Commento al Vangelo della XVII Domenica TO 2013 C (Lc 11,1-13)
La preghiera insegnataci da Gesù Cristo
Gesù Cristo, com’era solito, si era
appartato in un luogo solitario per pregare, ed uno dei suoi discepoli,
notando la grandiosa elevazione del suo spirito e l’illuminazione amorosa di
tutta la sua persona, fu preso da un grande desiderio di pregare come Lui e gli
disse: Insegnaci a pregare come anche Giovanni ha insegnato ai suoi
discepoli. È chiaro, da questa domanda e da luoghi paralleli, che gli
apostoli riconoscevano di non saper pregare e avevano un desiderio tanto più
intenso di farlo, quanto più affascinante era il loro Maestro nell’orazione.
Allora
Egli rifulgeva d’amore e di maestà e conquideva, suscitando desideri di unione con
Dio; la trasfigurazione del Tabor in fondo, fu una delle manifestazioni più
belle della sua preghiera e ci dà un’idea della grandiosa maestà che Egli aveva
quando si rivolgeva al Padre.
Egli,
infatti, non era figlio di adozione ma consustanziale al Padre; non lo pregava
perché avesse bisogno di domandare, ma per lodarlo, benedirlo e amarlo in
nostra vece, e mettere così per noi quella base di meriti che mancavano alla
nostra preghiera.
Domandava
per noi, amando, in una perfettissima unione col Padre, ammirando e adorando i
suoi disegni nella stessa luce dell’infinita sua sapienza e rifulgeva di
singolare e arcana bellezza che affascinava e conquideva.
Come
uomo e Mediatore degli uomini Egli supplicava il Padre per le nostre necessità
e aveva sul volto tutto il fulgore della carità; come Figlio di Dio, Egli
lodava, benediceva e amava il Padre, e splendeva dell’eterna Luce. Aveva la
maestà di Dio e la tenerezza della più soave dolcezza: immobile, con lo sguardo
al cielo e le braccia aperte in un’espansione d’amore, aveva il sorriso della
più profonda intimità con Dio, e nello stesso tempo lo sfiorava l’angustia
delle nostre necessità; tutto questo costituiva uno spettacolo ineffabile per
gli apostoli, benché essi non giungessero ancora ad apprezzarne il valore.
È
evidente che Gesù Cristo, assentendo alla supplica rivoltagli dal discepolo in
nome di tutti, offrì una formula di preghiera che era l’eco della sua medesima
orazione. San Luca non la riporta alla lettera e tralascia qualcuna delle
domande, abbreviandola, forse perché conosciutissima e di uso comune, ma nella
medesima formula più sintetica che ce ne dà c’è la sostanza di quella
preghiera, e nella sintesi stessa il Signore vuole ammonirci che non ha voluto
darci strettamente una formula esclusiva di preghiera, ma ha voluto
tracciarci le linee direttive di tutte le nostre preghiere. Il Pater noster – se può dirsi così –, è come
bussola che orienta nella giusta direzione le nostre preghiere, e per questo la Chiesa ce lo fa recitare
sempre al principio e al termine di tutte le ore canoniche, quasi per determinare
innanzi a Dio il preciso significato e l’intenzione di tutte le sue petizioni.
Il Padre Nostro
Padre, ecco il modo come l’anima deve
orientarsi a Dio. Non deve considerarlo col terrore superstizioso che avevano i
pagani della divinità, espresso a volte dalle stesse forme dei loro idoli né
col timore servile dell’ebraismo di allora che aveva deviato dallo spirito dei
patriarchi; doveva riguardarlo come Padre, quindi come Creatore di tutto e come proprio Creatore,
provvido e amorosissimo.
Il
padre naturale dà la vita al figlio, amando, e la conserva amando, quando non è
ridotto allo stato brutale dal vizio.
Dio
dà la vita attraverso un atto della sua volontà infinita che è Amore; e la
conserva con la provvidenza che è amore; l’anima, dunque, prega, confessando la
realtà di Dio, il suo Amore e la sua provvidenza, e confessandola in un atto di
viva fede. Se non c’è questa fede che ci fa parlare a Dio come all’Essere
infinitamente esistente, sapiente ed amante, se non si ha con Lui l’intimità
filiale che viene dalla fede veramente e praticamente sentita e convinta, la
preghiera non supera la nostra povera atmosfera e diventa più uno sfogo della
propria impotenza che una fiduciosa domanda fatta a Dio.
La
vacuità di tante preghiere che facciamo sta proprio nella mancanza della fede
vera in Dio. Molti, moltissimi, pregando hanno ancora lo spirito idolatrico;
credono e non credono a Dio, lo ammettono e non lo ammettono, esitano nel loro
cuore e, inconsciamente, vorrebbero metterlo alla prova, come può mettersi alla
prova l’efficacia di una medicina.
Padre,
sia santificato il tuo nome. Ecco una seconda direttiva assolutamente necessaria alla nostra
preghiera: considerare tutto alla luce della gloria di Dio e volere tutto
secondo i fini della sua volontà. A volte noi giungiamo alla stoltezza somma di
voler imporre le nostre vedute e i nostri interessi umani al Signore, e
rimaniamo, quindi, inetti e impotenti, nell’ambito delle nostre povere forze.
Quando l’anima crede veramente e apprezza Dio per quello che è, domanda in
piena sottomissione alle esigenze della gloria di Lui che è diffusione di
misericordia e di bene anche per noi.
Come
potrebbe aversi il calore del sole sottraendosi ai suoi raggi, e pretendendo di
ridurli nell’ambito della propria meschinità? Il trionfo della luce del sole, e
quindi la rimozione degli ostacoli che ne impediscono la diffusione, è anche il
conseguimento pieno del nostro desiderio di calore vivificante.
Nell’orazione
bisogna, dunque, dare a Dio il posto che gli spetta, e desiderare la vita a ciò
che è necessario alla vita, unicamente per la sua gloria e per il trionfo del
suo amore in noi, nella pienezza del suo regno: Venga il tuo regno.
Se
si pondera veramente la meschinità delle nostre aspirazioni nella preghiera,
volta tutta al compimento del nostro egoismo, e se si pensa che la massa del
popolo ignora quasi completamente che cosa significhi amare Dio e desiderarne
la gloria, non suscita più meraviglia che tante preghiere rimangano nella
nostra povera cerchia, e sono inesaudite.
Nel
tracciarci la direttiva delle nostre preghiere, Gesù Cristo distingue
nettamente le esigenze della vita dell’anima da quelle della vita del corpo
nella nostra condizione naturale. Per questo il Pater noster ha due
parti determinate; alla vita dell’anima è necessaria l’intimità filiale con
Dio, per la grazia che la rende sua figlia: Padre. In questa semplice
parola c’è la sintesi stupenda delle elevazioni dell’anima negli splendori
della grazia che la restaura, la santifica e la eleva. L’intimità con Dio è amore
nelle sue molteplici gradazioni e sfumature e questo amore si sintetizza tutto
nel desiderio di glorificare Dio e di farlo regnare nella propria vita e in
quella di tutti.
Noi,
quindi, domandiamo a Dio lo stato di grazia, l’amore verso di Lui, lo zelo per
la sua gloria, la santificazione delle anime e il suo regno in tutte nel
dominio soavissimo dell’amore. Tutte le grandi manifestazioni della vita della
santità e della vita della Chiesa stanno in queste brevi e mirabili parole.
Per
la vita del corpo, ordinata a quella dello spirito, noi abbiamo bisogno
dell’alimento e di tutto quello che serve all’ordine e alla missione temporale
della medesima vita: Dacci oggi il nostro pane quotidiano; abbiamo bisogno della pace,
bene assolutamente imprescindibile da una vita che non sia concepita, come si
fa oggi, quale esasperante tramestio di prepotenze e di oppressioni.
Ora
la pace non è fuori dell’anima, e tanto meno può considerarsi come l’oppressione
del più forte sul più debole; essa è tranquillità dell’ordine, e questa tranquillità viene
dall’armonia della coscienza e da quella della carità: Rimetti a noi i
nostri peccati, come noi li rimettiamo ad ogni nostro
debitore. Siamo tutti miserabili, e nessuno può presumere di essere dappiù
di un altro; ci confessiamo peccatori per avere il perdono e promettiamo
perdono a quelli che ci fanno del torto. Così viene stroncato nella radice
quello che disturba la pace.
Grazia
di Dio in noi e carità verso il prossimo sono due beni spirituali dai quali
dipende la tranquilla prosperità temporale della vita; i peccatori non hanno
mai bene; anche quando satana si sforza di farli apparire prosperati, e dove
manca la generosa carità, manca la benedizione di Dio. Satana sfrutta la
posizione di alcuni – molto pochi in realtà rispetto alle masse –, che, non
essendo più capaci di beni eterni, raccolgono come tenue premio di qualche
opera buona, i miseri beni temporali; egli li presenta come esseri felici nel
male, ma è una menzogna anche in questi la pace, perché sono infelicissimi nel
loro cuore ed è una menzogna maggiore il far credere o il supporre che il
peccato porti la prosperità.
No,
la massa dei peccatori sta in mille tribolazioni, e la massa dei prepotenti è
infelicissima, perché è stretta dai rimorsi e dalle angustie interiori che
tolgono loro la pace. Che cosa sono i beni temporali senza la pace? E come si
può avere pace senza il perdono di Dio e senza la grazia? Come poi si può avere
la grazia e il perdono senza darlo a chi ci è debitore?
Quando
la nostra preghiera per i beni temporali non sta su queste direttive precise è
una preghiera vana; quando cioè non si domanda ciò che serve alla vita, e non
più, e non lo si domanda nell’armonia della grazia e della carità, la preghiera
diventa vana, e a volte può farci credere, per illusione diabolica che produca
anche l’effetto contrario. Quanti hanno l’anima piena di avidità, di odio,
d’invidia e di peccati di ogni genere e domandano a Dio non ciò che serve al
corpo per la vita dello spirito, ma ciò che serve al corpo per la vita
materiale, e si lamentano, poi, di non essere esauditi!
Quanti
hanno peccati impuri che disordinano la vita, anche occultamente e senza che
nessuno lo sappia, e si lamentano della miseria corporale che ne è immediata
conseguenza! Quanti sono spietati nel giudicare e più spietati nell’inveire
contro il prossimo, e pretendono da questa bolgia far risuonare la loro
preghiera nei cieli, dove tutto è armonia soavissima di carità!
La
vita è una prova di pochi anni, nei quali dobbiamo meritarci, per la grazia di
Dio, il premio eterno. Questa prova ci viene dalla condizione stessa nella
quale viviamo e può venirci anche dalle insidie e dagli assalti di satana. C’è,
dunque, un terzo elemento della nostra vita terrena: la difesa nei pericoli.
Senza la difesa provvida che può venirci solo da Dio la vita dell’anima è
travolta dalla colpa e la vita del corpo dalle sventure. Perciò Gesù Cristo ci
fa domandare a Dio: Non ci indurre in tentazione, cioè non permettere che ci vinca la tentazione e, nel
provarci, Tu donaci la forza di esserti fedeli, riducendo le prove a causa
della nostra fragilità.
Condizioni per essere esauditi: perseveranza nel pregare e pieno abbandono alla bontà di Dio
Gesù
Cristo, a complemento della sua istruzione sulla preghiera, espresse in una
parabola e in una analogia la necessità di perseverarvi e di abbandonarsi alla
divina bontà. La parabola ha un significato profondissimo, pur sembrando, a
primo aspetto che non possa applicarsi completamente alla relazione dell’anima
con Dio: un uomo riceve a mezzanotte la visita di un amico che, viaggiando, gli
domanda ospitalità.
Gli Ebrei, quando era il tempo dei
grandi calori, viaggiavano di notte, e quindi non c’è da meravigliarsi che questo
pellegrino abbia domandato ospitalità a mezzanotte. Siccome in Palestina non si
era soliti avere provviste di pane, cocendosene ogni giorno quel tanto che
bastava, l’amico del viaggiatore se ne trovava sprovvisto e, per non mancare ai
doveri di ospitalità, andò a domandarne in prestito ad un suo conoscente, e
bussò alla sua porta. Ma l’altro gli rispose che era già a letto con i suoi
figli, non voleva essere molestato, e non poteva alzarsi per non
svegliarli dal sonno. L’amico non si perse di coraggio a quella repulsa, ma
continuò a picchiare con tanta insistenza che l’altro, non tanto per amicizia
quanto per toglierselo davanti, scese dal letto e gli diede i tre pani che
domandava.
Gesù
Cristo soggiunse, subito dopo aver raccontato la parabola: Ed io vi dico:
Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto, poiché
chi chiede riceve, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Dunque quella
parabola aveva questo senso principale: Insistere per ottenere, insistere
con la fede di ottenere, insistere perché Dio vuole da noi questa insistenza
per esaudirci.
L’argomento
generale di Gesù è dal meno al più: se l’amico che non voleva essere molestato
e che non aveva la volontà di dare, finisce per assentire, se non
all’amici-zia, almeno all’insistenza, quanto più Dio che vuol essere pregato e
si diletta delle nostre insistenze filiali, ascolta ed esaudisce le nostre
preghiere perseveranti.
Dio
non si annoia delle nostre suppliche, non può annoiarsi, ma per esaudirci vuol
essere pregato con l’insistenza che si avrebbe fino ad annoiare un altro.
Il
Signore lo vuole per nostro bene, perché solo l’insistente preghiera ci
addestra a parlargli filialmente e ci mette in comunicazione con Lui.
Se
fossimo ascoltati alla prima domanda, le nostre preghiere sarebbero insignificanti.
Siamo
come i motori che non si mettono in marcia se non vengono riscaldati dal
medesimo movimento e abbiamo bisogno d’insistere nel domandare, per infiammarci
il cuore e abituarlo a quello slancio d’amore che ci rende capaci di essere
esauditi. Nella sua divina delicatezza, il Signore non vuole darci ciò che
domandiamo per elemosina, ma richiede che la nostra insistenza sia come il contributo
alla grazia che dobbiamo ricevere. Noi
chiediamo alla sua potenza, cerchiamo alla sua sapienza e bussiamo
al suo amore. Chiedendo insistentemente, la sua potenza sostiene la
nostra debolezza; cercando, la
sua sapienza guida le nostre forze; bussando il suo amore ci apre le
porte della misericordia e supplisce quelle che le nostre colpe demoliscono.
Padre Dolindo Ruotolo