sabato 30 novembre 2013

Prima Domenica di Avvento



Commento al Vangelo di Don Dolindo Ruotolo

I Domenica di Avvento:

Gesù soggiunse: Non passerà questa generazione prima che siano successe tutte queste cose, intendendo parlare della generazione a Lui contemporanea, che avrebbe visto la distruzione dì Gerusalemme, come di fatto avvenne, e del terzo periodo della vita dei mondo, che non sarebbe trascorso senza che tutto si fosse avverato. Egli aveva inaugurato il Nuovo Patto e il periodo storico nel quale doveva svilupparsi, ed Egli doveva conchiuderlo per sempre con una manifestazione solenne di potenza. Lo inaugurò con l'umiliazione del Calvario, e lo compirà con la glorificazione del giudizio universale. Questo è certissimo, soggiunse il Redentore, ma in quanto al giorno ed all'ora in cui avverrà, cioè in quanto al tempo preciso, nessuno lo sa, eccetto il Padre; Egli voleva dire che era un segreto di Dio che neppure il Figlio sapeva per comunicarlo agli uomini. Egli lo conosceva certamente in quanto Dio e in quanto uomo, ma non potendolo comunicare poteva dire di non saperlo neppure Lui, quasi ambasciatore legato dal segreto. 

Avverrà come al tempo del diluvio; gli uomini spensierati continuarono nella loro vita e nei loro peccati, nonostante le esortazioni di Noè, e non credettero al flagello che quando ne furono colpiti. Così avverrà che di due persone che sono nel medesimo campo, o al medesimo lavoro, una sarà salva ed una sarà perduta, perché quella che è buona non sospetterà la fine e non penserà a convertire l'altra, e quella che è cattiva continuerà nelle sue occupazioni materiali e nei suoi peccati. Occorre dunque vigilare e vivere come se fosse imminente sempre il giorno del giudizio. Bisogna vigilare come un padre di famiglia che teme in qualunque ora l'assalto del ladro, e come servo fedele che, in attesa del suo padrone, si comporta bene e quando egli ritorna riceve il premio della sua fedeltà. Chi credendo lontano il giorno di Dio si dà bel tempo, e maltratta gli altri, è simile al servo infedele che è sorpreso nel mal fare dal padrone, ed è diviso, cioè è puniti, scacciato e tagliato in due, come si usava fare con gli schiavi ribelli, precipitando così nell'eterna perdizione.

Un'appassionante questione: siamo vicino alla fine del mondo? 
Benché Gesù Cristo abbia detto che nessuno sa il tempo e l'ora della fine del mondo, pure in tutte le età gli uomini si sono sforzati d'indagarlo con congetture, e si sono creduti prossimi alla fine. San Gregorio stesso affermava questo al suo tempo, e gli sembrava imminente la fine. Premettiamo che è presunzione il voler determinare l'anno della catastrofe universale, non è contrario alle parole di Gesù l'indagare sui segni che li precederanno, anzi è opportuno per eccitarsi maggiormente a non attaccarsi al mondo ed a vigilare per la salvezza dell'anima. Che noi viviamo in un tempo di eccezionale sconvolgimento e di singolare empietà, questo non puó negarsi, e fa pensare seriamente ad una fine non estremamente lontana; potremmo dire che molti l'aspettano. Cosi per esempio, nell'aprile del 1937 la regione del Dniester ed altre dell'infelicissima Russia bolscevica erano percorse da processioni di contadini, che invitavano i compagni a non lavorare e pensare solo all'anima, essendo prossima la fine del mondo. La stessa incommensurabile e quasi irreparabile scelleratezza degli uomini ci fa pensare che non vi sia altro rimedio che la rovina di tutto. l mezzi di corruzione, infatti, sono tali e tanti, che non si vede come possano eliminarsi senza una catastrofe. Il cinema, la radio, la televisione, la velocità con la quale si comunica con le varie nazioni, costituiscono, assai più della stessa stampa, tali mezzi di propaganda del male, che non se ne può trovare il rimedio. L'impurità dilaga peggio che ai tempi del diluvio, la mania omicida non ha più confini, il capovolgimento dei più elementari valori della vita non fanno sperare più ad un ritorno sulle vie del bene; si attende la catastrofe, e diremmo pure si spera nella catastrofe. Certo alcuni dei segni precursori della fine ci sono, ma noi non sappiamo quali altre sorprese potrà darci l'umana delinquenza, resa più letale dalle scoperte stesse della cosiddetta scienza. La beata Anna Katharina Ernmerick dice nelle sue rivelazioni che la nascita dell'anticristo sarà nel 1956. Data la precisione impressionante delle sue visioni, è una data che non può ritenersi come una fiaba. L'apostasia universale e la lotta feroce contro Dio, Gesù Cristo e la Chiesa, lotta che non ha avuto mai la tracotanza moderna, ci fa pensare già ai prodromi del maledetto regno dell'anticristo. Si dovrà avere un periodo di trionfo per la Chiesa, una prima risurrezione di tutto in Gesù Cristo, e questo si rileva dall'Apocalisse, ma questo periodo sarà quasi come un giorno sereno per la semina e la raccolta di novelli fiori per il cielo. Il male terribile che già ci soffoca rimarrà come incatenato, ed avrà poi una recrudescenza anche più terribile al tempo dell'anticristo. Non si può dire nulla di preciso, perché i segni che ora vediamo come caratteristici potrebbero essere seguiti da altri più terribili. Quando si combatté la guerra universale, si credette quasi impossibile andar più oltre nei mezzi di distruzione e nelle scene apocalittiche dei campi di battaglia; eppure oggi quei mezzi già sembrano quasi primitivi. La famosa Berta tedesca, il cannone che tirava a cento chilometri, sembrò un prodigio di balistica, eppure oggi c'è già il cannone che tira a mille chilometri, senza dire che non sappiamo se i segreti militari delle nazioni nascondano altre sorprese. I segni che vediamo e l'incertezza che sempre ci prende debbono farci solo star vigilanti e spingerci a vivere cristianamente, anzi da santi. Oggi noi viviamo come sull'orlo di un vulcano; tutto è precario per noi, tutto è causa di opprimente dolore e di cupa tristezza e non ci rimane che abbandonarci a Dio ed amarlo sopra tutte le cose. Viviamo nell'atmosfera ammorbata dei senza Dio, di quelli che, come nella povera Spagna calcata dal tallone rosso, si salutavano turpemente: Sin Dios, cioè: senza Dio, invece di dire: a Dio! In questa pestifera atmosfera che certo è già anticristianesimo, dobbiamo tener ferme le nostre posizioni di fede, e non farci vincere né dal rispetto umano né dalla vilissima apostasia; dobbiamo portare alto il nostro nome di cristiani, senza cedere al mondo neppure un pollice delle nostre posizioni. Se in ogni tempo è un male cedere al mondo, in questi momenti è un delitto di diserzione. Non si può aver nulla di comune con l'empietà, neppure nelle forme esterne degli usi mondani; bisogna tenersi fermamente uniti alla Chiesa, e quasi attaccati alle sue vesti benedette, come figli alla madre. Dobbiamo soprattutto vivere cristianamente nella pratica dei Sacramenti e nella vita, affinché l'atmosfera del mondo non ci soffochi, e dobbiamo tener cara la fede come un preziosissimo tesoro. Niente ci faccia vacillare, niente ci affascini, niente ci tragga fuori di Gesù Cristo e della Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana. Non crediamo ai falsi profeti, e ce ne sono tanti, che pretendono predicare nuove religioni, nuove morali, e nuovi ordinamenti sociali; questi, come diceva Pio XI, sono spacciatori di chimere, destinati alla più amara delusione. Ascoltiamo la voce della verità che è nella Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana, e persuadiamoci che mai come in questi momenti di confusione si sente il bisogno di tendere l'orecchio alla verità e le mani alla Madre!

sabato 23 novembre 2013

L'agonia di Gesù

Vangelo della XXXIV Domenica TO 2013 C (Lc 23,35-43)

L’agonia di Gesù
I sacerdoti soprattutto e gli scribi ci tenevano a sfatarne il prestigio innanzi al popolo, e con i loro insulti volevano farne rimarcare l’impotenza: Ha salvato gli altri, salvi se stesso se Egli è il Cristo, l’eletto di Dio. Ad essi facevano eco i soldati, i quali, vedendo sulla croce la scritta postavi da Pilato, dicevano: Se Tu sei il re dei Giudei, salva te stesso. Lo dicevano per prendersi beffe non solo di Lui che si era dichiarato re innanzi a Pilato, ma anche per insultare il popolo ebreo in Lui.
Se Pilato aveva messo quella scritta, era per essi evidente che il Crocifisso era veramente il re spodestato; insultandolo e sfidandone la potenza, volevano far constatare lo stato di soggezione piena nel quale era ridotto il popolo che aveva il suo re in croce, senza dire neppure una parola di protesta, anzi approvandone la condanna e la morte.
I biechi sacerdoti del tempio non si erano accorti che, con quel delitto spaventoso, avevano stretto di più le catene della loro schiavitù a Roma.

Il buon ladrone
        I due ladri che erano crocifissi con Gesù, al principio si unirono tutti e due al coro di quelli che insultavano Gesù (cf Mt 27,44), ma poi uno di essi, vedendo che il compagno insisteva nel provocare il Signore a mostrare la sua potenza e la sua dignità, liberando se stesso e loro dalla croce e notando la pazienza divina di Lui, ne ebbe compassione e cominciò a sgridare il compagno.
        Fu questo il primo anello di grazia che doveva condurlo al possesso del Paradiso. Egli soffriva terribilmente, aveva fastidio di sentire il vociare dei nemici del Redentore, perché i suoi nervi erano spasmodicamente tesi e contratti; considerò quanto doveva essere terribile per il Signore quel coro d’insulti e di feroci ironie stando in quello stato e, non osando rimproverare i sacerdoti, gli scribi e i farisei sgridò il compagno, dicendogli: Neppure tu temi Dio, trovandoti nel medesimo supplizio? cioè: tu non compatisci, dunque, le sue pene, pur soffrendole tu stesso e ancora lo provochi e lo insulti? Quindi, dando uno sguardo ai peccati commessi, notandone forse le vestigia nel compagno e pentendosene di tutto cuore perché vedeva e sentiva quanto era innocente Gesù, esclamò: Per noi, certamente è giusto, perché riceviamo ciò che meritiamo per i nostri delitti; questi, invece, non ha fatto nulla di male.
        E, dicendo queste parole, lo guardò.
        La compassione per le sue pene era diventata proclamazione della sua innocenza e, nel guardarlo di nuovo in questa luce, notò che quell’innocenza non era umana, come non era umana la pazienza che mostrava. Lo fissò, e gli venne una grande pace; lo guardò ancora e anche Gesù dovette guardarlo, alleggerendogli le atroci pene. Nel considerarlo, scorse la maestà placida di quel volto, e dal volto spontaneamente passò a leggere la scritta: Gesù Nazareno, re dei Giudei. Aveva un vero aspetto di Re, spirava maestà, spirava, anche così contraffatto, ammirabile bellezza; era Re, ma non poteva esserlo di questo mondo. Forse l’aveva sentito dire innanzi a Pilato solennemente: Il mio regno non è di questo mondo, e quelle parole ora gli ritornavano in mente. La fede nel Messia gli si rinnovò nell’anima; lo guardò ancora, sentì che era Lui, credé, sperò, gli si confidò, gli si abbandonò, esclamando: Signore, ricordati di me quando sarai giunto nel tuo regno. La sua fede era piena e completa; aveva confessato le proprie colpe e la grazia l’aveva tutto avvolto e vivificato; si era pentito, aveva amato il suo Redentore, aveva accettato come espiazione la pena che soffriva, e Gesù, perdonandogli, esclamò: In verità ti dico: Oggi sarai con me in Paradiso. Oggi stesso, sarai con me perché l’avrebbe preceduto nella morte e, morendo, l’avrebbe redento, ridonandogli l’adozione di Figlio di Dio e dandogli il possesso della felicità eterna.
        Fu un atto di misericordia immenso, al quale non poté essere estranea la Vergine Santissima. Nella sua materna misericordia, Ella pregò per tutti, e pregò molto più per quelli che erano crocifissi col suo Figlio divino.
        Pregò, e il meno ostinato e cattivo raccolse i frutti della sua preghiera, compassionando Gesù e pentendosi dei propri peccati. Quale fiume di grazia sarebbe disceso su tutti i carnefici del Calvario, se avessero avuto un momento solo di pentimento? Il buon ladro aprì la serie dei peccatori che ai piedi del Crocifisso avrebbero trovato la luce, la misericordia e la pace, e fu il primo a raccogliere il conforto e la tranquillità che si diffondono dalla croce.
         Quante volte la sua breve preghiera è stata ripetuta dai peccatori, stretti dalle tribolazioni: È giusto, Signore, ricevo ciò che merito per i miei delitti, ricordati di me! E quante volte Gesù ha risposto nel profondo del cuore pentito, dandogli la pace e promettendogli la vita eterna! Sono peccatore, mio Dio, lo confesso, e tutte le pene della mia vita sono un atto di giustizia, lo riconosco; ma la tua misericordia ha le braccia aperte per accogliermi, e io mi rifugio sul tuo Cuore, dicendoti: Ricordati di me. Tu conosci bene quello che io sono, e se tu volessi ricordarti delle mie colpe dovresti scacciarmi da te; ma il tuo ricordo è misericordia e Tu mi guardi per perdonarmi e per salvarmi.
Don Dolindo Ruotolo

domenica 17 novembre 2013

La rovina di Gerusalemme

Vangelo della XXXIII Domenica TO 2013 C (Lc 21,5-19)

La rovina di Gerusalemme
        Gesù Cristo insegnava ogni giorno nel tempio e i discepoli ebbero occasione così di osservarne la magnificenza. Nei primi giorni non vi badarono troppo, perché attratti dalle parole del Maestro divino; ma, rivedendo il maestoso edificio e stando naturalmente un po’ più distratti dalla divina Parola per l’abitudine quotidiana di ascoltarla, ne notarono la bellezza e la segnalarono al Maestro con quel senso naturale di compiacenza e di orgoglio che si ha per una gloria nazionale.
        Gesù Cristo, lungi dal fermarsi sulla magnificenza dell’edificio, col suo sguardo divino ne guardò il dissolvimento e la rovina che l’avrebbero colpito a causa dei peccati del popolo e del delitto immane del deicidio che si accingeva già a consumare. Vide in quel tempio l’immagine del suo Corpo che sarebbe stato colpito dalla morte violenta e vide il castigo che avrebbe colpito il popolo con la rovina della città e del grandioso edificio; vide in questa rovina la figura e l’immagine della catastrofica fine del mondo, a causa dei delitti consumati nei secoli contro Dio, il suo Cristo e la Chiesa, suo Corpo mistico, e rispose annunciando le due catastrofi ed esortando i discepoli e i popoli sull’atteggiamento che dovevano avere in quelle immani sventure. Cominciando dal tempio e annunciando nella sua rovina quella di Gerusalemme, esclamò: Giorno verrà che di tutto questo che vedete non rimarrà pietra su pietra che non sia distrutta.
        Disse queste parole con tale accento di verità che nessuno di quelli che le ascoltarono osò dubitarne, e perciò gli domandarono quando sarebbe avvenuta quella rovina e da quali segni sarebbe stata preceduta. Facendo questa domanda, vollero inconsciamente assicurarsi se essi sarebbero stati travolti dalla catastrofe e sperarono di non esserne testimoni. Era troppo vivo il loro amore per la patria e per il tempio per non riguardare come suprema sventura il vederne la rovina; Gesù rispose a questa intima preoccupazione, disingannando essi e quelli che sarebbero venuti dopo di loro, perché la Chiesa che Egli fondava sarebbe stata esposta in ogni tempo alle persecuzioni, e nel mondo sarebbero successe in ogni tempo rovine.
        Pensare di non trovarsi presenti ad un cataclisma era speranza inattuabile per quelli che dovevano peregrinare combattendo e che in ogni tempo si sarebbero trovati di fronte ai disseminatori di errori, causa vera e prossima delle persecuzioni e dei castighi che ne sarebbero stati conseguenza.
        Perciò col suo parlare divinamente sintetico, rispose: Badate di non essere sedotti, poiché molti verranno sotto il mio nome, cioè come messia e come realizzatori di una rinnovazione universale, e diranno sono io, e il tempo è vicino.
        Molti falsi profeti crederanno di essere essi i dominatori universali, e annunceranno il tempo della prosperità del mondo, come anche molti, di fronte ai mali incalzanti in ciascun secolo, crederanno prossima la fine del mondo. Ma erreranno e saranno solo annunciatori di errori.
        Tanto il regno di Dio quanto la fine del mondo saranno preceduti da guerre e da rivoluzioni, ma queste non saranno un segno immediatamente prossimo, tanto della fine del dominio degli empi, quanto della fine del mondo; ne saranno solo una preparazione ed avverranno per purificare la terra e raccogliere gli eletti. Non saranno segni esclusivi di questi due grandissimi eventi della storia del mondo, perché in ogni tempo vi saranno guerre e sedizioni. La caratteristica delle guerre e delle rivoluzioni del tempo precedente il regno di Dio e la fine del mondo sarà l’universalità del flagello, accompagnato da pestilenze, carestie, segni spaventevoli nel cielo, e grandi prodigi sulla terra; cioè, probabilmente, grandi invenzioni che stupiranno il mondo. Perciò Gesù, dopo aver detto che vi saranno sempre guerre e sommosse, pur non essendo ancora la fine, accenna specificatamente ai caratteri di quelle che preluderanno alla fine dell’iniquità e alla fine del mondo: Si solleverà nazione contro nazione, e regno contro regno, cioè vi sarà una conflagrazione universale, una guerra universale, caratteristicamente tale per lo schieramento simultaneo di gruppi di nazioni contro gruppi di nazioni, e di gruppi di regni contro regni, coinvolgendo, quindi, repubbliche e monarchie.
        Questo cataclisma sociale sarà accompagnato da grandi terremoti, da pestilenze e da carestie. In ogni tempo vi sono stati terremoti, pestilenze e carestie, ma questi flagelli, nella grande conflagrazione, saranno simultanei alla spaventosa guerra universale.
        È una caratteristica che non potrà essere confusa con le solite perturbazioni del mondo e sarà tale da far capire che qualche cosa di eccezionale sopravverrà alla terra.
        Gesù determina anche meglio la natura delle due conflagrazioni finali, annunciando grandi persecuzioni contro la sua Chiesa e grande messe di martiri. E poiché Egli parlava ai suoi apostoli e discepoli che sarebbero stati i primi ad incontrare la persecuzione, trascinati avanti alle sinagoghe ed ai re della paganità, li esorta a non temere e ad affidarsi completamente allo Spirito Santo nelle contese che avrebbero avuto nei tribunali.
        Gesù Cristo promette loro una sua assistenza particolare specialmente nelle discussioni, assistenza che si è constatata sempre nella passione dei martiri, a cominciare dai primi fino a quelli gloriosissimi della Spagna, dei quali, può dirsi, siamo stati testimoni noi stessi.
        Gesù Cristo accenna alle persecuzioni che i suoi seguaci avrebbero subito persino da parte delle persone più care della famiglia, i genitori, i fratelli, i parenti e gli amici, a causa del suo Nome, e soggiunge che neppure un capello del loro capo sarebbe perito.
        L’espressione sembra a primo aspetto che contraddica quello che dice al versetto 16, poiché è evidente che, se dovevano essere uccisi, sarebbe perita tutta la loro vita corporale. Gesù, però, voleva dire che ogni tormento avrebbe prodotto un frutto di vita eterna e che neppure un capello del capo sarebbe perito inutilmente. I suoi martiri avrebbero poi riacquistato il loro corpo nella risurrezione e avrebbero riavuto tutto quello che avrebbero perduto per rendere testimonianza alla verità, e perciò soggiunse: Con la vostra pazienza salverete le anime vostre. La costanza nel patire per Dio, la pazienza nelle sofferenze, il sacrificio generoso di ciò che avevano di più caro avrebbe loro dato un godimento eterno nel cielo, e allora tutte le pene sofferte sarebbero sembrate nulla, e tutto ciò che avrebbero perduto sarebbe sembrato un guadagno inestimabile.

Siamo al periodo storico predetto da Gesù?
        Questo ha promesso Gesù ai suoi seguaci e, nonostante abbia inalberato il vessillo sanguinoso della croce, ne ha avuti un numero immenso. È la caratteristica della verità. I mestatori o fanatizzano o promettono gloria e vantaggi terreni; Gesù Cristo, invece, dà ai suoi un sentiero di spine e di sacrifici in una grande pace e serenità, di modo che essi percorrono un cammino doloroso non solo senza agitarsi, ma senza pensare neppure alle risposte da dover dare ai persecutori. È la caratteristica di quelli che, con calma, si affidano a Dio e che non fanno gare di inconsulti ardimenti ma, consci della propria debolezza, si abbandonano alla misericordia di Dio e alla forza soprannaturale che viene loro dallo Spirito Santo.
        Possiamo dire noi che siamo già al periodo storico della vita della Chiesa predetto da Gesù? Tutto lo fa supporre, poiché, in mezzo alle guerre e alle rivoluzioni dei popoli, noi abbiamo assistito e assistiamo ad una grande fioritura di martiri. La guerra, poi che è scoppiata dolorosamente il 3 settembre di questo anno 1939 comincia già ad avere un carattere universale, e il modo col quale disgraziatamente oggi si combatte è precisamente quello di popolo contro popolo e nazione contro nazione.
         Non sono solo gli eserciti che irrompono, è tutto il popolo e tutta la nazione, trasformata in un cantiere di armi e in un campo di battaglia. Il modo, poi, com’è condotta una guerra universale fa già intravedere che essa avrà come conseguenza le epidemie e la fame, poiché oggi si giunge all’inaudita barbarie di avvelenare le città con i gas e di mandarvi giù dagli aeroplani palloncini carichi di microbi pestilenziali. Inoltre, quando la conflagrazione sarà nel pieno sviluppo, sarà arrestato ogni commercio e la fame per necessità si farà sentire spaventosamente per tutta la terra. Non saranno le solite carestie, ma sarà una fame generale, perché una guerra generale distruggerà in ogni parte la produzione e la ricchezza. È necessario pregare, pregare, e se ci dovessimo trovare sino al fondo di queste tribolazioni, dovremo sollevare gli occhi a Dio solo, convertirci sinceramente a Lui, e sospirare alla vita eterna.
Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo

domenica 10 novembre 2013

La risurrezione e la vita eterna

Vangelo della XXXII Domenica TO 2013 C (Lc 20,27-38)
Don Dolindo Ruotolo
La risurrezione e la vita eterna
       La risposta di Gesù sul tributo lasciò ammirati gli stessi suoi nemici, i quali, confusi, tacquero. Alcuni sadducei, però, che erano presenti, notando l’imbarazzo degli scribi e dei farisei, crederono di prendere il sopravvento contro Gesù, e si avanzarono per proporgli una questione alla quale erano certi che Egli non avrebbe potuto rispondere.
       È profondamente psicologico il gesto dei sadducei: essi non credevano alla risurrezione, e rappresentavano i materialisti di quel tempo. Come materialisti, disprezzavano profondamente l’insegnamento di Gesù, e prendevano innanzi a tutti un atteggiamento da superuomini e spregiudicati.
       È l’atteggiamento di tutti quelli che hanno poca testa e presumono di averne molta.
       Ora, vedendo che gli scribi e farisei erano confusi innanzi a Gesù, crederono, come superuomini… da strapazzo, di poterlo confondere e, con alterigia, come si rileva dal contesto, gli proposero il caso di una donna che aveva avuto, l’uno dopo l’altro, sette mariti.
       Nella risurrezione – esclamarono in tono da trionfatori –, quella donna di quale dei sette sarà la moglie? Giudicando materialmente, essi supponevano che la risurrezione fosse un ritorno alla vita terrena con tutte le sue miserie e tutte le sue esigenze e, siccome non avevano visto mai un morto sorgere dalla tomba, negavano che la risurrezione potesse avvenire in futuro e che l’anima sopravvivesse al corpo. Perciò Gesù, rispondendo loro, distinse prima di tutto la vita di questo secolo da quella del secolo futuro, dicendo: I figli di questo mondo si sposano e si maritano perché, essendo mortali, vogliono perpetuare la loro specie; ma, quando passano all’altra vita e sono giudicati degni del Cielo e della gloriosa risurrezione finale, non si sposano né si maritano perché sono immortali. Vivendo gloriosamente nel Paradiso, sono come gli angeli, sono figli adottivi di Dio, essendo figli della risurrezione, ossia figli di Colui che risorgerà dalla morte e darà ai fedeli, incorporati a sé, la grazia di una risurrezione gloriosa.
       C’è un’allusione nascosta a se stesso in quelle parole: i risorti sono figli della risurrezione; Egli, infatti, era la risurrezione e la vita, e da Lui dovevano aspettare la risurrezione gloriosa i suoi fedeli. Gesù non parlò della risurrezione dei cattivi che pure avverrà, perché essa rappresenta per loro una seconda morte, più terribile della prima, andando in perdizione anche col corpo; Egli rispose direttamente alla parabola proposta dai sadducei, nella quale si alludeva a persone timorate di Dio che si facevano un dovere di osservarne i precetti, e logicamente parlò solo della risurrezione dei giusti.
       Del resto, se era assurdo che nella gioia eterna gli uomini potessero sposarsi, era più assurdo che potessero fare ciò nei tormenti eterni, dove non c’è che dolore e disperazione. Quelli che sono giudicati degni dell’altro secolo e della risurrezione da morte, della vera risurrezione che strappa il corpo alla morte per darlo alla vita, sono simili agli angeli di Dio e sono figli di Dio, essendo figli della risurrezione, ossia, essendo figli del Redentore, incorporati a Lui, per Lui resi figli adottivi di Dio e partecipi della sua stessa risurrezione.
       L’argomento era bellissimo per tutto il popolo al quale Gesù parlava, ma Gesù ne volle portare un altro direttamente contro i sadducei, per disingannarli nel loro errore esiziale, e poiché essi, per obiettare, si erano appellati alla Legge promulgata da Mosè, Egli, per rispondere, si servì dei termini stessi nei quali Dio aveva promulgato la Legge, chiamandosi Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe. Si chiamava loro Dio, usando il presente, mentre, se quelli fossero morti senza sopravvivere, avrebbe dovuto dire che era stato il Dio loro; Egli, poi, è Dio dei viventi e non di quelli che in nessun modo hanno più vita, come sono gli animali dopo la morte; è Dio per dare la vita, per sostenerla e per renderla beata, essendo, le anime immortali, vive per grazia e misericordia sua.
        Agli stoltissimi sadducei e a quelli che sventuratamente li seguono Gesù manifestò la vera natura della nostra vita: siamo di Dio e Dio è nostro; Egli ci dona la vita e ci chiama alla vita; non ci dona solo la vita nel tempo ma continua a darcela nell’eternità, e nell’eternità la vita è tutta spirituale, è vita angelica di gaudio spirituale che si diletta di Dio, conoscendolo e lo possiede amandolo.

sabato 2 novembre 2013

Zaccheo

Commento al Vangelo della XXXI Domenica TO 2013 C (Lc 19,1-10)

Zaccheo
        Per andare verso Gerusalemme, Gesù, continuando nel suo cammino, attraversò Gerico. La fama dei miracoli da Lui operati, e specialmente quella dei ciechi ai quali aveva ridonato la vista, suscitò grande entusiasmo nella città, e il popolo gli si affollò straordinariamente intorno. Ora, vi era in Gerico un capo dei doganieri pubblici, il quale, sentendo che passava Gesù, corse e si mescolò prima tra la folla nella speranza di vedere chi fosse. Egli era Ebreo, come si rileva dal suo stesso nome ebraico Zakkai che significa puro, giusto, e come Ebreo aveva anch’egli la speranza del Redentore futuro; volle vedere Gesù, dunque non per una semplice curiosità, ma per osservare chi fosse, cioè se avesse qualche cosa di straordinario che potesse farlo riconoscere come il Messia promesso.
        Zaccheo, capo dei doganieri o pubblicano, esosi esattori delle gabelle romane che facevano mille soprusi al popolo, era riguardato come un peccatore più degli altri. Piccolo di statura, doveva essere molto scaltro e intelligente per stare in un posto di responsabilità che faceva correre anche rischi di aggressioni da parte degli angariati, e richiedeva una mano ferma per tenere disciplinati i suoi subalterni. Doveva avere, però, un buon fondo di rettitudine, come appare dal modo col quale accolse la grazia di Dio, e un’anima semplice, come può rilevarsi dal gesto che fece per vedere Gesù.
        Piccolo di statura ma svelto e nel pieno vigore delle forze, come si rileva dal suo gesto, non potendo in nessun modo farsi largo tra la folla né scorgere Gesù da lontano, da uomo pratico com’era, ebbe un’idea geniale: corse avanti per dove doveva passare Gesù e, visto un albero di sicomoro, vi si arrampicò e vi stette per osservare a suo agio il Maestro divino.
        Il sicomoro si prestava a fargli da stazione di osservazione, perché ha i rami quasi orizzontali e non è molto alto; egli, dunque, si appoggiò comodamente ai rami e attese. Notò l’ondeggiare della folla e dall’alto, forse, non gli sfuggì la miseria di quel popolo angariato; ciò può supporsi dalla risoluzione che prese, sotto l’influsso della grazia, di dare ai poveri metà dei suoi beni.
        La grazia non opera mai a salti nell’anima nostra e poté utilizzare l’ispezione che Zaccheo fece del popolo dall’alto dell’albero.
        Appena Gesù passò per quel luogo, alzò gli occhi e, visto Zaccheo, si fermò e lo invitò a scendere, dicendogli che gli occorreva fermarsi nella sua casa. Zaccheo apprezzò l’onore altissimo che gli veniva fatto e, scendendo in fretta, lo accolse con grande gioia. La sua dimora non doveva essere molto lontana, e tutto il popolo, vedendo che Gesù era andato da un uomo peccatore, cominciò a mormorare. Eppure avrebbe dovuto esaltare Gesù e ringraziarlo, perché la conversione di Zaccheo fu di immediato vantaggio per i poveri e per tutti quelli che erano stati angariati da lui. È evidente che Gesù andò da quel peccatore per convertirlo e disse che gli occorreva fermarsi in casa sua, perché voleva spingerlo a regolare le ingiustizie che aveva commesse.
        Non ebbe bisogno di parlargli: gli bastò visitarlo e, poiché Zaccheo aveva accolto il suo primo invito, accolse con prontezza anche quello che gli faceva dell’anima, e disse: Ecco, o Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri e se ho frodato qualcuno gli rendo il quadruplo. Al contatto con Gesù sentì una grande carità per i poveri e, poiché Gesù era andato da lui per perorare la causa dei diseredati e degli angariati, egli sentì nel suo cuore il calore di quella fiamma di bontà e si sentì tutto trasformato. Diventò prodigo nella carità ed esuberante nella giustizia; diede metà di quello che gli apparteneva e riparò al quadruplo quello che aveva frodato.
        Con questo, Zaccheo si mostrò pentito non solo dei peccati contro la giustizia, ma di tutti quelli che aveva fatto; col suo esempio trasse tutta la sua famiglia a seguire Gesù, riconoscendolo come Messia, accettò la salvezza che veniva da Lui, e perciò Gesù disse, con accento di grande soddisfazione, che la salvezza era venuta per quella casa, formando del suo capo un vero figlio di Abramo. Era venuto a cercare e salvare ciò che era perduto, e il suo Cuore divino esultava, accogliendo un’intera famiglia a salvezza.

Oppressi dal mondo siamo impotenti a vedere le cose celesti
        Gesù attraversò Gerico, una città di commercio, e colui che rappresentava in certo modo il movimento di quel traffico, come capo dei doganieri, era piccolo di statura e non poteva vederlo, per la folla. Si può dire che il concentrarci nei guadagni e negli affari temporali senza occuparci del nostro ultimo fine ci renda piccoli di statura spirituale, incapaci di elevarci alle cose celesti, e oppressi dalla moltitudine degli affari come da folla tumultuante. Non è possibile vedere Gesù in questa deprecabile piccolezza e bisogna ascendere più in alto, facendo uno sforzo per staccarsi dalle cose terrene. Un primo atto di virtù, una rinuncia, un fioretto, anche minimo, offerto a Dio, può elevare d’un tratto la nostra statura spirituale, farci vedere Gesù e metterci sotto il suo sguardo per ottenere da Lui grazia e misericordia.
         Gesù c’invita a riceverlo nella nostra casa, comunicandoci di Lui Sacramentato. È allora che Egli viene a noi per portarci la salvezza e la santificazione. Con infinito amore, Egli c’invita dal santo tabernacolo e, standovi come cibo e bevanda, ci dice veramente: Mi occorre fermarmi nella tua casa. Scendiamo presto dalle povere alture della vita terrena e andiamo a Gesù, ricevendolo con gioia, come nostro unico bene e unica vita. Dilatiamo il cuore nella carità, affinché la bontà di Dio ci ricolmi di grazie, e ripariamo le colpe commesse affinché ci usi misericordia.
Padre Dolindo Ruotolo