Commento al Vangelo della XXIX Domenica TO 2014 A (Mt 22,15-21)
A Cesare quel che è di Cesare,
a Dio quel che è di Dio
I farisei, temendo, col porre le mani addosso a Gesù, di suscitare nel popolo una rivolta, si consultarono insieme per
trovare il modo di farlo capitare tra le mani dell’autorità romana.
Ordirono, perciò, un inganno ben architettato, e lusingando Gesù sulla
sua veridicità e lealtà, e sulla sua ferma intransigenza di fronte alla
verità e al dovere, gli domandarono, per mezzo dei loro discepoli, se
era lecito o no pagare il tributo a Cesare. Dopo l’occupazione romana
della Palestina, ogni ebreo era costretto a pagare il tributo
all’imperatore che, con nome generale, veniva chiamato Cesare. Questo
tributo era odiosissimo per gli Ebrei, essendo il segno palese della
perdita della loro indipendenza. Si pagava in moneta romana, sulla quale
c’era l’effigie di Tiberio.
I farisei, sapendo che Gesù si
proclamava il Messia, erano certi che egli avrebbe biasimato il
pagamento del tributo; supponevano che il Messia dovesse essere un
restauratore dell’indipendenza nazionale, e credevano che Gesù non
potesse approvare il pagamento del tributo, senza rinnegare la sua
qualità di Messia, alla quale credevano che tenesse per fanatismo e per
illusione. D’altra parte pensarono che se Egli l’avesse approvato,
sarebbe riuscito inviso al popolo, e che in ogni caso l’avrebbero
costretto a smetterla. Per tutto questo insieme subdolo, Gesù,
rispondendo, li chiamò ipocriti, smascherandoli così nelle loro
intenzioni maligne. Per confonderli, poi, domandò che gli mostrassero la
moneta del tributo e, dopo che l’ebbero mostrata, chiese di chi era
quell’immagine e quell’iscrizione. Alla loro risposta che era di Cesare,
disse quelle memorande parole che li lasciarono stupefatti: Rendete
dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio.
Circolando nel popolo la moneta imperiale di Roma, era evidente che la
nazione sottostava di fatto a Cesare; il tributo si dava come concorso
alle spese di amministrazione e, permanendo l’impero di Cesare, era
giusto darlo a lui. Sotto qualunque sovranità, infatti, si pagano le
tasse, perché esse sono parte dell’amministrazione comune e contributo
ai vantaggi comuni che ne derivano; pagare le tasse non significa
giustificare un sopruso, ma sottostare a una situazione di fatto; non si
trattava di sapere se si poteva o non pagare, perché si doveva pagare;
era dunque logico che si rendesse a Cesare ciò che era di Cesare, cioè
che si sottostesse a uno stato di fatto che non riguardava la coscienza,
ma una necessità fiscale imprescindibile. Gesù soggiunse subito:
Rendete a Dio ciò che è di Dio, per far riflettere al popolo che per non
essere stato fedele al Signore, aveva avuto, come castigo, la
dominazione straniera, e che, invece di pensare a ribellarsi a Cesare,
dovevano piuttosto pensare a riconciliarsi con Dio.
Sotto qualunque
dominazione, l’anima deve essere di Dio, e tributargli l’amore e
l’onore che gli è dovuto; le condizioni politiche della nazione nella
quale si vive non possono in nessun modo dispensare da questo dovere che
è il principale; pagare o non pagare il tributo, dunque, non era una
questione essenziale, ma era imprescindibile dare a Dio ciò che è di
Dio, anche se si fosse dovuto urtare l’autorità di Cesare.
Il potere civile e religioso
Le parole di Gesù Cristo sono state in ogni tempo la regola
dell’armonia del potere civile e di quello religioso; il potere civile
ha le sue attribuzioni, ma esse sono limitate a ciò che è temporale, e
sempre subordinatamente a quello che è spirituale. Il potere civile,
strettamente parlando, non domina ma serve, perché è ordinato al bene
comune e al bene individuale di quelli che formano la nazione; dovrebbe
rappresentare un potere paterno in mezzo alla famiglia umana, con tutte
le prerogative della potestà paterna. Ogni potestà viene da Dio, ed è
assurdo pretendere che venga dal popolo; il potere civile rappresenta la
divina provvidenza negli affari temporali, in quanto questi sono
ordinati alla vita presente e a quella futura, il potere religioso
rappresenta la divina autorità che domina tutto nell’amore, e guida le
anime alla vita eterna, pur non prescindendo dalla loro condizione di
vita sulla terra. Il potere religioso che è uno solo, di diritto divino,
quello della Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana è immensamente
superiore a quello civile, e deve moderarlo nel suo esercizio, affinché
non esorbiti e non diventi tiranno.
Rendere a Cesare ciò che è di
Cesare, non significa riconoscere a Cesare un potere indipendente dal
controllo materno della Chiesa, e tanto meno significa ammettere
un’autorità che possa esigere di controllare la Chiesa, ma comporta solo
il dovere di dare all’autorità civile il contributo che le spetta per
l’amministrazione dello Stato, e di conseguenza osservarne le giuste
leggi. Estendere le parole di Gesù oltre questi limiti significa
alterarne il senso. Anche nel campo della legislazione, lo Stato non può
superare i limiti dell’amministrazione temporale, di modo che è assurdo
che esso presuma di dettare leggi che riguardano direttamente o
indirettamente i valori morali o religiosi. È invalsa troppo la mania,
spesso delittuosa, di presentare come legge qualunque capriccio o
qualunque sopruso di chi governa. La legge non può ispirarsi che a
quella di Dio, e non può prescindere dalle supreme direttive della
Chiesa. Per questo nell’antico patto non fu Mosè che legiferò, ma fu Dio
che gli dettò le leggi. I tempi sono mutati, la società si è confusa,
le teste si sono annebbiate, ma questo non significa che si siano mutate
le basi che reggono l’umanità. Cesare amministra, non crea e, come
amministratore, deve sottostare alle supreme leggi di Dio, Creatore e
Padrone di tutto, rispettare la Chiesa che lo rappresenta.
Si deve
notare che i farisei non andarono direttamente a domandare a Gesù se era
lecito pagare il tributo a Cesare, ma fecero andare da lui alcuni dei
loro discepoli insieme a parecchi rappresentanti della setta degli
erodiani, favorevoli al dominio di Roma, affinché Egli avesse parlato
innanzi a testimoni già ammaestrati, i quali avrebbero potuto riferire
alle autorità romane la sua risposta e comprometterlo. Era dunque una
mossa politica la loro, una di quelle mosse delle quali purtroppo è
intessuta la politica moderna. La menzogna anche sfacciata, l’inganno,
la turlupinatura, e la miseria morale sono spesso la base della
politica, e da questo si può misurare quanto essa è lontana da Dio;
perciò, invece di idolatrare lo Stato, fino a crederlo unica autorità
suprema, bisogna pensare, prima di tutto e sopra di tutto, a rendere a
Dio ciò che è di Dio, prestando ossequio all’autorità della Chiesa.
Questo è tanto più necessario oggi che dall’idolatria del cosiddetto
popolo sovrano si sta passando all’idolatria dei dittatori e degli Stati
totalitari, con immenso danno delle anime e specialmente della
gioventù. Rendiamo a Dio quel che è di Dio, diamogli tutto il nostro
cuore e tutta la nostra vita, perché tutto è suo, e tendiamo, con tutta
l’anima nostra, alla vita eterna
Padre Dolindo Ruotolo
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