Commento
al Vangelo: Domenica delle Palme 2014 (Mt
26,14-27,66)
Passione
di
Nostro
Signore
Gesù
Cristo
Il
tradimento
di Giuda
È un
mistero d’iniquità che dà le vertigini il tradimento di Giuda!
Come poté un apostolo che aveva ascoltato tanti insegnamenti divini
di Gesù, e aveva assistito a tanti miracoli, giungere fino alla
viltà di venderlo? Se si fosse turbato interiormente sulla sua
dottrina, e l’avesse creduta un pericoloso inganno, avrebbe dovuto
magari denunciarlo, oppure abbandonarlo per ritornare agli scribi e
farisei; ma venderlo, e domandare con impudenza e cinismo ai suoi
nemici che cosa gli avessero voluto dare come prezzo del tradimento,
è tale abiezione che suppone in Giuda un decadimento spaventoso di
spirito, un abbrutimento, un odio che fa fremere.
Il
Vangelo ci dice che dopo l’omaggio reso da Maria Maddalena al
Redentore, spargendogli sul capo l’unguento prezioso, Giuda andò a
proporre ai principi dei sacerdoti il tradimento prezzolato; questo
ci può far supporre che abbia voluto così rifarsi del guadagno che
avrebbe voluto cavare dall’unguento, secondo lui, sperperato.
Ma, già
da tempo, il suo cuore, preso da satana, si era distaccato da Gesù,
e già gli pesava quella vita randagia che non offriva nessuna
speranza alle sue ambizioni.
Egli
aveva dovuto, a poco a poco, abituarsi a criticare quello che diceva
e operava Gesù, e a vedervi tenebre e contraddizioni; tutto raccolto
nel proprio orgoglioso giudizio, aveva dovuto, a poco a poco,
concepire una nascosta avversione per Gesù, le cui particolari
tenerezze per Giovanni avevano dovuto profondamente urtarlo.
Satana
gli caricò le tinte delle sue critiche e le ombre delle sue tenebre,
ed egli credé ormai di trovarsi di fronte a un impostore o a un
illuso sognatore di chimere e di frottole. Guardò tutto dal suo
corto angolo visivo, non seppe neppure sospettare che, in ciò che
gli appariva oscuro potesse, esservi il piano di un disegno futuro, e
cominciò a trarre utile dal denaro che portava per i bisogni di
tutti, denaro affidato a lui. Il rubare, il turlupinare, il mentire
gli abbassarono talmente il tono del cuore che divenne avaro, e
guardò la borsa che portava come sua proprietà; lo spirito in lui
era come morto per il peccato, e l’abbrutimento lo portò
all’ultima degradazione. Il suo cuore dovette essere soprattutto
oppresso da un senso strano di dispetto, e le parole di amoroso
rimprovero che Gesù non dovette mancare di dirgli, lo chiusero in
un’ostilità sprezzante che lo decise al tradimento. Duro di cuore
e pertinace di volontà, orgoglioso e insofferente di rimproveri,
riguardò Gesù come se gli fosse stato nemico e come tale lo
barattò, per disfarsene; la reazione di sterile compatimento umano
che ebbe quando lo seppe condannato a morte, conferma questa sua
ostilità irragionevole, perché è proprio dell’odio senza veri
motivi, passare dall’ostilità alla compassione, quando si vede
appagato e non trova più motivo di odiare.
Giuda fu
preso da satana, e fu preso perché non corrispose alla grazia; non
credé più; divenne un critico stolto della sapienza e delle opere
di Gesù, e si chiuse nel suo cupo e desolante mutismo. Avviso alle
anime consacrate al Signore le quali possono facilmente essere prese
nei lacci del tentatore, quando danno corso alla loro natura, e
rifiutano di farsi guidare nelle vie di Dio dall’umile
sottomissione a chi rappresenta loro Gesù Cristo!
I
principi dei sacerdoti avevano stabilito di non catturare Gesù nelle
feste pasquali, ma l’offerta di Giuda li incoraggiò a farlo e,
pensando di non poter avere un’occasione più propizia, promisero e
diedero al traditore trenta monete d’argento, quanto era il prezzo
di uno schiavo. Giuda intascò il denaro, e d’allora cercò il
momento opportuno per consegnare il maestro nelle mani dei nemici.
La
miseria della corrispondenza umana
Mentre
l’apostolo infedele preparava l’insidia mortale, il Redentore
pensava a dare agli uomini la massima testimonianza del suo amore.
Era il primo giorno degli azzimi, cioè il primo giorno della
solennità pasquale, alla sera del quale doveva mangiarsi l’agnello,
e gli apostoli domandarono a Gesù dove dovessero preparare il
banchetto. Gesù li indirizzò ad un amico, dando loro dei segni per
rintracciarlo. Doveva essere un suo fedele seguace perché Gesù gli
fece dire che
il suo tempo era vicino,
cioè
che si avvicinava l’ora del suo sacrificio supremo, e desiderava da
lui quella testimonianza d’amore. Fattosi
sera,
cioè
dopo le sei pomeridiane, Gesù sedette a mensa con i suoi discepoli.
L’ordine
che si seguiva nella cena pasquale era il seguente: la sera del 14
del mese di Nisan s’immolava l’agnello e lo si arrostiva in modo
da non romperne, in alcun modo, le ossa. Verso la notte i convitati
si radunavano intorno alla mensa, e il capo di famiglia, presa una
coppa di vino temperata con l’acqua, benediceva Dio per aver creato
il frutto della vite, e poi beveva lui e faceva bere i commensali.
Veniva poi portata una bacinella d’acqua per lavarsi le mani, e
dopo si apprestavano le vivande, cioè l’agnello, il pane azzimo,
cotto in sfoglie sottili, una tazza d’aceto o d’acqua salata in
memoria delle lacrime versate dagli Ebrei nella schiavitù, e una
salsa chiamata charoseth,
con
erbe amare. La salsa color mattone ricordava i mattoni fabbricati
nella schiavitù, e le erbe amare le amarezze sofferte; ognuno ne
mangiava, e dopo s’intonavano i salmi 112 e 113, bevendo poi di
nuovo il vino e lavandosi le mani. Il capo di famiglia distribuiva a
ciascuno il pane e l’agnello, e una terza coppa di vino detta coppa
di benedizione e, quando tutti avevano bevuto, s’intonavano i salmi
da 114 a 117 e si beveva di nuovo.
Gesù
Cristo osservò queste cerimonie prima di donare se stesso
nell’Eucaristia; e, mentre i suoi cari mangiavano, disse loro, in
tono di profondo dolore, che uno di essi lo avrebbe tradito. Egli
voleva spingere Giuda al pentimento prima di istituire il sacramento
dell’Amore, e voleva che la stessa impressione di pena e di
sgomento, provata dagli apostoli a quell’annuncio, lo avesse
scosso. Ma Giuda non solo non si commosse, ma ebbe l’impudenza di
domandare se fosse lui quegli di cui parlava. Non credendo più nel
Maestro, suppose che qualcuno gli avesse svelato il tradimento e, per
assicurarsene e nello stesso tempo dissimulare, glielo domandò. Gesù
gli rispose con un cenno o con parole sommesse che era proprio lui,
in modo però che gli altri non se ne accorgessero. La sua immensa
carità non volle che fosse coperto di obbrobrio innanzi a tutti, e
che fosse stato oggetto di violenta reazione. Il suo amore avrebbe
voluto evitare che il traditore fosse stato presente al miracolo
grandissimo che stava per compiere; ma Giuda rimase, e uscì solo
dopo aver consumato il sacrilegio.
Gesù
si dona nell’Eucaristia.
Preso il
pane, il Redentore lo benedisse, lo spezzò, e lo diede ai suoi
discepoli, dicendo: Prendete
e mangiate, questo è il mio corpo. Dicendo
queste parole, transustanziò la sostanza del pane in quella del suo
Corpo, dandosi vivo e vero in quel mirabile cibo. Egli non parlò di
simbolo del suo Corpo, ma disse puramente e semplicemente che quel
pane era il suo Corpo, aggiungendo – come dice san Luca (22,19) –,
che era proprio il Corpo che si sarebbe offerto alla morte per la
salvezza di tutti. Dunque non si poteva equivocare in nessun modo.
Dopo il pane, distribuì il vino, transustanziandolo nel suo Sangue,
nel
sangue del nuovo testamento
che
doveva essere sparso per la remissione dei peccati di
molti,
cioè
di
tutti come
dice chiaramente il testo greco.
Gesù
soggiunse che non avrebbe più bevuto del frutto della vite, fino al
giorno in cui lo avrebbe bevuto nuovo
nel
regno del Padre suo. Con queste parole, volle dire apertamente che la
sua vita mortale era al termine, e volle promettere la risurrezione.
Egli non lo avrebbe più bevuto così come lo vedevano, ma risorto da
morte avrebbe bevuto con loro mentre si inaugurava il regno di Dio
sulla terra, come difatti avvenne nei quaranta giorni nei quali
dimorò fra gli apostoli dopo la risurrezione.
Cantato
l’inno,
cioè
i salmi da 114 a 117, Gesù si avviò al monte Oliveto per pregare.
Era mesto, e camminando con i suoi cari disse loro che essi, in
quella notte, si sarebbero scandalizzati di lui e sarebbero fuggiti
come pecorelle sbandate. Ecco la risposta che avrebbero dato a Lui
che con infinito amore si era donato loro nella Cena! Pietro protestò
che sarebbe stato pronto a morire, protestò anche dopo che Gesù gli
predisse che l’avrebbe rinnegato prima del canto del gallo, cioè
tre volte prima che si facesse giorno, protestò insieme a tutti gli
altri apostoli, ma la protesta non servì a nulla e, posto
nell’occasione, spergiurò persino di non conoscere il suo Maestro!
Deve
dirsi che l’umanità così ha risposto all’amore di Gesù
Sacramentato: rinnegandolo praticamente. Come può dirsi, infatti,
che si conosca Gesù, quando lo si riceve così raramente e così
male? Chi sa di avere Gesù Cristo presente realmente nei santi
tabernacoli, come può lasciarlo solo e abbandonato?
Oh, se si
gustasse un po’ quella vita profonda e silenziosa che si sente
dall’Ostia immacolata; se si dicesse una parola filiale e sincera
al Redentore, come si avvertirebbe la sua presenza, e come si
sentirebbe il bisogno di non abbandonarlo mai più! Non è un negare
Gesù innanzi al mondo il trattarlo così male nell’Eucaristia? Non
è un dire con Pietro: Io non lo conosco? La vita di un fedele – e
molto più di un sacerdote –, dev’essere una perenne confessione
del Mistero
di fede come
la Chiesa chiama l’Eucaristia.
L’orazione
nell’orto
Finita la
Cena, Gesù si avviò verso un orto chiamato Getsemani, cioè
strettoio d’olio, dove soleva raccogliersi per pregare. Doveva
essere di proprietà di qualche amico o discepolo, avendovi Egli
libertà di entrare. Per non contristare i suoi cari, li lasciò
all’entrata dell’orto e prese con sé soltanto Pietro, Giacomo e
Giovanni, raccomandando loro di vegliare con Lui che aveva l’anima
triste sino alla morte. Il testo evangelico è di una semplicità e
laconicità impressionante, ma quello che ci dice dell’agonia del
Signore lascia nell’animo un profondo senso di compassione, e ci
concentra nel mistero dell’ineffabile angoscia che Egli soffrì. In
quel momento si sentì gravato dai peccati passati, presenti e futuri
di tutto il mondo, e ne ponderò l’orrore. Tre volte si sentì
venir meno, e pregò il Padre che avesse allontanato da lui, se
possibile, quel calice amaro; tre volte perché tre volte fu oppresso
mortalmente: fu schiacciato sotto il peso dei peccati degli uomini,
sotto il peso delle agonie e dei dolori della sua Chiesa, e sotto
l’angoscia dei suoi imminenti tormenti. Quello che soprattutto lo
fece agonizzare fu l’offesa di Dio, della quale ponderava tutto
l’orrore, e l’ingratitudine umana verso tutte le grazie che Egli
stava per versare sulla terra. La ripugnanza poi della sua umanità
verso la morte fu come la sintesi e il concentrato di tutta la
ripugnanza umana verso il dolore e la morte, ed Egli sentì tale
agonia che – come dice san Luca (22,44) – sudò vivo sangue.
La stessa
agonia che soffrì gli fece fare il sacrificio di se stesso al Padre,
in un abbandono pieno alla volontà di Lui, di modo che la sua
offerta fu tale sublime immolazione che la povera mente umana non può
comprenderla. Egli fu veramente come stretto nel torchio; si sentì
come stirare e spezzare i nervi e il cuore, si sentì oppresso da
tenebre interiori spaventose, accresciute in Lui – come ci dicono i
santi mistici –, dalle violente incursioni di satana che tentava
distoglierlo col terrore dal suo sacrificio. In quest’agonia Egli
si sentì solo, poiché i suoi apostoli, presi dalla tristezza, e
forse per l’umidità stessa della notte, si addormentarono. Gesù
se ne lamentò specialmente con Pietro che pur gli aveva fatto tante
proteste d’amore, ma essi, lungi dal vigilare, erano sempre più
aggravati dal sonno. La terza volta che andò a svegliarli, Gesù
disse loro in tono di grande amarezza: Dormite
pure e riposatevi; ecco è vicina l’ora […] alzatevi andiamo.
Egli
volle dire loro che ormai era inutile ogni ulteriore vigilanza e non
c’era più tempo per la preghiera; il pericolo era imminente, il
traditore già veniva, non gli rimaneva che andare incontro alla
morte.
Gesù
Cristo sta nell’Orto della sua Chiesa e, nascosto nel suo
tabernacolo d’amore, prega e si offre al Padre. Là Egli continua
misticamente la sua agonia, e là vuole i suoi figli, perché veglino
e preghino con Lui. Quale dolore, per Gesù, vedere che i suoi figli
dormono nella notte dei loro peccati, e sognando le chimere del
mondo, lo dimenticano. Le grazie particolari che il Redentore dona a
quelli che vegliano con Lui intorno ai tabernacoli santi, e a quelli
che gli fanno compagnia nell’agonia del giovedì, mostra quanto
Egli abbia cara la nostra veglia amorosa.
Il mondo
congiura sempre contro di Lui; l’ingratitudine umana lo tradisce,
ed Egli cerca i cuori che possono consolarlo. Oh
se
vigilassimo con Lui, quante tentazioni vinceremmo, e a quali altezze
di perfezioni saliremmo! Noi crediamo cosa da nulla il poltrire nella
nostra accidia spirituale, eppure è proprio essa la causa del nostro
decadimento spirituale! Vigiliamo e preghiamo per contrapporci al
mondo che vigila per tramare insidie alla Chiesa, e siamo i suoi
difensori non con semplici promesse, ma con l’attività di un
profondissimo amore e di un ardente apostolato.
La
cattura di Gesù
Mentre
Gesù ancora parlava ai suoi apostoli, Giuda avanzò, e con lui, a
una certa distanza, una gran turba armata di spade e di bastoni,
mandata dal sinedrio. Il traditore avanzò verso Gesù e, secondo il
segnale che aveva dato, lo baciò per additarlo con sicurezza agli
sgherri. Quel bacio fu per il Redentore un dolore inconcepibile, non
solo perché menzogna spaventosamente crudele, ma perché fu come il
bacio datogli dal peccato stesso. Non si può misurare che cosa sia
stato il contatto della menzogna con l’eterna verità e del peccato
con l’infinita santità!
Gesù
Cristo non rifiutò il bacio di Giuda, anzi chiamò questi amico,
in
segno di misericordia, e gli domandò perché fosse venuto, per
fargli ponderare il passo che aveva dato. Forse, al contatto del
volto divino di Gesù e alle sue parole dolcissime, cominciò in
Giuda il sentimento di profondo rimorso che avrebbe potuto essere
pentimento mentre, per sua colpa, divenne disperazione. Egli non
resistette all’interrogazione soavissima del Maestro, e poiché gli
sgherri avanzarono per catturare la Vittima designata, fuggì,
errando per le valli, in preda a un’agitazione spaventosa.
Nel
vedere i manigoldi stringersi minacciosi intorno al Signore, Pietro
sfoderò una spada che aveva portato con sé proprio in previsione di
un pericolo notturno, e amputò l’orecchio destro di un servo del
principe dei sacerdoti. Non aveva saputo dargli amore, vigilando
nella preghiera, e pretese dargli aiuto, difendendolo. L’impeto che
ebbe fu una vera tentazione di satana, il quale, astutissimo com’è,
volle metterlo nella condizione di compromettersi con l’autorità e
di essere più facilmente spinto a rinnegare il Maestro.
Satana,
con quell’atto inconsulto di coraggio e di zelo, lo predispose al
peccato che stava per commettere, gli diede coraggio per ferire il
servo, e gli tolse il coraggio per confessare il Signore! Certo,
l’aver ferito il servo del principe dei sacerdoti comportava per
lui un compromesso penale, ed egli, quando si trovò di fronte alle
serve e ai circostanti che asserivano essere lui uno dei discepoli
del Redentore, negò ripetutamente perché temette di essere
coinvolto con Gesù Cristo, e di poter pagare la pena della ferita
fatta al servo del sacerdote. Gesù Cristo fece capire a Pietro
prima, e poi a tutti quelli che lo circondavano che quello che
avveniva era precisamente il compimento delle Scritture. Se Egli
avesse voluto impedirlo, lo avrebbe potuto, domandando al Padre, più
di dodici uomini, dodici legioni di angeli; ma doveva svolgersi ciò
che era stato predetto. Egli lasciava il corso alle libere volontà
umane, dominandole non con la forza ma utilizzando la loro stessa
perversità al compimento dei disegni del suo amore. Gesù Cristo non
volle dire che ciò che succedeva era fatale, ma che era stato già
predetto, e che costituiva, perciò, una parte del disegno divino che
si sviluppava fra le libere volontà degli uomini.
La
fuga degli apostoli
I
discepoli, che frattanto si erano radunati intorno a Gesù, attratti
dall’insolito fragore delle armi, visto che Gesù non si era difeso
né aveva permesso di difenderlo, presi dal panico, lo abbandonarono
e fuggirono. Fuggirono tutti,
senza
eccezione; solo Giovanni, poi, ritornò sui suoi passi e lo seguì, e
Pietro, dopo il primo sgomento, si mise dietro a Lui da lontano, per
vedere dove andassero a finire quelle violenze. Lo seguiva da
lontano perché
il suo cuore e la sua fede erano già lontani dal suo Signore; lo
seguì da lontano, proprio come quei cattolici senza vita e senza
coraggio che non sanno rendere testimonianza della loro fede, e
vogliono seguire il Re divino senza compromessi! Tutto l’amore
dunque che Pietro aveva detto di avere per Gesù, si era ridotto a
questo! Ma, dal seguire il Signore da lontano al rinnegarlo il passo
fu breve, e Pietro, dopo poco, giurò di non averlo mai conosciuto,
proprio quando il Maestro divino si appellava alla testimonianza dei
suoi discepoli!
Il
tribunale
di Caifa
Tutto il
processo, inscenato dai principi dei sacerdoti e dal sinedrio, era
semplicemente una formalità; essi, infatti, non cercavano la verità
ma i falsi testimoni, non indagavano sulle supposte responsabilità
del Redentore, ma volevano ad ogni costo disfarsene, pur serbando
un’apparenza di legalità. È impressionante pensare che gli stessi
falsi testimoni, prezzolati per mentire, non poterono accusarlo
verosimilmente, tanta era la sua santità, e poterono solo riportare,
falsandole, le parole che aveva dette, guardando il tempio. Egli,
infatti, non aveva detto di poter distruggere il tempio e
riedificarlo in tre giorni ma, parlando del suo Corpo, aveva detto ai
suoi nemici: Distruggetelo
voi, e io in tre giorni lo riedificherò.
La falsa
testimonianza, benché avesse deformata la verità, non era
sufficiente a pronunciare una sentenza di morte, e perciò il sommo
sacerdote, con diabolica malizia, interrogò solennemente Gesù
Cristo sulla sua divinità; lo
scongiurò, per il Dio vivente, di
dirlo, perché sapeva che Egli non l’avrebbe negato, e perché
sperava che, negandolo per timore, si fosse da se stesso sfatato. Dio
permise tanta malignità, perché volle che solennemente, innanzi al
sacerdote, dalla bocca stessa del Figlio suo fosse stata dichiarata
la verità.
Vi fu un
momento di silenzio nell’assemblea. Caifa fissava Gesù con uno
sguardo ipocrita e maligno, contento di averlo messo alle strette.
Gesù
s’illuminò di un insolito splendore di maestà, e rispose non solo
che Egli era il Figlio di Dio, ma che un giorno sarebbe ritornato
sulle nubi del cielo con grande maestà, per giudicare tutti e per
giudicare quelli che, in quel momento, presumevano di giudicarlo.
Caifa, a quella solenne dichiarazione, finse d’addolorarsi, si
lacerò le vesti, proclamò che Egli aveva bestemmiato, eccitò l’ira
dell’assemblea, lo fece dichiarare reo di morte e lo abbandonò
agli obbrobri
e alle percosse della canaglia.
In
quell’aula tenebrosa iniziò la lotta contro il Redentore; lotta di
calunnie e di persecuzioni che dura tuttora nel suo Corpo mistico,
specialmente oggi. Ma tutte le persecuzioni e gli obbrobri non
potranno mai distruggere la verità, e quando la nequizia umana avrà
raggiunto il culmine di ogni nefandezza, allora la divina giustizia
si manifesterà, il mondo sarà sconvolto dalle ultime tribolazioni,
e il Giudice eterno verrà a giudicarlo. Non ci scandalizziamo del
fugace trionfo degli empi; non ci uniamo al loro rauco coro,
mormorando della divina provvidenza; non ci uniamo a quelli che
rinnegano il Redentore ma confessiamo la nostra fede a fronte alta, e
piangiamo amaramente sui nostri peccati e sui tristissimi momenti che
attraversiamo. Preghiamo e vigiliamo con l’azione per tutelare
l’onore di Dio; preghiamo e confidiamo sospirando al regno del Re
d’Amore, preghiamo e uniamoci, con la vita veramente cristiana,
alla confessione del Redentore che i martiri fanno col loro sangue!
Il
consiglio
del sinedrio e la disperazione di Giuda
Un
giudizio e una condanna fatti di notte erano legalmente nulli, perciò
il sinedrio, appena fattosi giorno, si radunò nuovamente per
ripetere sommariamente il giudizio, e per stabilire il genere di
morte che voleva dare al condannato Gesù. I Romani avevano lasciato
ai Giudei una certa indipendenza nei giudizi che riguardavano la loro
legge religiosa, e perciò Caifa maliziosamente aveva scongiurato
Gesù in nome di Dio di dire se Egli era il Cristo, il Figlio di Dio,
per condannarlo come bestemmiatore, e non uscire dal campo
strettamente religioso. Egli sperava, così, di avere più
facilmente, da Pilato, la sanzione della sentenza.
Durante
il processo, com’era costume, Gesù fu
slegato
e, quando fu
dichiarata
la sentenza di morte, fu
di
nuovo legato e condotto così dal governatore romano, senza del quale
nessuna sentenza capitale poteva aver corso.
Con
quanta ira e con quanto disprezzo quei giudici iniqui trattarono il
Redentore!
Lo
abbandonarono prima, tutta la notte, ai maltrattamenti e agli scherni
della plebaglia e dei soldati che lo custodivano e, coperto di
sangue, di sputi e di obbrobrio, lo trascinarono attraverso le strade
pubbliche al pretorio, volendo così sfatare il prestigio che Egli
aveva sul popolo. In
pochi
giorni si era cambiato l’atteggiamento della moltitudine che prima
l’aveva accolto trionfante e, al grido di benedizione: Benedetto
Colui che viene nel nome del Signore,
era
subentrato quello di morte: Sia
crocifisso.
Eppure
quella massa di gente, che così gridava, era stata, per la maggior
parte, ricolma di benefici spirituali e temporali dal Redentore, e
gli era corsa dietro tante volte, con un
amore
che sembrava incrollabile!
È
terribile! È per noi disgustante considerarlo, eppure così sono
tante volte gli uomini, così siamo stati noi cento volte col Re
divino! In
un
momento
di fervore l’abbiamo benedetto, accogliendolo in trionfo, e in un
momento
di tenebre, nel contrasto di qualche nostro interesse o di qualche
passione malsana, lo abbiamo rigettato, e con la colpa lo abbiamo
tante volte crocifisso nel nostro cuore!
Giuda non
poté rimanere indifferente alla sorte del suo Maestro, e dovette
informarsi dell’esito del processo. Forse si aggirò intorno alla
casa del sacerdote, sperando sempre in qualche colpo di scena
provocato dal Signore. Aveva perso la fede in Lui, ma non aveva
potuto dimenticare le cose mirabili che aveva visto in tre anni;
riguardava Gesù come un
profeta
fallito, ma inconsciamente credeva ancora che avesse potuto
sgominare, con un
prodigio,
i suoi avversari. Lo credeva e lo sperava, perché già il rimorso
gli saliva nel cuore come una marea soffocante. Egli aveva pattuito
con i sacerdoti il tradimento ma era rimasto scontento anche della
ricompensa avuta, poiché si aspettava e aveva sognato una grande
ricchezza per quel colpo di mano. Vedendosi ricompensato solo col
prezzo di uno schiavo, s’era adirato contro il sinedrio, e
auspicava che fosse stato confuso da Gesù con un atto di potenza.
Forse gli rimaneva ancora un amore naturale verso il Maestro divino,
non potendo dimenticare certi ineffabili momenti di vita spirituale
passati con Lui; perciò, quando lo vide passare tra gli sgherri,
coperto di sangue e di sputi, insultato, malmenato, vilipeso, eppure
placido e rifulgente di bontà; quando vide che andava verso il
pretorio, e che dopo poco sarebbe stata ratificata la sentenza di
morte, fu preso da grande disperazione.
Non
riacquistò la fede in Gesù, non lo credé Figlio di Dio, ma lo
compassionò come un buon uomo, innocuo e pacifico che non meritava
quel trattamento; si sentì sconvolto dal rimorso di averlo
consegnato in mano a gente così scellerata; pensò di poterlo far
liberare ritrattando il suo turpe contratto, e corse dai principi dei
sacerdoti, dicendo: Ho
peccato, avendo tradito il sangue innocente. Nel
tradirlo e venderlo ne aveva detto certamente gran male, perché
aveva voluto, in qualche modo, giustificare il suo vile mercato; al
suo animo sconvolto dai pensieri dell’orgoglio e dell’interesse
insoddisfatto, Gesù era apparso spregevole ma, il vederlo condannato
a morte, gli faceva nascere nel cuore il rimorso di averlo accusato e
denunciato ingiustamente, e perciò lo proclamò innocente di quello
che poteva meritare la morte: Ho
peccato, avendo tradito il sangue innocente. Se
si fosse interamente ricreduto sul conto del Redentore, sarebbe
andato, prima di tutto, a gettarsi ai suoi piedi; non lo fece perché
volle seguitare a non credergli, e pensò solo d’intervenire per
impedire che fosse trascinato a morte.
Nel suo
orgoglio aveva voluto persuadersi di aver reso un servigio alla causa
d’Israele tradendolo, cioè facendo cessare, secondo lui, un
insieme d’ingenuità sognatrice e d’inganni; s’illudeva d’aver
avuto importanza presso i sacerdoti, e andò da loro per far valere
la sua incompleta ritrattazione. Il modo sprezzante col quale fu
accolto finì di sconcertarlo e di gettarlo nella disperazione. Essi
mostrarono di essersi serviti di lui semplicemente come di un
manutengolo che non importava loro il suo nuovo orientamento verso il
Signore, essendo affare che riguardava lui. La sua rettifica, del
resto, era una condanna del loro operato, perché, come giudici,
avrebbero dovuto constatare l’innocenza del condannato, e questo
accrebbe il loro dispetto nel rispondergli.
Giuda si
sentì sconvolto da quella risposta sprezzante, andò al santuario e
vi gettò per terra le monete ricevute; corse come forsennato per la
valle della Geenna; fu assalito certamente da violentissime
tentazioni diaboliche e, trovato un albero, vi passò un laccio,
forse la sua stessa cintura, e s’impiccò. Negli Atti degli
Apostoli (1,18) è detto che gli si aprì il ventre e si sparsero
tutte le sue viscere; questo avvenne certamente perché, spezzatosi
il ramo dal quale pendeva, sbatté contro le pietre col ventre già
rigonfio per la morte violenta.
Questa fu
la fine del traditore, fine disperata che lo condusse alla perdizione
eterna!
La
rovina spirituale non viene in un momento…
Giuda
aveva avuto grazie immense stando vicino a Gesù; aveva anche fatto
miracoli, quando fu mandato con gli altri apostoli a preparare il
campo al Signore; aveva ascoltato la parola di vita, ma non ne aveva
fatto profitto anzi, al suo intelletto turbato, era apparsa persino
un insieme di frottole. Si era fatto dominare dal proprio giudizio,
dalla propria volontà, dalla propria brama di vantaggi temporali,
non aveva ascoltato i rimproveri e le esortazioni di Gesù e, per
attanagliarsi maggiormente ai propri giudizi, s’era chiuso in un
mutismo strano, ed era caduto fino al fondo dell’abisso!
La
perdizione di un’anima non viene in un momento, ma procede a gradi;
satana, nell’accalappiarla, fa come il serpente che tira a sé
l’incauto uccello. L’animaletto si lascia prendere dal bagliore
ipnotizzante di quegli occhi, e non sa staccarsene; dimentica di
avere le ali, e diventa preda dell’insidioso. Così avviene
all’anima incauta: il serpente l’ha nel suo stesso intelletto;
comincia a farsi affascinare da false luci, diventa critica e
ipercritica sulle cose divine, dà importanza ai propri pensieri, non
vede che in se stessa, non ascolta consigli, anzi reagisce agli
stessi consigli dell’obbedienza, si crede vittima d’inganni, vede
la sua via come oppressione e infelicità, la provvidenza del suo
dolore e delle sue prove come una fatalità, si lascia trascinare in
un’atmosfera naturalistica, nella quale le passioni germinano come
in proprio ambiente, si allontana dalla preghiera e dai Sacramenti,
concepisce un certo senso di noncuranza e persino di disprezzo per i
mezzi di salute, e cade nel fondo della perdizione!
Bisogna
vigilare attentamente sui primi movimenti di dissesto dell’anima e,
invece di allontanarsi da Gesù, bisogna ricercarlo con maggiore
ardore, attaccandosi a Lui con amore vivo e immolandosi nel
compimento della divina volontà. Quello che ci agita non viene da
Dio, ma dal maligno, e l’orgoglio maledetto è il tristissimo
frutto che satana fa spuntare nel cuore che vuol affascinare.
Umiliamoci, preghiamo, lasciamoci guidare dai sacerdoti, confidiamo
in Dio, viviamo nel cammino della croce, e guardiamo con sospirato
amore alla Meta eterna!
L’eredità
del traditore
I
principi dei sacerdoti raccolsero le monete gettate da Giuda, ma non
vollero metterle nel tesoro del tempio, essendo prezzo di sangue. Era
proibito offrire al Signore denaro di cattivo acquisto, ed essi,
senza volerlo, venivano a confessare la turpitudine del patto
stipulato con Giuda. È evidente, poi, che, non volendolo riporre nel
tesoro, essi l’avevano rilevato di là, quasi spesa fatta per
liberare la religione dalle insidie di un seduttore. Stabilirono,
quindi, di comprare il
Campo del vasaio,
cioè
un piccolo appezzamento di terreno situato a sud di Gerusalemme, sul
versante meridionale della valle di Ben-Hinnon
che
era stato sfruttato da un vasaio, ed era posto in vendita; questo
campo, acquistato con denaro immondo, fu adibito ad un uso riguardato
da essi immondo, cioè alla sepoltura dei forestieri. Esso fu
chiamato dall’aramaico: Aceldama,
cioè
Campo
del sangue,
e
rimase come monumento inalienabile del tradimento di Giuda e delle
loro perversità. Un campo venduto come sepolcreto, infatti, non
poteva ritornare più al padrone neppure in occasione del Giubileo, e
rimaneva sempre adibito a quell’uso, come terreno immondo.
L’evangelista
soggiunge che, con quella compra, si avverò ciò che era stato
predetto dal profeta Geremia, e cita il testo della profezia. Questo
testo non si trova né in Geremia né in Zaccaria, e perciò doveva
far parte di qualche profezia di Geremia non giunta fino a noi, come
crede lo stesso san Girolamo, il quale attesta di averlo letto in un
libro apocrifo che lo riportava. A noi sembra che questa sia la
spiegazione più semplice e più naturale, perché i Testi di Geremia
e di Zaccaria, ai quali si riportano alcuni, non parlano
dell’acquisto del campo del vasaio fatto
col prezzo dell’apprezzato dai figli d’Israele. In
Geremia
(32,7.8)
si parla dell’acquisto di un campo di Anatot, fattogli fare dal
Signore per annunciare che ancora si sarebbe venduto e comprato, in
Israele, e in Zaccaria si parla dei trenta denari dati come mercede
del ministero del profeta (11,12-13). Ora è chiaro che questo prezzo
non poteva essere annuncio di quello dato a Giuda, perché il
traditore lo ricevette come ricompensa del proprio misfatto, non come
apprezzamento del ministero di Gesù Cristo.
I
sacerdoti non pensarono ad apprezzare neppure con una moneta
spregevole un ministero che essi non solo non riconoscevano, ma che
stimavano un’insidia per la religione.
Giuda,
dunque, che aveva sognato grandezze e ricchezze temporali, e che per
questi sogni si era reso infedele al suo Maestro e l’aveva tradito,
non raccolse dal suo tradimento che la morte disperata, e non lasciò,
come eredità del suo delitto, che un campo di morte!
Questa è
l’eredità di chi tradisce il Signore per aspirare alle vane
illusioni della vita materiale e peccaminosa: disperazione e morte
desolata! Cerchiamo Dio solo, e nelle tribolazioni della vita
solleviamo a Lui il nostro cuore, sospirando alla Patria eterna! La
sete dell’interesse e del denaro può distruggere in noi ogni santa
aspirazione, e può abbrutirci fino all’estrema degradazione.
Diamoci a Dio con tutta l’anima, e sulla terra teniamo fisso il
cuore al Calvario che è la via maestra che ci conduce alla felicità
eterna.
Gesù
Cristo innanzi
a
Pilato
I Romani
erano soliti amministrare la giustizia per le cause criminali allo
spuntare del giorno, e i principi dei sacerdoti, dopo aver condannato
il Redentore, lo condussero a Pilato per la ratifica della sentenza.
Accortisi però che il preside romano non era per nulla disposto a
sottostare alle loro pressioni – come si rileva dal Vangelo di san
Giovanni –, presentarono la causa sotto l’aspetto politico e
accusarono il Redentore di sedizione, come colui che si era
dichiarato Re.
Gesù era
tutto sfigurato dai maltrattamenti della notte, ma il suo aspetto
aveva una singolare maestà che incuteva rispetto; Pilato, vedendolo
credé di avere davvero, davanti a sé, il Re spodestato dai Giudei,
e glielo domandò. Dal modo come lo aveva interrogato, i principi dei
sacerdoti capirono che era stato favorevolmente impressionato da Lui,
e perciò cominciarono ad accusarlo in tutti i modi, per distruggere
quella buona impressione. A quelle accuse, Gesù non rispose nulla.
Che cosa
avrebbe potuto rispondere a calunnie architettate appositamente per
condannarlo?
Avrebbe
dovuto spiegare innumerevoli cose, delle quali nessuno avrebbe potuto
intendere il vero significato, avrebbe parlato invano, perché i suoi
nemici erano già decisi a sopprimerlo; Egli, dunque, tacque. Ma nel
suo silenzio, quanta dignità, quanta maestà, quanta eloquenza
d’amore che non sfuggì, inconsciamente, al preside, e suscitò in
lui una grande meraviglia.
Egli era
abituato ai clamorosi dibattiti dei processi criminali e, specie
quando gli si portava a ratificare una sentenza di morte, sapeva, per
esperienza, quanto il condannato gridasse e cercasse difendersi con
tutte le sue forze; ora, invece, si trovava di fronte ad una calma
maestosa, serena, amorosa e paziente che gli suscitava stupore
grandissimo.
Quel
silenzio, poi, era la più eloquente affermazione d’innocenza, e
faceva un contrasto vivo con l’irruente odio dei sacerdoti, i
quali, nel loro stesso modo di parlare, si svelavano, e manifestavano
l’invidia che li ossessionava.
Il popolo
assisteva con grande curiosità, come suole avvenire in simili
circostanze, ma taceva; Pilato credé di capire che non c’era
identità di vedute tra la moltitudine e i sacerdoti, e pensò di
rendere vana la trama della congiura, appellandosi al popolo, e
liberando il prigioniero con un atto di clemenza che di per sé
avrebbe troncato il processo.
Durante
le feste di Pasqua, in memoria della liberazione del popolo dalla
schiavitù, si soleva liberare un carcerato, a richiesta di popolo; i
Romani avevano mantenuto questa antichissima usanza. Ora si trovava
imprigionato un pessimo soggetto, chiamato Barabba che significa:
figlio
del padre e,
secondo alcuni codici, Gesù Barabba; era un delinquente pericoloso e
prepotente che in una sedizione aveva commesso un omicidio, ed era in
attesa della condanna capitale. Pilato pensò che per far liberare
Gesù, da lui già conosciuto come benefattore del popolo, e che era
tutto mansuetudine e carità, sarebbe bastato proporlo alla
moltitudine, per la rituale liberazione, di fronte a Barabba,
ladrone, sedizioso e omicida.
L’avviso
della moglie di Pilato
Pilato
fece la proposta al popolo, e attese che avesse risposto. Mentre,
attendeva, la moglie gli mandò a dire che non s’impicciasse di
quel
giusto,
perché essa aveva avuto molti sogni penosi a causa di Lui. Non
sappiamo di qual natura siano stati i suoi sogni né si può dire che
siano venuti da Dio. Molti lo suppongono, ma altri credono che siano
stati una suggestione di satana, il quale, sospettando in Gesù il
Redentore promesso, avrebbe voluto impedirne la morte. Secondo questa
opinione, l’arcana pazienza del Signore convinse satana della
missione di Lui, e cercò impedirne il compimento; quando vide vano
il suo sforzo, allora irruppe in tutta la sua ira, per tentare almeno
di vendicarsi.
Giudice
il popolo, Pilato se ne lava le mani
Pilato
non diede troppa importanza alle parole della moglie, perché credeva
ormai di aver trovato il modo di uscire d’impaccio; non aveva
pensato alla malignità dei sacerdoti, degli scribi e farisei che non
aveva confine; questi, col denaro, comprarono il voto del popolo, e
lo indussero non solo a domandare la liberazione di Barabba, ma a
pretendere la morte di Gesù.
Finché
il popolo avesse chiesto la liberazione del ladro sedizioso e
omicida, sarebbe stata un’enormità, ma non un assurdo, dato che il
popolo poteva scegliere; ma domandare a gran voce la morte di un
innocente, proprio nella solennità della liberazione, a Pilato
sembrò tale mostruosità che non seppe trattenersi dal dire con
forza: Ma
che ha fatto Egli di male? Prima
aveva detto: Che
cosa
dunque farò di Gesù, chiamato il Cristo?, per
indurre il popolo a riflettere alla richiesta che faceva; in seguito
ne proclamò apertamente l’innocenza, e quasi chiamò la
moltitudine a giudicare con lui.
Avrebbe
dovuto imporre la sua sentenza, anzi avrebbe dovuto punire i falsi
testimoni, ma non ne ebbe il coraggio. Il popolo aveva gridato,
erigendosi a giudice, ed egli, quasi esautorandosi, aveva mostrato di
non poter contraddire quel giudizio; ricorse perciò ad un gesto che
doveva esprimere il suo disinteressamento, e si lavò pubblicamente
le mani, dicendo che egli era innocente del sangue di quel giusto.
Nel Deuteronomio (21,6) è prescritto ai sacerdoti di lavarsi le
mani, per attestare di non aver preso parte all’uccisione di un
uomo, trovato morto; forse Pilato s’ispirò a questa cerimonia alla
quale aveva dovuto assistere molte volte, ma non rifletté che, con
questo, si dava in balìa del popolo che da lui solo reclamava la
sentenza di morte, e di morte di croce.
Tutta la
moltitudine gridò come un solo uomo, invocando che il Sangue di Gesù
cadesse su di essa e sui suoi figli, e non si accorse che, con
questo, reclamava da Dio la sentenza di un terribile castigo, poiché
al Signore, certo, non poteva essere nascosta la maligna intenzione
che esso aveva nel reclamare la morte dell’Innocente.
In
Pilato, la “giustizia” degli uomini
Pilato
era come la rappresentanza di tutte le ingiustizie che i giudici
avrebbero consumate nel corso dei secoli. Di carattere debole,
servile e opportunista, cercò di difendere l’innocenza in modo da
non compromettere se stesso; cedette per
timore,
e credé di aver provveduto sufficientemente alla sua coscienza,
lavandosi le mani. Gesù Cristo subiva e riparava e, sottomettendosi
all’ingiustizia, consolava, in tutti i secoli, gli innocenti
condannati dalla malignità umana.
Quante
volte l’anima nostra, ascoltando il grido delle passioni, e cedendo
alle loro pretese, condanna Gesù alla morte nel suo cuore!
Preferisce a Lui la degradazione, la miseria, l’impurità, la
violenza e si priva della sua dolcissima grazia!
Quante
volte, nella società umana, quelli che governano si lasciano
trascinare dalle correnti diaboliche delle sette, e manomettono i
sacrosanti diritti di Dio e della Chiesa! Non si rifiuta Gesù Cristo
senza condannarlo, ed è impossibile rimanere neutrali o indifferenti
innanzi a Lui. Chi
si lava le mani,
disinteressandosi
della sua gloria e dei suoi diritti, li rinnega, li manomette e li
conculca. È necessario acclamare Re Gesù Cristo, e vivere della sua
vita e del suo amore, condannando il male e le suggestioni diaboliche
che tentano di separarci dal suo amore!
Gesù
flagellato
Pilato,
prima di abbandonare Gesù definitivamente al popolo perché fosse
crocifisso, lo fece flagellare, nella speranza di soddisfare la furia
sanguinaria di quelli che ne reclamavano la morte. La flagellazione
era un supplizio crudele: si legava il paziente ad una bassa colonna,
affinché fosse costretto a star curvo e con la pelle bene distesa, e
lo si percuoteva aspramente con le verghe o con i flagelli che erano
funi di cuoio, terminanti con pezzi di osso o con palle di piombo. I
colpi avrebbero dovuto essere limitati, ma praticamente non era così,
specie quando la flagellazione precedeva l’esecuzione di una
sentenza capitale.
Per Gesù
fu asprissima, perché i sacerdoti, avendo capito che il governatore
l’avrebbe voluto liberare, dovettero certamente aizzargli contro i
soldati e forse li pagarono, perché il supplizio fosse stato
mortale.
Come
furie, i manigoldi si gettarono addosso al mansuetissimo Agnello, ed
Egli fu, in breve, tutto inondato di sangue. La sua pena immensa
riparava le impurità della carne, le immodestie e le nudità, ed
Egli volle come ammantarsi di un paludamento di obbrobrio e di
dolore!
Oh, se si
capisse la gravità di certi peccati, e anche di certe semplici
immodestie, non si avrebbe il coraggio di unirsi alla crudele masnada
dei flagellatori di Gesù! Tu, o anima cristiana, flagelli il
Redentore nel tuo medesimo corpo, mostrandoti agli altri per vanità,
e così inveisci contro Colui che tanto ti amò! A che serve
mostrarti? Che cosa ricavi dallo sguardo impuro che si ferma su di
te? E come hai il coraggio di essere pietra di scandalo per tanti che
per te dimenticano gli eterni beni del Cielo? Tu, illudendoti, dici
che ciò che è bello deve mostrarsi, e non rifletti che non è
bellezza ma orrore mostrare la materia ornata di gemme, e nascondere
agli sguardi altrui la bellezza spirituale, anzi mostrarla agli occhi
di Dio, tutta deturpata e avvilita!
La
coronazione di spine
La
flagellazione di Gesù Cristo ebbe luogo in pubblico, davanti al
palazzo del pretorio; i soldati, ascoltando le grida d’insulto che
la moltitudine lanciava contro il Redentore, e specialmente quelle
dei sacerdoti che volevano sfatarne ogni prestigio, pensarono
diabolicamente di parodiarlo nella regale dignità che tutti gli
rimproveravano di essersi attribuita. Lo trascinarono nel pretorio,
cioè nell’interno del palazzo del governatore dov’erano di
guardia e, radunata tutta la coorte, ossia i cinque o seicento uomini
della guardia, lo spogliarono della veste che gli avevano rimessa
dopo la flagellazione, e gli misero addosso una clamide rossa di
soldato come un manto reale; quindi, intrecciata con giunchi una
corona di lunghe e acutissime spine, gliela calcarono sul capo, in
modo da ferirlo orribilmente e, come scettro, gli posero nelle mani
una canna. Era uno spettacolo terribile, poiché quei barbari si
divertivano a schernirlo, a sputargli addosso, e a percuotergli il
capo violentemente con la canna, mentre tutta la coorte sghignazzava,
mai sazia di tormentarlo gli dava la muta nello schernire il Re
divino!
E Gesù
taceva, pregava e riparava per i peccati dei capi e dell’orgoglio
dei potenti! Subendo quell’obbrobrio spaventoso Egli ridonava
all’uomo la corona della sua dignità e, nel medesimo tempo, si
coronava Re d’Amore in tutti i secoli. Se si riflette bene, non c’è
altra corona che sia per Lui più regale di quella di spine. La
corona d’oro e di gemme quasi non gli sta, e quasi lo diminuisce;
coronato di spine, invece, è bellissimo, è attraente, è pieno
d’ineffabile dolcezza che commuove anche i cuori più ostinati.
Egli,
poi, ci ha comunicato la bellezza ineffabile del suo dolore, poiché
ogni umiliazione, sofferta per suo amore, e ogni obbrobrio, raccolto
per Lui, ci rende coronati di una gloria che nessuna corona regale
potrebbe darci.
Caricato
della croce
Dopo
averlo schernito lungamente per circa due ore, in attesa dei
preparativi della crocifissione, lo rivestirono di nuovo della sua
veste e lo trascinarono al Calvario. Gli lasciarono la corona di
spine, certamente, perché fu ritrovata sul Calvario da sant’Elena
insieme alla croce, e lo caricarono del grave peso della croce, come
si era soliti costringervi ogni condannato. Lungo la strada,
temettero che venisse meno per i gravissimi maltrattamenti subiti, e
costrinsero un uomo robusto di Cirene che passava di là, a prenderla
per un tratto di strada sulle sue spalle.
Tutto
sembrava un avvenimento di comune condanna, e le sue circostanze
sembravano fortuite; eppure Gesù Cristo segnava, col suo Sangue
preziosissimo, la nuova via che l’umanità doveva percorrere: Egli
porta la croce redimendoci, e noi dobbiamo portarla dietro a Lui,
compiendo in noi quello che manca della sua Passione. Se non fosse
andato Lui avanti, con quale cuore avremmo noi percorso il nostro
duro cammino! E se il Cireneo non lo avesse aiutato, non avremmo
imparato a portare la nostra croce giornaliera e quelle più gravi
che ci capitano, dietro al nostro dolcissimo Signore.
Chi si
illude che la vita sia un cammino di gioie materiali, e si getta
negli abissi della colpa, si accorge ben presto di percorrere un
Calvario più penoso, e va insieme con Gesù come ci andavano i ladri
condannati alla medesima pena infamante.
A volte
si cade sotto il peso della croce come cadde Gesù, e si stenta a
riprendere la via senza un aiuto particolare; ricorriamo a Gesù per
sollevarci, e abbiamo la carità di aiutare chi soffre a sopportare
con pace maggiore il suo dolore. Una parola di bontà è balsamo nel
dolore e lo è soprattutto l’immedesimarci delle pene altrui come
se fossero nostre; l’anima non è tanto desiderosa di aiuti
materiali, quanto di soccorsi spirituali, e bisogna consolarla prima
di tutto con la dolcezza della bontà e della carità.
Crocifisso
Gesù
Cristo, strapazzato, insultato e vilipeso in tutti i modi, giunse su
di una piccola collina a nord-ovest di Gerusalemme, chiamata Calvario
o Golgota, perché aveva la forma di un cranio decalvato; là
venivano giustiziati i condannati più pericolosi, affinché la loro
morte fosse servita di esempio agli altri. A quelli che dovevano
essere crocifissi si dava a bere una miscela di vino e di mirra, per
inebriarli e rendere loro meno penoso il supplizio. Il Testo latino
dice che a Gesù diedero a bere vino
mescolato col fiele,
ma
nel testo greco la parola tradotta in latino per
fiele,
ha
il significato generale di bevanda amara; san Marco dice
esplicitamente che gli diedero da bere del vino mirrato
(15,23).
La bevanda, per quanto amara, non era disgustosa, anzi era bevuta
avidamente dai condannati, consci della terribile crudeltà del loro
supplizio. Gesù Cristo l’assaggiò soltanto e non volle berla, per
conservare in pieno la sua sensibilità e la sua coscienza, e
soffrire maggiormente per nostro amore. Oh, com’è grande questo
gesto d’amore sconfinato, e quale vergogna deve fare a noi che
misuriamo sempre con estrema grettezza quello che diamo al Signore!
Spogliato
violentemente delle vesti, Gesù venne conficcato alla croce. C’erano
tre forme di croce; la
decussata,
in
forma di X, la
commissa in
forma di T, e l’immissa
in
forma .
Siccome sul capo di Gesù fu appiccata la tabella con la condanna, è
evidente che la sua croce era immissa.
Al centro
della croce ordinariamente c’era un piolo o cavalletto, per
sostenere il corpo del condannato quando veniva crocifisso sulla
croce già eretta e infissa al suolo. Non risulta che la croce di
Gesù abbia avuto questo piolo, perché fu crocifisso a terra e poi
sollevato in alto. Da studi recentissimi fatti sulla sacra Sindone di
Torino, dov’è impresso il Corpo del Redentore, si è potuto
rilevare con certezza come Egli fu crocifisso. I chiodi delle mani
furono confitti fra la prima e la seconda linea degli ossicini, là
dove i forti tendini anteriori e posteriori del polso congiungono gli
ossicini del corpo, quasi in un’unica massa, e dove ha origine un
robustissimo legamento che potrebbe sostenere tutto il peso del
corpo. Il chiodo, introdotto sotto il lembo inferiore di questo
tendine, attaccava la mano in modo irremovibile, e ne rendeva
impossibile l’asportazione sia casuale che volontaria.
Come è
risultato da un’esperienza fatta su una mano amputata di fresco, il
chiodo, penetrando così, non scalfiva neppure le ossa. I piedi
vennero forati nel secondo intervallo, alla base delle ossa del
metatarso, proprio sotto il malleolo, nel mezzo della convessità del
piede. Dalle impressioni della sacra Sindone si rileva
scientificamente che i piedi vennero prima forati, e poi sovrapposti
e trapassati da unico chiodo. La gamba destra venne fortemente
stirata e la sinistra si piegò leggermente al ginocchio, apparendo
sulla Sindone più corta di 3 o 4 centimetri della destra. Il chiodo
dei piedi, più lungo di quelli delle mani, dentellato nelle coste
laterali, si conserva a Napoli nella Chiesa di san Gregorio Armeno.
Spogliato
delle vesti per essere crocifisso, apparve in tutta la sua crudeltà
lo scempio che s’era fatto del Corpo del Redentore nella
flagellazione e nella coronazione di spine.
Nei
deprecati tempi del modernismo si tentò di sminuire la grande
testimonianza dell’amore di Gesù nella sua Passione, ma le
cervellotiche asserzioni vennero smentite dallo studio accurato della
sacra Sindone, dopo che fu possibile fotografarla nel 1898, e lo
studio scientifico condusse alla più luminosa conferma del racconto
evangelico. Stando all’accurato esame che se ne è fatto, il capo
di Gesù fu coronato da una calotta di spine che lo trafissero,
perforando le vene e le arterie, senza molta lacerazione esterna, ma
con molta penetrazione interna. La corona di spine ferì maggiormente
il capo nella parte posteriore e propriamente nella zona della nuca,
e questo ci fa intendere che Gesù fu crocifisso con la corona di
spine, e fu crocifisso a terra; il peso del capo e i colpi del
martello che lo fecero rimbalzare sul tronco laterale confissero
penosissimamente le spine in tutta la zona posteriore del capo, si
riscontrano maggiori grumi di sangue a sinistra della zona della
nuca, il che ci può far supporre che Gesù, nell’essere
crocifisso, aveva il capo rivolto al cielo, inclinato indietro sul
lato sinistro.
I
rigagnoli di sangue lasciati dalla corona di spine sul capo del
Redentore e impressi nella Sindone confermano, in modo irrefutabile,
che Egli fu crocifisso con quella corona perché, se gli fosse stata
tolta, il sangue si sarebbe fuso in un unico ammasso.
La
guancia destra era gonfiata notevolmente per i colpi ricevuti, il
volto era sfigurato dalle percosse e dagli sputi, le labbra erano
gonfie. La spalla destra, in confronto della sinistra, era abbassata,
come si osserva nella Sindone, con solchi e ferite prodotte da
schiacciamento di un corpo pesante, testimonianza della croce da Lui
portata su quella spalla, del peso di circa un quintale che aveva
dovuto sostenere. Su quella spalla s’era formata una dolorosissima
piaga. Solo chi non ha visto la Sindone potrebbe dire che i colpi
della flagellazione furono limitati. Il Corpo era tutto striato di
colpi crudeli e di piaghe, cominciando dal petto; il ventre, le mani,
i fianchi, le gambe, e dietro le spalle la schiena, le reni e i
muscoli del bacino, tutto era solcato da innumerevoli ferite, alcune
delle quali, specialmente quelle sulle cosce, erano disposte a
ventaglio. Queste ferite s’intrecciavano, s’incrociavano, si
sovrapponevano, in modo da non lasciare parte sana, e da testimoniare
che i colpi erano stati innumerevoli e rinnovati continuamente. Tra
le piaghe spiccavano – e spiccano tuttora sulla Sindone –, a due
a due, ferite di tre centimetri di lunghezza, inferte con
straordinaria ferocia; se ne contavano circa 80, e corrispondevano ai
quaranta colpi dati col flagrum
romanum
che
aveva due palle di piombo, riunite da una corta sbarra, dove si
attaccava la striscia di cuoio che partiva dall’impugnatura. Il
flagello aveva due strisce di cuoio, e non solo strappava la pelle,
ma lacerava i muscoli e scopriva le costole e le ossa. Gesù non
aveva ricevuto solo i 39 o 40 colpi della legge, ma i carnefici si
erano accaniti contro di Lui, fino a formargli veramente una veste di
sangue. Così apparve sul Calvario nella sua nudità lacrimevole, e
così fu crocifisso!
Quale
cuore dato al peccato, e specialmente all’impurità, non si spezza,
pensando a tanti dolori inauditi? E chi non s’infiammerà d’amore,
pensando all’amore infinito che Gesù Cristo ci ha portato? Come si
può ardire di correre dietro alle lusinghe della carne, quando si
vede Gesù ridotto in tale stato?
Le
derisioni dopo la crocifissione
Per
legge, le vesti del condannato spettavano ai carnefici, i quali se le
dividevano; perciò i quattro soldati, che avevano crocifisso Gesù,
presero le sue vestimenta, e gettarono la sorte sulla tunica
inconsutile per non romperla.
Poi si
misero a fare la guardia militare al condannato e a due ladroni che
frattanto erano crocifissi con Lui. Sulla parte sporgente della
croce, in alto, fu posta una tavoletta di legno sulla quale, invece
del motivo della condanna, Pilato scrisse in tre lingue: ebraica,
greca e latina che quel crocifisso era il Re dei Giudei. Quella
scritta contrariò non poco i nemici di Gesù Cristo, i quali videro
in essa quasi una sfida alla loro malignità; perciò, non potendo
ottenere da Pilato che l’avesse rimossa, cominciarono a schernire
il Crocifisso, e tentarono di far passare come una suprema ironia
quel titolo.
I soldati
o quelli che avevano sentito dire nel processo la calunnia sulla
distruzione del tempio, schernirono Gesù su ciò, esortandolo a
salvare se stesso dal supplizio che gli era stato inferto. I principi
dei sacerdoti, volendo sfatare la soprannaturalità dei miracoli da
Lui compiuti, affermarono che Egli, che aveva salvato gli altri, non
poteva ora salvare se stesso. Con raffinata malizia, vollero far
notare che Dio non lo aiutava in quel supremo momento, nonostante
Egli avesse detto di confidare in Lui e di esserne amato; questo,
secondo loro, era la dimostrazione che Egli non era Figlio di Dio, e
per far risaltare tale conclusione, lo sfidarono a dare la prova
della sua divinità, scendendo dalla croce. Lo stesso dicevano i
ladroni esasperati di non vedere un miracolo di liberazione, nel
quale forse avevano sperato di essere beneficati anch’essi. Gesù
non discese dalla croce perché vi era salito per salvarci, e ai
ladri rispose con una speciale illuminazione di grazia che fu
raccolta solo da uno di essi. Il Padre rispose, però, alla
tracotanza degli schernitori, e fitte tenebre avvolsero tutta la
terra da mezzogiorno alle tre, seminando tra essi principalmente il
terrore.
La
Morte
Il Cuore
di Gesù era stato soprattutto ferito dall’allusione fatta dai
sacerdoti all’abbandono nel quale Dio lo aveva lasciato; con un
grido, Egli volle mostrare che, in quell’abbandono, si verificavano
le prime parole del salmo 21, e cominciò a recitarlo ad alta voce.
Le prime parole Elì,
Elì, lamà,
sono
citate in ebraico dall’evangelista, l’ultima è citata in
aramaico; san Marco (15,34) le cita tutte in aramaico: Eloi,
Eloi, lamma sabactani?
Egli
volle anche giustificare la mancanza dell’intervento del Padre,
nonostante la fiducia che in Lui aveva avuta, dichiarandosi
abbandonato da Lui, quasi come peccatore e proclamando il mistero di
quell’abbandono nell’amorosa interrogazione che gli fece.
L’abbandono
era testimonianza dell’immolazione della Vittima; l’interrogazione
amorosa: perché
mi hai abbandonato? era
la testimonianza dell’innocenza della Vittima. Certo, Gesù era in
profondissime tenebre interiori, fra spasimi terribili di cuore e di
corpo, ma il suo grido al Padre fu tutto uno slancio di fiducia, di
amore e di sottomissione. Al suo grido rispose ancora una volta lo
scherno dei circostanti, i quali, parodiando le parole del salmo,
dissero che Gesù forse invocava Elia per essere liberato. Un
altro, ascoltando il suo lamento di aver sete – perché l’arsura
della febbre e della perdita di sangue lo consumava –, andò a
inzuppare una spugna nella posca
dei
soldati romani, cioè in una miscela di aceto e d’acqua che essi
bevevano, e su di una piccola canna gliela l’offrì. I derisori del
suo grido d’angoscia, però, non gli permisero oltre di bere e,
staccando la spugna dalle sue labbra, dissero all’uomo pietoso che
gliel’aveva porta che era meglio aspettare che Elia venisse a
liberarlo. Gesù aveva preso un po’ d’aceto, e in quell’atto
s’erano compiuti tutti i vaticini; il suo sacrificio era completo,
ed Egli, emesso un alto grido per affidare al Padre il suo spirito,
chinando il capo, spirò!
Nell’atto
stesso nel quale il Redentore esalò il suo spirito, il velo che
copriva il Santo dei Santi nel tempio si squarciò, per dimostrare
che la Legge antica era finita, e s’era aperto il cielo, figurato
nel Santo dei Santi. La terra tremò, per mostrare così il suo
disgusto per il delitto consumato dai Giudei, e le pietre si
spezzarono. Nello sconvolgimento tellurico si aprirono anche molti
sepolcri, e san Matteo aggiunge che
dopo la risurrezione di
Gesù Cristo molti corpi dei santi risorsero. Questi corpi di santi,
risorti gloriosi dopo tre giorni che la loro tomba era stata aperta
dal terremoto, entrarono in Gerusalemme, apparvero a molti per
predicare la divinità di Gesù Cristo, e poi ascesero trionfanti con
Lui nel Cielo. Forse risorsero i corpi dei patriarchi che più
avevano sospirato la redenzione, forse con essi risorse san Giuseppe…
Noi non sappiamo nulla in proposito; sappiamo solo che la vittoria di
Gesù Cristo sulla morte che lo rese primizia dei risorti – come
dice san Paolo (cf Col
1,18)
–, trasse dalla tomba molti santi defunti, primizia a loro volta
della risurrezione futura di tutti gli uomini.
I
fenomeni che avvennero nella morte del Redentore non erano tali da
potersi scambiare per fatti naturali e casuali; si sentiva, nella
medesima atmosfera, per così dire, la solennità di quello che era
avvenuto. Il centurione e i soldati che erano con lui a fare la
guardia se ne impressionarono, e riconobbero, nel Crocifisso, il
Figlio di Dio. Le pie donne erano in lontananza e piangevano
amaramente. In poco tempo il Calvario fu solitario, e le prime ombre
della sera cominciarono ad avvolgere tutto.
Quale
spettacolo grandioso e solenne era il Crocifisso! Sospeso tra la
terra e il cielo, col volto maestosamente sereno e rifulgente
d’amore, con le braccia aperte, col capo chinato verso la terra,
Egli era la Vittima d’amore che parlava con la sua stessa Morte, e
intercedeva per gli uomini.
Se la
sola immagine del Crocifisso ci fa tanta impressione, quanto non
doveva farne Gesù stesso? Chi può scrutare il mistero di quella
morte che fu vita, di quella sconfitta che fu trionfo, di quel
silenzio che fu parola eloquente d’amore, ancora viva nei secoli
sempre attuale e sempre eterna?
Giuseppe
d’Arimatea fa seppellire Gesù nella sua tomba nuova
I corpi
dei condannati, secondo la legge romana, venivano lasciati sul
patibolo fino a che si fossero putrefatti o fossero stati divorati
dalle fiere e dai rapaci. Secondo la legge ebraica venivano tolti e
sepolti nella fossa comune, a meno che parenti o amici del condannato
non li avessero richiesti al governatore romano. I sacerdoti e gli
anziani del popolo avevano premura di togliere dalla croce il Corpo
di Gesù e dei due ladri, perché già cominciava la solennità del
sabato, e soprattutto avevano premura di seppellire Gesù in modo
così obbrobrioso che non si fosse mai più parlato di Lui. Il fatto
che Giuseppe d’Arimatea, membro del sinedrio e discepolo nascosto
di Gesù, si sia affrettato a domandare a Pilato il Corpo del
Maestro, ci fa supporre che qualcosa di sinistro si era progettato
nel sinedrio.
Giuseppe
era uomo ricco e, come tale, aveva un sepolcro nuovo in una sua
proprietà vicino al Calvario, sepolcro che aveva fatto scavare nella
pietra.
Per
rispetto a Gesù, stabilì di adoperare per Lui quella tomba e,
involtone il Corpo in un lungo lenzuolo, ve lo ripose, chiudendone
l’entrata con un grande masso. I sacerdoti e i farisei dovettero
essere molto contrariati da questa sepoltura onorata, resa a Colui
che credevano di aver vinto per sempre, o la premura con la quale ne
era stato chiesto a Pilato il Corpo li insospettì e fece loro
ricordare la profezia che Egli aveva fatta sulla sua risurrezione.
Perciò il sabato andarono dal governatore e gli domandarono che
avesse fatto custodire la tomba fino al terzo giorno, per timore che
i suoi discepoli ne sottraessero il Corpo divulgando, poi, la voce
della sua risurrezione. Pilato si mostrò annoiato di questa domanda
e, poiché essi, per la solennità della Pasqua, avevano già molti
soldati a disposizione, rimise loro la cura di custodire il sepolcro.
Certamente i sacerdoti e i membri del sinedrio si accertarono prima
che nella tomba ci fosse il Corpo perché, senza quest’accertamento,
sarebbe stata inutile la loro disposizione. Accertata la presenza del
Corpo, richiusero la tomba, suggellarono la pietra, e vi posero un
drappello di soldati. Non si accorgevano di preparare, loro malgrado,
l’argomento irrefutabile della risurrezione del Signore innanzi a
tutti i secoli, e di essere, senza volerlo, gli umili servi della
divina provvidenza.
Padre Dolindo Ruotolo