Commento
al Vangelo nella Solennità dell’Assunzione della B.V. Maria 2017 A
(Lc
1,39-56) – Messa del giorno
Don
Dolindo Ruotolo
L’incontro
con santa Elisabetta
Maria
si pose in viaggio per le vie deserte dei monti e camminava
frettolosamente. Cercava la solitudine, perché aveva un gran bisogno
di amare in silenzio, e correva perché era quasi come spirito e non
avvertiva il peso del corpo.
Chi ha provato un momento
d’intimo amore con Dio sa quanta vita esso trasfonde in tutto il
corpo, rendendolo più sottomesso all’anima, più docile strumento
dello spirito; questa vita dovette essere immensa in Maria, tutta
avvolta dalla fiamma dell’eterno Amore. Non poggiava quasi sul
suolo e, come colomba librata al volo, divorava la via. Correva senza
affannare, spinta come da un vento, perché la creazione le faceva
quasi riverenza, e l’aria stessa si apriva innanzi a Lei, per non
opporre resistenza ai suoi passi. Correva, esultando nel suo spirito,
con passo sicuro e senza timore, perché la gioia pura dell’anima
dà anche al corpo un novello vigore e una maggiore decisione nei
suoi movimenti. I suoi sentimenti si arguiscono da quelli espressi a
santa Elisabetta, espressione magnifica dell’anima sua benedetta:
glorificava Dio, esultava in Lui Salvatore, vivente nel suo seno, si
umiliava e considerava la sua grande missione nei secoli, attribuiva
al Signore tutta la propria grandezza, e considerava le conseguenze
della misericordia fatta da Dio alla terra, la dispersione dei
superbi, l’umiliazione dei grandi e l’elevazione degli umili. Era
piena di Dio, conversava con Lui, lo amava d’intenso amore, piena
di riconoscenza per il compimento delle promesse da Lui fatte ad
Abramo e alla sua discendenza; cantava nell’esultanza del suo
spirito, ed esplose nella pienezza del suo amore innanzi alla santa
cugina.
Il
saluto di Maria
Giunse presto in casa di
Zaccaria e salutò
Elisabetta,
dice il Sacro Testo.
Non salutò il consorte di lei o per delicatezza, sapendolo muto e
non volendolo mortificare parlando, o perché sapeva che era
momentaneamente assente. Salutò con le parole allora più in uso. La
pace sia con te,
o con altra simile
espressione e, al suono della sua voce, il bambino di Elisabetta
trasalì di gioia nel seno di lei, ed ella fu ripiena di Spirito
Santo.
La voce benedetta di Maria era
come la voce stessa del Verbo Incarnato in Lei, perché Egli ne
possedeva e ne elevava tutta la vita; era voce santa e santificante
che operò quello che diceva come augurio di pace e, operandolo nello
stesso tempo, santificò il Battista nel seno materno, e ne santificò
la madre, riempiendola di Spirito Santo.
Elisabetta vide Maria nello
splendore della sua sovrumana bellezza e ne rimase profondamente
colpita. Il cammino, fatto sollecitamente, le aveva anche fisicamente
ravvivato il colore del volto: l’espansione con la quale le si
rivolse aveva fatto come affiorare tutta l’anima sua nelle linee
del corpo purissimo; era come un’opera d’arte mirabile, un misto
di semplicità e di maestà grande, un insieme di umiltà e di
gloria, un’armonia di gioia profonda e di compostezza
imperturbabile; era bellissima come non lo fu mai nessuna creatura, e
rapiva perché spirava santità e pace da ogni movimento e da ogni
parola.
Era ancora fanciulla: aveva
poco più di quindici anni e, benché fosse già sviluppata, portava
nella sua persona la casta e affascinante ingenuità propria
dell’adolescenza. Era come un fiore aperto alla vita e, perché
aperto per virtù dello Spirito Santo, conservava intatto quel
candido fulgore d’integrità che è proprio delle vergini. Sembrava
un angelo del Paradiso, più di un angelo, fulgente nei raggi della
divinità che in Lei riposava, e diffondeva intorno una soavissima
unzione di grazia che saziava lo spirito e lo inebriava d’amore
verso di Dio. La sua voce non era voce di creatura umana: aveva
qualcosa di misterioso, penetrava il cuore come grazia, e lo
pacificava con una grande soavità; era come una melodia sommamente
espressiva, tratta da uno strumento dolcissimo.
Il saluto di santa Elisabetta
Santa Elisabetta, perciò, al
vederla così grande e così bella, esclamò per ispirazione interna
dello Spirito Santo: Benedetta
sei tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo seno. L’abbracciò,
la strinse al cuore quasi con effusione materna, perché ella era già
avanzata di età; ma, nello stringerla, sentì in lei qualcosa di
divino, capì per grazia il mistero della sua Maternità divina,
sentì che abbracciava la Regina del cielo e soggiunse: E
da dove viene a me
questa grazia che la Madre del mio Signore,
cioè del mio Dio
fatto uomo per la salvezza di tutti, venga
a me?
Con queste ispirate parole fu
come scolpita per i secoli la testimonianza della divina Maternità
di Maria e della sua ineffabile grandezza. Ella non è indifferente
ai salvati dal Redentore: lo porta loro, lo dona, effonde la sua
grazia e la sua misericordia, dona la sua gioia, santifica in suo
nome, ed è inseparabile da Lui nell’opera della salvezza.
Se fosse stata solo un canale
per il quale passò il Redentore – come dicono stoltamente i poveri
protestanti –, Elisabetta, ripiena dello Spirito Santo, si sarebbe
rivolta non a Lei ma al Figlio divino che le stava nel seno; ella,
invece, la esaltò benedetta
fra le donne, e
chiamò Frutto suo il Redentore, Frutto della sua pianta purissima
che, evidentemente, Ella sola poteva dare. La pianta non è un
semplice canale del frutto, lo genera, lo nutre, lo matura e lo dona;
bisogna andare dalla pianta per averlo e, senza la pianta, è
impossibile coglierlo.
Elisabetta vide in Maria tutto
quello splendore di vita, e lo paragonò inconsciamente all’umiliante
abbattimento nel quale il suo sposo, muto e sordo era venuto da lei
dopo la visione dell’angelo, capì che la fede nella parola
dell’angelo aveva realizzato in lei il grande mistero, come
l’incredulità del marito gli aveva causato la mutezza e la
sordità. Psicologicamente quell’infermità del marito le era stata
motivo di non pochi fastidi nel governo della casa, e quindi esclamò:
Te beata che hai
creduto poiché si adempiranno le cose dette a te dal Signore.
Il
cantico sublime di Maria
Maria, a quelle parole di lode,
sentì l’anima sua tutta tratta in Dio; l’umiltà le dava il
senso della sua nullità innanzi a Lui; la riconoscenza le faceva
attribuire tutto alla sua infinita misericordia; la luce divina che
la illuminava le faceva guardare i suoi disegni su di Lei e i trionfi
delle sue misericordie nei secoli, fino alla fine del mondo; perciò,
elevando gli occhi al cielo, esclamò: L’anima
mia magnifica il Signore.
Mai uscì da labbro umano un
cantico più sublime di gioia; mai un cuore si aprì a Dio con tanto
riconoscente amore; mai l’umiltà più profonda fu armonizzata così
mirabilmente con la verità, in modo da formare una melodia di
annientamento e di grandezza, di piccolezza e d’immensità, di
bontà e di forza che affascina l’anima e la unisce alla gioia e ai
sentimenti di Maria.
Le reminiscenze scritturali del
cantico di Anna, dei salmi e dei profeti che si trovano nel
sublimissimo cantico non mostrano solo la familiarità di Maria con
le Sacre Scritture, ma sono come la luce delle profezie e delle
figure passate che s’incontrano con la realtà e col compimento
delle promesse di Dio e, lungi dall’offuscare l’originalità del
canto, lo rendono nella sua concisa semplicità più splendente e più
bello. Esso è come il fiore di tutto l’antico patto ed è la gemma
feconda del nuovo; è il compimento delle antiche speranze e la
speranza nelle nuove misericordie; è la sintesi delle compiute
aspirazioni del passato, è un rapido sguardo alla storia del futuro,
fino al compimento dei secoli, è il programma della vita di un’anima
redenta e la sintesi delle sue elevazioni d’amore; è, infine, lo
sprazzo fulgente della vita del Verbo Incarnato e della medesima
Madre che lo portava nel seno. In tutta la storia del regno di Dio è
una voce sempre viva, in tutto lo sviluppo della Chiesa è un
programma sempre attuale, in tutte le ascensioni dei santi, è una
voce sempre armoniosa che può raccogliere in un suono d’amore le
mirabili armonie della grazia in loro; è un cantico fecondo e
verginale, come il Cuore dal quale sgorgò ricco di significati e
semplice nella sua espressione che la Chiesa canta e ricanta ogni
giorno, senza che esso esaurisca la sua gioiosa e fresca scaturigine,
è il canto dei pellegrini che vanno verso la Patria eterna, degli
apostoli che percorrono la terra diffondendo il lieto messaggio, dei
martiri che attestano la verità col loro sangue, dei confessori che
la propagano, delle vergini che la vivono, dei contemplativi che la
gustano, degli angeli che la esaltano, delle creature tutte nelle
quali ha echi d’amore, ed è nota squillante del cantico eterno
nell’eterna gloria.
Se si recita, è una preghiera
soave; se si canta è un inno trionfante che lancia lo spirito
esultante in Dio; se si medita è come orto fiorito, ricco di profumi
celesti. Ha un sapore sempre nuovo, un fascino sempre vivo, una
delicatezza sempre verginale che i secoli non hanno potuto mai
invecchiare, perché è un cantico di vita. Che gioia, o Vergine
Santa, ricevere la grazia, ricevere Gesù e poter cantare con te:
Magnificat anima mea
Dominum! Che pace
trovarsi sul Calvario della prova e poter ripetere con te, anche
lacrimando, nella piena rassegnazione del cuore: Magnificat
anima mea Dominum! Che
dolcezza interiore elevarsi a Dio, sprezzando le gioie del mondo, e
ripetere nel volo dell’anima al Bene eterno: Magnificat
anima mea Dominum! Che
poesia d’amore recitare con la Chiesa le grandi preghiere
liturgiche, sentirsi sazi di elevazioni interiori, e volgere tutta
l’anima a Dio in questo canto dell’anima tua, o Maria: Magnificat
anima mea Dominum! Che
conforto nelle aridità dello spirito, quando la povera nostra
fontana si è come essiccata e non dà una goccia, ravvivare la
scaturigine del cuore con questo tuo canto, e dare la vita alla
povera terra inaridita: Magnificat
anima mea Dominum!
Anche a costo di dilungarci,
noi non possiamo passare oltre senza dare almeno uno sguardo fugace a
questi aspetti luminosi del cantico di Maria, e a dilettarci nella
molteplice rifrazione di questa gemma preziosissima del Nuovo Patto.
Non possiamo non commentare il
profondo significato di questo canto d’amore che c’è stato
donato per cantare a Dio la riconoscenza del nostro amore, perché
uniti alla voce verginale della Mamma nostra, possiamo essere meno
ingrati all’Amore che per noi discese dal cielo, e per amore ci
redense col suo preziosissimo Sangue.
San Zaccaria non credé
all’angelo e rimase muto e sordo fino al compimento della promessa;
Maria credé e parlò, anzi cantò con una melodia che abbracciò
tutti i secoli. Noi, figli suoi, cantando con Lei viviamo della sua
grande fede, partecipiamo alla beatitudine del suo Cuore: Beata
quae credidisti,
e ci rendiamo meno
inetti al compimento dei disegni di Dio in noi.
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