Commento al Vangelo della XXXII Domenica TO 2014 A
(Gv 2,13-22)
Dedicazione della Basilica Lateranense
Gesù
caccia i profanatori dal tempio
Da Cana di
Galilea Gesù, insieme con la Madre, i suoi parenti e i suoi discepoli, scese a
Cafarnao che si trovava a un livello più basso, e vi rimase alcuni giorni, per
unirsi al pellegrinaggio che si recava in Gerusalemme per la solennità della
Pasqua. Egli non aveva ancora stabilito a Cafarnao la sua dimora. Andato a
Gerusalemme si recò al tempio per adorare il Padre, e vi notò un gravissimo
sconcio, contro il quale insorse con tutto l’impeto del suo zelo e il fulgore
della sua divina maestà.
Nell’atrio o cortile detto dei pagani, si era formato un vero
mercato di animali atti ai sacrifici cruenti, e di ciò che poteva servire per
le offerte sacre. Data l’imminenza della Pasqua, il traffico era grande e, per
facilitare il cambio delle monete greche o romane che non potevano essere
introdotte nel tempio a causa dei loro simboli pagani, si erano stabiliti
nell’atrio sacro anche dei cambiavalute, pronti a cambiare con interesse, ad
usura, le monete in sicli ebraici d’argento. La baraonda e il vociare dei
trafficanti, unito alle voci degli animali e al sudiciume che vi lasciavano,
avevano ridotto il luogo sacro in uno stato obbrobrioso; i sacerdoti e i leviti
lasciavano fare, perché ricavavano lauti profitti da quel commercio.
Nel tempo della sua vita nascosta, Gesù aveva notato il sacrilego
sconcio ogni volta che era andato a Gerusalemme, ma aveva taciuto, perché non
era giunto il tempo di rivelarsi; ora, però, Egli iniziava la sua vita pubblica
e, operando da padrone, ripieno com’era d’amore per il Padre, avvampò di santo
sdegno e, prese alcune cordicelle, forse di quelle che servivano a tener legati
gli animali, ne formò come una sferza e cominciò a cacciare fuori gli animali,
e con essi gli uomini che li custodivano o li vendevano. I banchieri, i più
freddi e insensibili al divino rimprovero, non si mossero, anzi, dovettero
aggrapparsi ai loro banchi per difenderli dall’urto degli animali che fuggivano
in ogni direzione, ma Gesù, avvicinatosi ai banchi, li rovesciò con impeto
divino, gettando per terra le loro monete. Solo verso i venditori di colombe fu
più pacato, perché essi le vendevano ai poveri e le avevano in gabbia, e li esortò
a togliere di là quella roba, gridando ad essi e a tutti di non cambiare la
casa del Padre suo in una bottega di traffico. Nessuno osò reagire a
quell’impeto divino, e ne fu tanta la maestà amorosa che gli apostoli, benché
ancora novellini nelle vie di Dio, si ricordarono che nel salmo 68,10 era
predetto del Messia che lo zelo della Casa di Dio lo avrebbe consumato,
e videro spontaneamente, in quell’atto, il compimento della profezia.
La Vergine Santissima, ottenendo a Cana il miracolo dell’acqua
mutata in vino, aveva anticipato l’ora di Gesù, cioè il tempo della sua
manifestazione pubblica come Messia e Salvatore del mondo, e il primo atto del
ministero di Lui fu quello di cacciare dal tempio i profanatori che lo avevano
ridotto ad una bottega.
Il rimprovero dei Giudei a Gesù e la sua
assoluta padronanza
Il frastuono prodotto dall’uscire precipitoso dei venditori e degli
animali dal cortile del tempio fece intervenire intorno a Gesù, di furia, i
Giudei, cioè le autorità del santuario, decise a mettere a posto il
disturbatore del loro traffico indegno, e di espellere, a loro volta, dal luogo
santo, colui che, a loro giudizio, si arrogava un potere che non aveva; ma
quando si trovarono innanzi al Signore furono così conquisi dalla sua divina
maestà che non osarono rimproverarlo e tanto meno cacciarlo; videro, nel suo
atteggiamento, qualcosa di straordinario, e vollero accertarsene, domandandogli
un miracolo come conferma.
La loro pretesa poteva essere anche legittima, se avessero fatto
quella domanda per accertarsi della missione di Lui; ma essi, in realtà, benché
conquisi della sua maestà, crederono di metterlo in imbarazzo, costringendolo a
riconoscere di non avere il potere di sostituirsi a loro nella custodia del
luogo santo. Lo sdegno, poi, che sentivano per il mancato lucro che veniva ad
essi da quell’indegno mercato dovette farli avvampare d’ira, e far loro
desiderare fin d’allora di disfarsi di Lui.
Egli, perciò, riaffermando con i fatti la sua divina potestà e
padronanza che non doveva dar conto a nessuno nel tutelare l’onore del Padre,
rispose enigmaticamente: Distruggete questo tempio, e io in tre giorni lo
riedificherò.
La frase sembrò un assurdo, data la mole del tempio e la sontuosità
della fabbrica.
L’edificio, cominciato da Erode il Grande nell’anno 18° del
suo regno, e quindi molto tempo prima della nascita di Gesù, non era terminato
ancora nei suoi particolari, benché ci si lavorasse da 46 anni. Fu terminato
solo nel 64 dell’era nostra, poco prima della sua distruzione per opera dei Romani,
il 70 dell’era volgare. I Giudei, perciò, dissero a Gesù in tono ironico: Questo
tempio fu edificato in quarantasei anni, e tu lo rimetterai in piedi in tre
giorni? Gesù, invece, – soggiunge l’evangelista –, parlava del tempio
del suo corpo, e quindi alludeva alla sua morte ed alla sua risurrezione. I
suoi apostoli lo constatarono quando Egli risorse, si ricordarono che la
Scrittura in più luoghi aveva predetto la sua risurrezione (cf Sal 15,10; Is 53,10-12) e crederono alle sue parole.
Nonostante che la promessa di Gesù avesse avuto il carattere di un
paradosso, gli Ebrei non osarono reagire violentemente contro di Lui;
sentirono, loro malgrado, che era la verità, benché non sapessero spiegarlo.
Alcuni suppongono che Gesù, nel dire quelle parole, avesse fatto cenno con la
mano al suo corpo, toccandosi il petto ma, pur facendo questo gesto, Egli non
avrebbe potuto farsi intendere da quelli che ignoravano i prossimi misteri
della sua morte e della sua risurrezione. Con profondissimo pensiero, Egli
accennò all’argomento fondamentale della verità di tutta la sua opera, e parlò
con piena padronanza, precorrendo i tempi. Se pur avesse fatto un miracolo in
quel momento, come ne aveva già fatto molti in Gerusalemme (versetto 23), i Giudei
non gli avrebbero creduto; Egli, invece, li tacitò con una risposta enigmatica,
detta in tutta la pienezza della sua maestà. Mettendoli così a tacere, non
diceva una cosa paradossale, se si riguarda la sua affermazione nella luce divina.
Quel tempio maestoso, infatti, era figura e ombra del suo Corpo
divino; all’apparenza sembrava immensamente più grande, ma, in realtà, era
infinitamente più piccolo. Per distruggere il tempio materiale ci sarebbero
voluti elementi umani, determinati e mossi dalla volontà umana; per uccidere,
invece, il suo corpo era necessario un permesso della divina volontà, e occorreva
il concorso del suo amore che si donava.
Era un prodigio di misericordia il permesso dell’immolazione della
Vittima divina, com’era un prodigio di onnipotenza la sua risurrezione dalla
morte.
Il tempio stava dunque al suo Corpo come lo schizzo di una fabbrica
sta alla fabbrica stessa; Gesù, quindi, non si servì d’un paragone improprio né
disse una parola vana ma la sua fu una parola profondissima.
Un enigma penoso per gli apostoli
Dal contesto si rileva che per gli apostoli l’affermazione di Gesù
dovette costituire sempre un enigma penoso e un’oscurità in mezzo alla luce che
pur vedevano intensa; è per questo che l’evangelista soggiunge che essi, dopo
la risurrezione di Gesù si ricordarono di quelle parole, e crederono alle
Scritture e a ciò che aveva detto il Signore. Si spiegarono solo allora un
mistero incomprensibile che aveva per essi l’apparenza di un assurdo.
Così avviene nelle grandi manifestazioni della potenza, della
sapienza e dell’amore di Dio; accanto alla luce ci sono pure le ombre e le
tenebre misteriose; perché non tutto ciò che dice o opera il Signore si
riferisce ai nostri piccoli pensieri o al tempo presente.
Quando si vede la luce da un lato, le oscurità non sono tenebre di
falsità ma un’oscurità e ombra di un mistero che può chiarificarsi dopo anni di
attesa, e che può attendere la sua luce anche nell’eternità.
Nel tempo nel quale Gesù stette a Gerusalemme per la Pasqua – soggiunge
l’evangelista –, molti crederono in Lui per i miracoli che Egli faceva, ma la
loro fede era superficiale, benché esternamente sembrasse entusiasta, e Gesù
non si fidava di loro, perché li conosceva nell’intimo del cuore, e non aveva
bisogno che altri rendesse testimonianza di loro.
San Giovanni, con queste parole, vuol far notare che Gesù era
Dio, e considerava le sue creature non attraverso le apparenze esterne, ma
scrutandone il cuore e conoscendone gl’intimi pensieri.
Innanzi
a questo sguardo divino non possiamo presumere di noi né fidarci della nostra
giustizia, perché Egli può vedere ciò che noi non vediamo.Don Dolindo Ruotolo
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