Commento
al Vangelo – Domenica di Pentecoste 2014 A (Gv
20,19-23)
Gesù
Cristo appare agli apostoli
Dopo che Pietro e Giovanni
tornarono dal sepolcro, e dopo il messaggio delle pie donne e della
Maddalena, cominciò a nascere negli apostoli un po’ di fede. Non
era la fede profonda e completa di chi crede a Dio che rivela,
riguardando come somma ragione la sua autorità, ma era come l’alba
di questa fede, era come il rinascere di una speranza che sembrava
già morta, era come il primo rinverdirsi d’un ramo spezzato dalla
tempesta. Questo poco di fede, più naturale che soprannaturale in
quel momento, fu la disposizione che rese loro possibile la grazia
della rivelazione del Signore.
Essi erano in buona fede, in
fondo, poiché non avevano capito i tratti della Scrittura che
parlavano della risurrezione e non ricordavano ciò che, in
proposito, aveva detto loro Gesù; non rifiutavano di credere alla
Parola di Dio positivamente, ma s’erano come smarriti nel labirinto
delle loro idee e delle loro aspirazioni.
Il timore poi dei Giudei aveva
fatto nascere in loro, quasi inconsciamente, il desiderio di
sottrarsi, se fosse stato possibile, all’incanto e al fascino di
ciò che in tre anni avevano visto e ascoltato.
La paura è sempre una pessima
consigliera e, quando diventa panico, cerca ogni scappatoia per
sottrarsi al pericolo; se non in tutti gli apostoli e discepoli,
almeno in alcuni, subentrò un desiderio occulto di non pensare più
al passato, di abbracciare un tenore comune di vita, e ritornare alle
loro occupazioni; ne abbiamo un esempio nell’episodio dei discepoli
di Emmaus, del quale parla san Luca (24,13-35). Il timore si accrebbe
negli apostoli per le stesse notizie che riguardavano la
risurrezione. Certamente il Corpo di Gesù non c’era più nel
sepolcro, e questo fece loro temere che le autorità li accusassero
di averlo essi sottratto, iniziando contro di loro una persecuzione;
perciò stavano guardinghi e tenevano ben chiuse le porte dove erano
congregati. Ora, mentre erano insieme, nella sera della stessa
domenica della risurrezione, Gesù Cristo, senza bisogno di farsi
aprire, entrò improvvisamente in mezzo a loro e, fermatosi, disse:
La pace sia con
voi.
Nella sua misericordia e nel suo
amore veniva per troncare la loro diffidenza, e per mostrare la
realtà della sua risurrezione. Perciò, passato il primo momento di
sbigottimento che si generò in loro a quella vista, li invitò ad
avvicinarsi a Lui, e mostrò loro le mani piagate e il costato
aperto, affinché avessero avuto un argomento sensibile della realtà
del suo Corpo, e avessero constatato che quello era proprio il Corpo
crocifisso tre giorni prima sul Calvario.
Il
Corpo risorto di Cristo
e
le ombre penose della bellezza umana
Il momento fu solenne, ed è
difficile, per noi, formarcene una pallida idea.
Il Corpo di Gesù, essendo
risorto, era glorioso, e aveva quella dote che i teologi chiamano
sottigliezza, per
la quale poteva attraversare gli ostacoli. Oggi questa dote è di più
facile comprensione, poiché ne abbiamo qualche analogia nelle onde
radiofoniche e nei raggi catodici che attraversano senza difficoltà
ostacoli insormontabili ai corpi. Il Corpo glorioso è come
spiritualizzato, è come fluido, tutto luce e tutto energia, e può
attraversare gli ostacoli molto più che un’onda di radio. Gesù
Cristo apparve nella sera, quando già cominciavano le tenebre, tutto
rifulgente di luce nelle penombre della stanza dov’erano gli
apostoli. Non irradiava luce quasi fosse un sole, come può arguirsi
da apparizioni di esseri ultramondani, ma era Egli, come un corpo
tutto splendente, luce placidissima che non abbagliava.
Pietro, Giacomo e Giovanni
dovettero ricordare, allora, la scena della trasfigurazione che aveva
qualche somiglianza con ciò che vedevano. Gesù, ritto in piedi, era
mirabilmente bello: era Lui, ma immensamente più affascinante nella
sua carne gloriosa. I capelli erano nel fulgore della luce come onde
d’oro, la fronte e il volto erano candidi e rubicondi, fonte di
gioia nella loro purissima bellezza; il corpo era mirabilmente
intonato, senz’alcuno di quegli angoli oscuri che ha l’umana
bellezza; maestoso, ma dolce e paterno, spirava amore da ogni parte,
ed era come giglio fragrante schiuso in una valle brumosa, perché
emanava da Lui quel tenue e soave profumo che spirava dalla carne
gloriosa.
L’umana bellezza e l’umana
carne, anche quando sono avvolte in un alone di purezza, hanno sempre
qualche angolo oscuro e qualche lezzo di putrido, eccetto il caso nel
quale siano interamente vivificate dallo Spirito Santo. È
un’illusione pensare che una bellezza vivente o effigiata dal vero
possa portarci a Dio, fissandola con uno sguardo di curiosa
esplorazione; essa ha sempre dei corti circuiti che scaricano nella
terra la corrente dell’amore divino che ferve nell’anima. Una
sola bellezza può fissarsi e sentirsene vivificati, ed è quella che
traluce dalla grazia di Dio; una sola bellezza può fissarsi e
possedersi ed è quella di Dio. Qualunque altra bellezza accende
sempre una passione nei sensi, dà un desiderio incosciente di
possesso almeno ideale, è come vento che solleva le onde e suscita
le tempeste, è come forza che devia da Dio la corrente del cuore.
Gesù, ritto nella sala, vestito
non di panni ma di gloria, era la bellezza purissima che elevava
l’anima a Dio, diffondeva gioia, pace, amore, e per questo il Sacro
Testo dice con parola mirabilmente sintetica: I
discepoli, vedendo il Signore, gioirono. Era
la gioia della vita piena che emanava da Colui che era la vita; era
la pace che diffondeva Colui che era la verità, calmando le ansie
oscure dell’anima; era la contentezza che dava Colui che era come
faro luminoso, dal quale veniva tracciata la via del Cielo.
Gioirono i discepoli nella gioia
della purezza che spirava dal Corpo divino e, in quella gioia, si
estinsero in loro le povere fiamme della carne che ustionano
fastidiosamente il cuore e lo fanno stare tra le spine. Non c’è
gioia più grande della purezza integrale: è una gioia che nasce
dall’amore di Dio che si trasfonde nell’anima come luce di
verità, come calore di carità, e come complesso di bontà. In noi
c’è sempre qualche cosa d’impuro, e qualunque gioia spirituale è
sempre turbata dalla nostra miseria; gli apostoli, nel vedere Gesù,
si sentirono puri e purificati, poiché Egli diffuse in loro una
grande serenità, e dicendo: La
pace sia con voi, li
avvolse in quella pace che spira da Dio, Verità, Sapienza e Amore
eterno.
Pace,
tranquillità
d’ordine, serena sicurezza, riposo d’amore nell’eterno Amore!
A
chi rimetterete i peccati,
saranno
rimessi…
Gioirono i discepoli, ma nella
gioia stessa provarono un senso di timore per le colpe che avevano
commesse, e per la sproporzione che sentivano col Signore glorioso;
per questo, Gesù, rassicurandoli, ripeté le dolci e vivificanti
parole: La pace
sia con voi e,
sollevandoli dalla loro profonda umiliazione interiore, soggiunse:
Come il Padre ha
mandato me così io mando voi.
Con delicatezza divina e con
divina signorilità non volle che avessero sentito il peso della loro
inferiorità innanzi a Lui glorioso; gli ripugnava quasi che avessero
potuto stabilire un paragone fra loro peregrinanti e Lui trionfante
e, anticipando le grazie della Pentecoste e il momento nel quale
diede loro la pienezza della missione per la quale li aveva scelti,
soffiò su di loro e disse: Ricevete
lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a
chi li riterrete saranno ritenuti. Gesù
Cristo non fece loro una promessa, ma diede loro veramente una
comunicazione attuale dello Spirito Santo, alla quale era annessa la
facoltà di rimettere i peccati. Pur ricevendosi una volta lo Spirito
Santo – perché la sua comunicazione sacramentale imprime il
carattere –, Gesù Cristo volle darlo più volte ai suoi
prediletti, riserbandone loro una nuova pienezza nel giorno della
Pentecoste. Si direbbe che sta nelle sue abitudini di misericordia e
di amore moltiplicare e rinnovare i suoi doni a quelle anime che gli
si danno con amore, ed hanno fiducia nella sua generosità.
Dicendo: A
chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi li riterrete
saranno ritenuti, Gesù
Cristo diede agli apostoli e ai loro successori la potestà
giudiziale di rimettere i peccati nel sacramento della Penitenza,
com’è chiarissimo dal Testo, e come dichiarò esplicitamente il
Concilio di Trento. Tutti i peccati, anche i più gravi, possono
essere rimessi, ma debbono essere sottoposti al giudizio del
sacerdote con la confessione, perché il rimetterli o ritenerli non è
un atto di capriccio, ma è una sentenza ragionevole che dipende da
un giusto giudizio; tale giudizio non può farsi se il peccatore non
confessa i suoi peccati e se, confessandoli, non mostra le
disposizioni interiori che lo animano.
La Confessione dei peccati non è
un’imposizione umiliante e penosa benché a primo aspetto sembri
che sia così, e benché a volte abbia quasi questo sapore: è una
concessione di misericordia, fonte di pace e di gioia grande per il
povero peccatore. Sottoporre i propri peccati a chi rappresenta Dio
significa mutare l’immondizia in concime, il concime in pianta, in
fiore, in frutto di eterna vita. Confessarsi significa espandere
l’anima propria, piangendo, nelle braccia amorose di Dio, e
assicurarsi del suo perdono che è dolcissima gioia, pienezza di vita
che fa sentire leggeri, leggeri, liberi dalle catene, tesi al volo
verso le ricchezze eterne.
Con divina delicatezza Gesù
anticipò agli apostoli la facoltà di rimettere i peccati, proprio
nel momento nel quale essi si sentivano maggiormente peccatori,
rendendoli giudici quando essi si aspettavano di essere giudicati.
Egli volle rialzarli dall’umiliazione e, nel medesimo tempo, volle
dare loro i tesori della misericordia quando essi maggiormente si
sentivano poveri e peccatori, affinché avessero compatito le miserie
altrui. L’uomo ha cercato tutelare l’ordine sociale con le leggi
e i tribunali penali, con le carceri e persino con la morte, ma non
ha potuto far nulla per mutare l’anima del delinquente, nonostante
tutte le assistenze sociali ai carcerati. Solo Dio poteva erigere un
tribunale di amorosa misericordia che rinnova il cuore, dona la pace,
eleva in alto il peccatore e lo muta in un giusto e persino in un
santo.
Padre Dolindo Ruotolo
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