Commento
al
Vangelo
della
XXIV
Domenica
TO
2014
A
(Gv 3,13-17)
Gesù annuncia a Nicodemo il suo regno
Il
discorso di Gesù Cristo a noi appare oscuro e arduo, senza una
spiegazione, ma per Nicodemo era luminoso, perché la luce del
Signore gli penetrava l’anima e la illuminava. Per noi il discorso
è come una lampada che ha bisogno di essere accesa per essere scorta
nei suoi particolari; per Nicodemo era una lampada fulgentissima.
Avviene
in piccolo anche a noi che comprendiamo o intuiamo perfettamente
quello che un valoroso declamatore ci dice, e lo intuiamo, diremmo,
non tanto per le parole o attraverso i gesti che fa, quanto perché
riflette nel gesto e nelle parole quello di cui egli vive
intimamente.
L’attore
veramente geniale è tale perché, vivendo di ciò che dice, lo
riflette fuori di sé, quasi in una proiezione spirituale; l’attore,
al contrario che si sforza di parlare e gesticolare macchinalmente,
come trova scritto o come gli viene suggerito, non riesce a formare
in noi con le sue parole un’immagine viva. Chi percepisce
intensamente, per esempio, le movenze di una tigre, e la imita col
gesto, la fa quasi vedere perché nel gesto proietta quasi l’immagine
che ha nella fantasia.
Questa è
una riflessione di grandissima importanza, ed è una meschina
analogia che ci fa intendere quale sublime e magnifica luce dovette
inondare Nicodemo mentre Gesù gli parlava. Il Redentore non gli
proiettava solo nell’anima, per così dire, un’immagine concepita
nella fantasia, come può fare un oratore o un attore, ma gli
proiettava la luce infinita della sua divinità e la luce soavissima
della sua umanità. Per questo non c’è da stupirsi che Nicodemo
diventasse fin d’allora suo discepolo, e gli fosse fedele anche
nella tragedia del Calvario, curando la sepoltura del suo Corpo
divino, perché non fosse profanato dai nemici.
Stavano
di fronte Gesù e Nicodemo, e questi, al rimprovero fatto da Lui
all’incredulità umana, dovette avere un sentimento di rammarico
per la propria diffidenza e, all’accenno di Lui alle cose celesti,
dovette sentire un desiderio di conoscerle e scrutarle, perché
spirava dal volto di Gesù qualcosa di arcano che faceva intuire
l’arcano splendore dei cieli eterni. Nicodemo, al vedere in quel
volto divino riflessa la luce celeste, dovette dire fra sé: Che cosa
vi sarà nel regno eterno? E chi è colui al quale io parlo? Non gli
sembrava in quel momento solo il Messia promesso, ma qualcosa
d’immensamente più grande; egli, però, non giungeva ancora a
capire che il Messia era Dio stesso, l’eterno Verbo Incarnato, e
non intendeva ancora l’economia della redenzione; la sua fede stava
ai confini della verità ma non li aveva ancora oltrepassati.
Gesù
Cristo lo illuminò solo con un lampo di luce, in modo da gettare in
lui il germe della verità senza forzarne la mente; il germe sarebbe,
a suo tempo, spuntato. Se gli avesse detto, in quel momento,
apertamente: «Io sono il Figlio sostanziale di Dio», Nicodemo si
sarebbe smarrito; perciò, rispondendo all’intimo desiderio che
aveva avuto di conoscere le cose celesti, soggiunse: Nessuno
è salito in cielo e,
secondo il testo greco che usa il passato, nessuno
è stato in cielo all’infuori di colui che è disceso dal cielo, il
Figlio dell’uomo che sta nel cielo. Delle
cose celesti ed eterne che non si svolgono su questa terra, voleva
dirgli, può parlartene solo Colui che è
stato nel cielo ab
eterno, è
disceso
dal cielo,
facendosi
uomo, e
sta nel cielo perché
non cessa di essere Dio.
Non disse
altro Gesù, su questo grande argomento, ma Nicodemo sentì
nell’anima sua lo splendore della luce divina, poiché chi gli
parlava era proprio il Verbo eterno disceso dal cielo, il Verbo
Incarnato per la salvezza di tutti. Questo era il concetto vero che
doveva avere del Messia. Il Messia non era un profeta, e tanto meno
un principe politico; era, invece, il Verbo di Dio Incarnato, vero
Dio e vero uomo, esaltato non su di un trono di gloria, ma su di un
patibolo d’immolazione per salvare le anime e dare loro la vita
eterna.
Gesù
Cristo, per gettare nell’anima di Nicodemo anche il germe di questa
verità, gli ricordò il simbolo e la figura più ardua della
redenzione, cioè i
Il Verbo
Incarnato sarebbe stato elevato non su di un trono, come pensavano
allora i dottori della Legge, ma su di un patibolo, ammantato della
veste del colpevole, immagine sanguinosa degli uomini peccatori, come
il serpente di bronzo era immagine dei serpenti velenosi che
mordevano gli Ebrei. Il mondo tutto, bruciato dalle piaghe del
peccato, doveva volgere lo sguardo alla Vittima divina, doveva
credere, incorporarsi a Lei, operare per Lei il bene, arricchirsi di
meriti, e conseguire la vita eterna. Era questa l’economia della
redenzione.
Nicodemo,
come dottore della Legge, non ignorava certo l’episodio
ricordatogli da Gesù, ma per l’interna luce che Egli gli
comunicava nell’anima si sentì come in un mondo nuovo, capì il
mistero di quella figura profetica, e ne fu sorpreso, ne godette,
come gode chi vede risplendere la verità da poche parole semplici, e
tacque pieno di ammirazione. Le parole dei profeti riguardanti
l’immolazione del Redentore risuonarono nel suo cuore; guardò Gesù
con grande compassione, intuendo che voleva immolarsi, e lo amò
intensamente perché sentì, in quelle parole che gli aveva detto,
tutto l’amore che lo comprendeva. Gesù, infatti, parlando
velatamente del suo sacrificio, manifestò, dal volto, una tenerezza
infinita che avvolse Nicodemo come in un calore di misericordia e lo
conquise. Egli, però, aveva un concetto severo di Dio, non
immaginava tanta misericordia in tanta grandezza, non pensava che
l’esigenza della sua giustizia potesse armonizzarsi con la sua
pietà; perciò Gesù, rispondendo al suo pensiero, soggiunse che la
redenzione era frutto dell’infinito amore di Dio, di un amore che
era giunto fino a fargli donare il suo Figlio Unigenito, per dare la
vita eterna a quanti avrebbero creduto in lui, riconoscendolo,
accettandone la dottrina e praticandone i precetti.
Padre Dolindo Ruotolo
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