare, non può dirla sua;
egli l’amministra non per conto della
nazione o della società, ma per conto di Dio, sommo ed eterno Bene,
e somma ed eterna Carità. Deve dunque servirgli per ottenere da Dio
i beni spirituali mediante la carità.
Solo la carità fatta per Dio, col pensiero della
responsabilità che si ha innanzi a Lui, può equilibrare veramente
l’uso delle ricchezze; qualunque altro ritrovato umano sbocca
necessariamente nell’oppressione e nella prepotenza, rendendo
statale e violento quel disordine che prima era solo sporadico e
individuale. Si può trovare, infatti, chi fa cattivo uso della
ricchezza e opprime gli altri, ma quando lo Stato si sostituisce
all’individuo, diventa egli il prepotente spogliatore e oppressore,
e per di più ha la forza brutale e incontrollata per farsi valere.
I giuristi unanimemente riconoscono che lo Stato è un
pessimo amministratore, e che nelle sue mani le ricchezze dei privati
deperiscono e si distruggono come si è visto al tempo del comunismo
in Russia. È logico, del resto, poiché quelli che rappresentano lo
Stato sono interessati al loro tornaconto e non curano quello che non
appartiene loro. Si ha quindi il fenomeno del furto in grande e della
sperequazione dei beni.
Chi possiede, dunque, è solo un fattore nelle
ricchezze della Provvidenza, un fattore responsabile innanzi a Colui
che legge i cuori e le coscienze. Quando viene la morte, il Padrone
celeste dice al ricco: Rendimi conto della tua
amministrazione, poiché ormai non potrai essere più fattore. È
allora che il ricco deve saper presentare a Dio le opere di carità e
di bene, e per presentargliele deve averle già fatte in vita. Le
ricchezze, frutto o strumento d’iniquità, possono allora diventare
strumento di amicizia eterna. È evidente, poi, dal contesto stesso
della parabola che se delle opere di carità poterono far trovare
un’amicizia nel Cielo ad un fattore infedele, un uso santo delle
ricchezze le muta in vere ricchezze eterne; è allora che la fedeltà
nel poco produce la fedeltà nel molto, cioè che
la fedeltà a Dio nei beni materiali produce la fedeltà alle grazie
spirituali e la vita eterna.
In conclusione è a Dio che bisogna servire, e chi
pretende di usare delle ricchezze per proprio tornaconto pretende
servire a due padroni opposti. Non è possibile, infatti, attaccarsi
disordinatamente ai beni temporali e cercare quelli eterni, amare le
proprie soddisfazioni e amare Dio, cercare il vantaggio proprio
disordinatamente, e contemporaneamente cercare quello del prossimo
nella carità.
Chi riguarda la ricchezza e il denaro come fine e non
come mezzo della vita, e chi non ne usa per fare il bene, è un
miserabile servo di mammona,
un uomo che si consuma e si sacrifica come
uno schiavo
per ciò che non è suo,
strettamente parlando, e che, ad un cenno di
Dio, deve lasciare con la morte.
Anche fuori del contesto della parabola rimane
universalmente vero che non si può servire a due padroni; non è
solo per le ricchezze contrapposte ai beni spirituali – e questo è
vero –, ma lo è per tutto quello che costituisce la vita del mondo
contrapposto alla vita dello spirito, alla vita cristiana.
Com’è possibile sposare insieme l’errore e la
verità, l’impurità e la purezza, l’orgoglio e l’umiltà, la
sopraffazione e la serena giustizia? Come si può seguire la legge
del mondo, e contemporaneamente quella di Dio che la condanna? Il
contrasto tra i due padroni – lo si noti –, Gesù lo pone
nell’amore o nell’odio: Odierà l’uno e
amerà l’altro, o si affezionerà al primo e disprezzerà il
secondo.
Dunque, il contrasto non è superficiale, non riguarda
una divergenza di vedute, ma è radicale e totalitario; non ammette
alcuna transazione e non può ammetterla. In realtà, chi non è
totalitariamente di Dio è del mondo o di satana, e la lustra di
pietà che può avere non muta il suo
atteggiamento in ordine a Dio; egli, in
realtà, non lo ama, e quel poco di bene che accetta l’accetta per
proprio tornaconto, o perché non vuole internamente prescindere
dalla fede e dalla religione dei padri.
Non c’è cosa più monca e più meschina quanto una
fede accettata unicamente come tradizione atavica; la fede dev’essere
amore e amore totalitario; non si può amare col cuore degli avi né
si può credere perché essi hanno creduto; si crede per l’autorità
di Dio che rivela, e si obbedisce non ad uso
antico qualunque, ma ad una Legge divina che
è sempre attuale e sempre soavemente imposta dalla sua adorabile
volontà.
don Dolindo Ruotolo
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