Commento
al Vangelo: IV domenica di Quaresima
2014
A
(Gv
9,1-41)
La
guarigione
del
cieco
nato
Dopo la discussione avuta con i
farisei nel recinto del tempio, e dopo essersi eclissato dal loro
sguardo quando erano già pronti a lapidarlo, Gesù Cristo si
allontanò dal sacro luogo insieme ai suoi discepoli, e passò per
una delle porte dove ordinariamente sostavano i poveri e gl’infelici
per domandare l’elemosina.
L’essersi trovato là con i
suoi discepoli e l’esservisi fermato conferma che Egli si eclissò
miracolosamente da quelli che volevano lapidarlo.
Passando, vide un poverello,
cieco dalla nascita, il quale, per essere portato là ogni giorno
dall’infanzia a chiedere l’elemosina, era conosciuto da tutti, ed
era una di quelle figure che, nella loro medesima piccolezza,
finiscono per interessare il pubblico, e per essere quasi come un
motivo insostituibile di certi ambienti.
Dal contesto del racconto si
rileva l’indole di questo cieco: di facile parola, affettuoso,
riflessivo, e un po’ psicologo o conoscitore dell’ambiente del
tempio; abituato a raccogliere tanti discorsi che facevano i
pellegrini e forse tante mormorazioni di quelli che erano addetti al
sacro luogo, si era formato un concetto abbastanza chiaro di quelli
che ne avevano il comando. I ciechi s’informano di tutto nel loro
piccolo ambiente, proprio perché non vedono, e questo giovane doveva
pur sapere che quasi mai i sacerdoti, gli scribi e i farisei facevano
scivolare nelle sue mani qualche elemosina, essendo sommamente
venali; questo doveva aver disposto l’anima sua a diffidenza e
disistima per essi; perciò, quando fu interrogato da loro, si mostrò
franco, e non mancò di ribatterli con una certa vivezza che rivela
questo suo stato d’animo.
La sua vita era monotona; al
mattino era accompagnato al tempio, e vi rimaneva a chiedere
l’elemosina; a sera era riaccompagnato a casa. Raccoglieva spesso
le espressioni pie dei pellegrini, o gl’insegnamenti dei dottori
della Legge, e aveva una certa cultura religiosa, per la quale gli
doveva essere familiare il sentenziare e anche l’ammonire. Era di
indole buona, di natura semplice, di carattere espansivo, e timorato
di Dio.
Passando vicino al cieco nato, i
discepoli, considerandone l’infelicità e attribuendola a castigo
di Dio, domandarono a Gesù: Rabbì,
chi ha peccato, costui o i suoi genitori, da nascere cieco? Era
infatti persuasione comune, tra i Giudei, che i mali fisici fossero
mandati da Dio in punizione di peccati commessi, o che fossero
castigo dei peccati dei genitori; ma i discepoli facevano una domanda
insulsa, chiedendo se avesse peccato il cieco prima di nascere,
perché questo sarebbe stato impossibile. Essi forse si confusero e,
nel domandare se quella cecità fosse stata effetto di colpa,
coinvolsero anche il cieco nella responsabilità. Gesù rispose che
né quel poveretto né i suoi genitori avevano peccato, ma che quella
cecità era stata disposta e permessa da Dio per manifestare, in
quell’infelice, la sua potenza, la sua gloria e la realtà del suo
Figlio Incarnato; Gesù, infatti, soggiunse che
Egli doveva compiere le opere di Colui che lo aveva mandato e,
con questo, mostrò chiaramente l’intenzione di guarire quel cieco.
Nonostante le minacce dei suoi
nemici, e nonostante che quel miracolo li avrebbe più malignamente
aizzati contro di Lui, Egli non avrebbe mancato di compiere
quell’opera buona, e di dare un nuovo argomento della verità della
sua missione. Era
per Lui ancora giorno,
cioè non era
ancora giunta l’ora oscura della sua Passione, quando non avrebbe
potuto compiere miracoli, volendo subirla fino all’estrema
immolazione. Egli doveva ancora per poco rimanere nel mondo e, finché
vi dimorava, voleva dare argomenti di luce a tutti i secoli,
nonostante che i malvagi ne avrebbero preso motivo per odiarlo e per
irrompere contro di Lui.
Gli scribi e farisei avrebbero
voluto che Egli avesse taciuto per sempre e si fosse eclissato,
rinunciando alla sua missione; ma Egli questo non poteva farlo,
perché era la luce delle anime e la luce dei secoli. Aveva detto
poco prima: Io
sono la luce del mondo,
e volle
confermare questa grande e fondamentale verità con un miracolo
d’illuminazione materiale, simbolo dell’illuminazione spirituale.
Volle donare la vista a quel povero cieco, per significare la vista
che voleva dare e che avrebbe dato alle anime; compì esternamente il
miracolo che voleva compiere internamente, e si servì di un mezzo
inadeguato, anzi contrario, perché si fosse capita l’importanza
del mezzo del quale voleva servirsi per redimere il mondo, cioè
l’umiltà e l’obbrobrio della croce.
Gesù non domandò al cieco se
voleva essere guarito né il cieco lo supplicò di guarirlo: andò
Egli stesso incontro al povero infelice, come Egli stesso veniva
incontro all’uomo peccatore e, sputato in terra, fece con lo sputo
un po’ di fango, impastando la polvere della strada, lo spalmò
sugli occhi del cieco e gli comandò di andarsi a lavare alla piscina
di Siloe.
Il Sacro Testo fa notare che
Siloe significa mandato,
perché questo
nome aveva un significato mistico che ricordava precisamente Colui
che doveva essere mandato, ossia il Messia.
La piscina o fontana di Siloe si
trovava nella parte sud-est di Gerusalemme, fuori delle mura, tra il
monte Ofel e il Sion; il cieco, per recarvisi, dovette essere
accompagnato da qualcuno. Andò, si lavò e acquistò subito la
vista.
Gli
occhi del cieco si aprono e vedono…
Quale sorpresa dovette avere nel
vedere la luce, e nel vedere quello che lo circondava! I ciechi nati
si formano un concetto tutto soggettivo del mondo e delle cose che li
circondano; non concepiscono proprio quello che non può essere
oggetto del tatto, e che non può essere apprezzato da una loro
esperienza. Certe cose sembrano loro più grandi della realtà, certe
altre più piccole; possono concepire un monte come un semplice
rialto, e un palazzo come un monte. A volte sembra loro di stare a
grande distanza e credono immensa una strada, a volte un grande
spazio sembra loro ristretto.
Il cieco si trovò in un mondo
che non immaginava; si guardò attorno stupefatto, vide la strada per
la quale era venuto, vide le case, ammirò i campi, volse lo sguardo
al cielo, ne contemplò la magnificenza, sentì una nuova vita
interiore, formata in lui dal riflesso di tutto ciò che vedeva e,
poiché aveva il cuore buono, abituato alla preghiera dalle lunghe
dimore fatte alla soglia del tempio, ritornò sui suoi passi per
andare a ringraziare Dio. Che felicità sentiva a non andare a
tentoni; che gioia a saper dove mettere il piede; che gioconda
curiosità a notare tutti quelli che incontrava, a squadrarli da capo
a piedi, a considerarne la bellezza o la bruttezza!
Era stato un povero schiavo di
quanto lo circondava e si sentiva libero; era stato inceppato dalle
tenebre e si sentiva come guidato dalla luce, nella quale godeva,
quasi respirandola; era povero e si sentiva ricco, poiché gli
sembrava d’essere venuto in possesso del mondo che percepiva e del
quale godeva.
Psicologicamente quel fare franco
e, se si può dire, un po’ spavaldo che ebbe con i giudici che dopo
ripetutamente lo interrogarono, era conseguenza anche di quel senso
di libertà e di padronanza che gli dava la vista acquistata. Egli
vide, per la prima volta, quelli che aveva conosciuti per esperienza
duri e sprezzanti e, potendoli squadrare nel loro volto arcigno,
sospettoso e ipocrita, si sentì autorizzato a dar loro una lezione.
Ritornato sui suoi passi, egli
dovette andare prima di tutto a dare la bella notizia ai suoi
genitori, e fu subito notato dai vicini di casa che si stupirono a
vederlo camminare senza guida. Lo guardarono con attenta curiosità e
si scambiarono le loro impressioni mentre egli si avvicinava. Alcuni
dicevano: Non è
questi colui che stava a sedere, e cercava l’elemosina? Altri,
vedendolo avvicinare, esclamavano: Sì è proprio lui; altri ancora,
ai quali sembrava assurdo che potesse vedere, dicevano: No, è
impossibile; forse è uno che gli somiglia. Egli poi, giunto nel
crocicchio della gente che, incuriosita, già andava raccogliendosi,
affermò con sicurezza che non ammetteva equivoci: Sono
proprio io, ero
cieco e ora ci vedo per misericordia di Dio. A quest’affermazione
si accertarono che era lui, e crebbe in loro la curiosità di sapere
come avesse avuto la vista, ed egli rispose: Quell’uomo
che si chiama Gesù fece del fango, unse i miei occhi, e mi disse:
Va’ alla piscina di Siloe e lavati. Sono andato, mi sono lavato e
ci vedo.
Chiamò Gesù
quell’uomo
perché non lo
conosceva ancora, ma ne aveva sentito parlare, e la gente stessa non
doveva essergli familiare, perché tutti gli chiesero: Dov’è
quest’uomo? Ed
egli rispose che non lo sapeva.
Un
miracolo sconcertante, questo,
per
i nemici del Signore
Tra la gente che s’era
affollata c’erano alcuni che avevano autorità e, sentendo parlare
di Gesù Cristo e del fango che aveva fatto in giorno di sabato,
sembrando loro questo una violazione della legge, accompagnarono il
giovane dai farisei, cioè innanzi al sinedrio, per far fare
un’inchiesta accurata sul fatto.
Per i nemici del Salvatore quel
miracolo era sconcertante, perché non poteva essere effetto
d’illusione, e perché poteva avere una grande influenza sul
popolo. Perciò cominciarono col volerne bene assodare le
circostanze, nella speranza di trovarvi qualche punto debole per
poterlo negare. Interrogarono perciò il giovane, per sentirsi
ripetere com’era stato guarito, ed egli, già annoiato da tante
domande, ripeté più sinteticamente il fatto, dicendo: Mise
il fango sui miei occhi, mi lavai e ci vedo.
Parlò con tanta sicurezza che i
farisei, in quel momento, non misero in dubbio la sincerità del
racconto sulla guarigione, e cominciarono a discutere fra loro; i più
ostili dicevano che Gesù non poteva essere da Dio, perché non
osservava il sabato; altri, più temperati e logici, facevano
riflettere che un peccatore non avrebbe potuto fare questo miracolo e
gli altri, dei quali avevano conoscenza, perché Dio non avrebbe
confermato l’inganno di un impostore. La discussione si animò
talmente che ci fu scissura fra loro e, non potendo venire ad una
conclusione, pensarono di approfondire meglio la questione, e
domandarono al giovane che cosa egli pensasse di Colui che l’aveva
guarito. Egli rispose: Io
dico che è un profeta.
È profondamente psicologica la
domanda dei farisei, e mostra tutto l’imbarazzo della loro mente e
della loro coscienza; chi, infatti, è titubante in una questione
grave sulla quale non sa decidersi, domanda anche ai più umili che
cosa ne pensano, e spera di avere un argomento plausibile per
attenersi alla risoluzione che, inconsciamente, più lo attrae.
Essi avrebbero voluto condannare
Gesù, ma non osavano, e speravano che una parola di disprezzo che
avrebbe potuto dire il giovane li avrebbe tolti d’impiccio. Forse
furono alcuni di quelli meno sfavorevoli e più titubanti nella
coscienza che rivolsero al giovane quella domanda, quasi oziosamente
e indifferentemente, senza mostrare di volergli dare importanza, ma
con la speranza di una testimonianza a loro favorevole. Il giovane si
sentì lusingato, e rispose col tono di chi sta alla pari con chi lo
interroga: Io
dico che è un profeta.
La risposta per
i più scalmanati non aveva nessun valore giuridico: anzi il
mostrarsi il giovane entusiasta di Gesù diede loro il pretesto per
sospettare un trucco; misero in dubbio l’autenticità del fatto, e
non vollero ammettere che proprio quel giovane fosse il cieco nato
che chiedeva l’elemosina, senza prima chiamare e interrogare i suoi
genitori.
Depongono
i genitori
Dal contesto può rilevarsi che i
messaggeri che andarono a chiamarli dovettero spaventarli con
minacce, e avvertirli che, se avessero in qualunque modo parlato bene
di Gesù, si sarebbero esposti ad essere espulsi dalla sinagoga;
essi, perciò, assunsero un atteggiamento estremamente prudente,
sapendo che l’essere espulsi dalla sinagoga equivaleva all’essere
come scomunicati.
Introdotti innanzi al sinedrio,
furono rivolte loro due domande, una per l’identificazione del
giovane: È
questo quel vostro figlio che voi dite essere nato cieco?, e
un’altra per conoscere in qual modo fosse guarito: Come
dunque ora ci vede? Le
domande le fecero insieme, perché essi sapevano che quegli era il
giovane, e premeva loro conoscere dai genitori com’era guarito,
sperando di controllare, nel racconto, una qualunque contraddizione
che potesse offrire loro il pretesto di condannare Gesù come un
impostore. Frattanto, fecero uscire il giovane, per evitare qualunque
intesa, fatta magari a cenni con i suoi genitori. Questi, cercando
dissimulare la paura che avevano di trovarsi innanzi all’autorità,
risposero con calma che sapevano benissimo che quel giovane era loro
figlio, e che era nato cieco, ma ignoravano come ora vedeva e chi gli
aveva aperto gli occhi; soggiunsero che il giovane aveva un’età
sufficiente per dar conto di ciò che lo riguardava e che, perciò,
avessero interrogato lui stesso che doveva saperlo. Con questo,
uscirono dall’imbarazzo in cui erano, e furono licenziati.
Il
miracolato con impeto difende Gesù
e
mette in imbarazzo il sinedrio
Rimaneva, così, assodato
giuridicamente che realmente quel giovane era stato cieco, e quindi
che realmente era guarito.
I farisei, perciò, lo
richiamarono in udienza con la speranza di farlo schierare contro
Gesù, e quindi di far svalutare da lui stesso Colui che l’aveva
guarito, o almeno di strappare dal suo labbro qualche contraddizione
sul miracolo che ne avesse sfatato l’importanza. Avutolo davanti,
cercarono di prenderlo con le buone, dicendogli: Da’
gloria a Dio,
cioè: Di’ la
verità, e pensa che si tratta della gloria di Dio, dovendosi
smascherare un impostore; non ti far ingannare dal beneficio
ricevuto, e non mentire se non sei un falsario anche tu e fingi una
guarigione che non è mai esistita; noi
sappiamo,
infatti, che
quest’uomo è peccatore.
E volevano
continuare e dire che, come tale, non aveva potuto fare quel
miracolo; ma il giovane non li lasciò continuare e, urtato da
quell’ingiuria rivolta al suo benefattore, li interruppe, dicendo:
Se sia peccatore
io non lo so; questo solo conosco che ero cieco e ora io vedo.
E voleva dire: Voi
affermate che è peccatore, e della vostra affermazione siete
responsabili voi; io
non lo so,
cioè non lo
ammetto, perché ero cieco e ora vedo; un peccatore non avrebbe
potuto fare questo miracolo.
Siccome il giovane ricordava il
miracolo avuto come argomento per negare che Colui che glielo aveva
fatto fosse un peccatore, lo interrogarono nuovamente sul miracolo
per tentare di svalutarlo, e per dimostrargli che Gesù aveva violato
il sabato ed era veramente un peccatore; dissero perciò di nuovo:
Che cosa ti ha
fatto? Come ti ha aperto gli occhi? Domandarono
prima che cosa
avesse fatto,
per dargli
subito l’impressione della violazione del sabato. Ma il giovane,
annoiato della nuova inquisizione sull’accaduto, disse con
vivacità, come appare dal contesto: Già
ve l’ho detto e l’avete ascoltato; perché volete sentirlo di
nuovo? E, per
pungerli sul vivo e per farli smettere, soggiunse: Volete
forse diventare anche voi suoi discepoli? Ma
essi, adirati al sommo, lo ingiuriarono e dissero in tono di
disprezzo e di odio: Sii
tu discepolo di costui; quanto a noi, siamo discepoli di Mosè. Noi
sappiamo che a Mosè ha parlato Dio, mentre costui non sappiamo di
dove sia. L’odio
stesso che avevano per Gesù, li fece scendere a competizione con
quel giovane, il quale cominciò a discutere con loro alla pari, e
disse: Qui
appunto sta la stranezza che voi non sapete di dove Egli sia, eppure
mi ha aperto gli occhi. E
voleva dire: Agisce tanto soprannaturalmente per virtù di Dio che
senza far capo a voi o aver da voi l’approvazione, ha operato un
miracolo così strabiliante. Dunque ha un’autorità e una potenza
superiore a voi. Voi affermate che è un peccatore, ma noi
sappiamo bene che Dio non ascolta i peccatori per
confermare la loro malvagità o le loro imposture; ascolta
operando cose
straordinarie solo
chi lo onora e fa la sua volontà. Dacché mondo è mondo non si è
udito dire che alcuno abbia aperto gli occhi ad un cieco nato. Se
questi non fosse da Dio, non avrebbe potuto far nulla. Rosso
in volto, concitato, entusiasta, senza riflettere più a quelli che
lo interrogavano come giudici, il giovane si accalorò nella
discussione e diede una solenne lezione a quegli ipocriti.
Alcuni hanno affermato che egli
non parlasse in modo giusto dicendo che Dio non ascolta i peccatori,
ma questo è falso, perché se Dio ascolta anche le preghiere dei
peccatori, non li ascolta quando pretendono che Egli avalli con
miracoli le loro malvagità. L’argomentazione era quindi stringata
e, poiché Dio aveva operato quel miracolo per glorificarsi in
quell’infelice e
manifestare in lui le opere sue,
noi crediamo che il giovane parlasse per impulso di grazia, e che il
Signore umiliasse, così, la superbia del sinedrio. In fondo, il
ragionamento del giovane era quello che avrebbero dovuto fare i
giudici che lo interrogavano: ciò che compie questo uomo è
straordinario e miracoloso, cioè suppone l’intervento di Dio. Ora,
il Signore non interverrebbe se Egli fosse un peccatore, violatore
della Legge; dunque quest’uomo è da Dio e, senza di Dio, non
potrebbe far nulla di ciò che fa.
Nell’ascoltare quella
vivacissima difesa che il giovane fece di Gesù, gli scribi e farisei
montarono su tutte le furie e, non potendogli rispondere direttamente
perché a corto di argomenti, lo vituperarono, dicendo: Sei
tutto un impasto di peccati e pretendi d’insegnare a noi? Con
questa ingiuria sanguinosa lo
cacciarono fuori,
ossia
probabilmente gli applicarono la scomunica, per impedirgli di
propagare il miracolo avuto o per togliere ogni prestigio alla sua
testimonianza.
Gesù dona al giovane
miracolato la «vista»
dell’anima
e gli si rivela Figlio di Dio
Il fatto produsse grande scalpore
per la notorietà del giovane guarito, e ci fu chi andò a riferirlo
a Gesù. Il Redentore ne fu addolorato e, avendo dato a
quell’infelice la vista del corpo, volle dargli anche quella
dell’anima, illuminandolo pienamente. Quel giovane lo credeva un
profeta, ed era necessario che lo riconoscesse per Figlio di Dio;
l’aveva confessato e difeso come santo e doveva confessarlo e
adorarlo come Santo dei Santi; perciò, incontratolo, gli disse:
Credi tu nel
Figlio di Dio? Ed
egli rispose: Chi
è, Signore, perché io creda in Lui? Aveva
la volontà di credere, ma gli mancava la luce, come prima voleva
vedere fisicamente e gli mancavano gli occhi. Gesù Cristo,
illuminandolo interiormente con un grande fulgore di grazia, gli
disse solennemente:
Lo
hai visto, Colui che parla con te è proprio lui.
Il giovane lo guardò, ne vide in
quello sguardo la maestà, ne sentì la potenza, ne riconobbe la
gloria; si sentì l’anima tutta piena di soave unzione, sentì nel
cuore una gran fiamma d’amore, esultò nello spirito, si sentì
come schiacciare dalla grandezza di Colui che gli parlava, si prostrò
fino a terra e, adorandolo come Dio, disse: Credo,
o Signore.
I farisei a Gesù,
ironicamente:
«Siamo
forse ciechi»?
Quelli
che lo circondavano, al vedere quel profondo atto di adorazione,
rimasero meravigliati, perciò Gesù soggiunse: Io
sono venuto in questo mondo per fare un giudizio, affinché quelli
che non vedono vedano, e quelli che vedono diventino ciechi. E
voleva dire: Voi vi stupite? Gli orgogliosi, gonfi della loro
sapienza che credono di vedere, rifiutano la verità e diventano
interiormente ciechi; gli umili, invece, che vengono a me con
semplicità, vedono la luce di Dio, ricevono la fede e si salvano.
Io, così, divento per gli uni tenebre e per gli altri luce. Egli
voleva scuotere i farisei che erano con Lui, ma essi se ne offesero e
soggiunsero: Siamo
forse ciechi anche noi? Essi
si credevano illuminati, scienziati, dottori della Legge, perfetti, e
dissero ironicamente: Vuoi trattare da ciechi anche noi che siamo
luce d’Israele? E Gesù rispose con profondo dolore: Oh, foste voi
ciechi, ossia foste veramente accecati in buona fede nel rinnegarmi e
nel rifiutare la luce della verità! Voi allora non avreste
sull’anima il peccato. Ma perché affermate di vedere, agite in
malafede, rinnegate con malizia la verità, e rimanete nel peccato.
Padre Dolindo Ruotolo