Commento al Vangelo della XXXIII
Domenica TO 2014 A (Mt 25,14-30)
La parabola dei talenti
Vigilare non significa rimanere in
un’oziosa e snervante attesa, ma significa lavorare per la gloria di Dio e per
il bene delle anime, e portare, alla presenza del Signore, un tesoro di meriti.
Questa verità, fondamento dell’onesta e santa operosità, fu espressa da Gesù
Cristo con la parabola dei talenti. Egli è il Padrone ricchissimo che ha
fondato la Chiesa
come campo di prova, e si è eclissato, quasi fosse partito per un lontano
paese, dando a ciascuno la forza, la grazia e i doni per poter operare il bene,
secondo le diverse possibilità.
I doni che il Signore ci fa sono di
natura e di grazia; quelli di natura sono l’ingegno, la forza, la ricchezza, la
sanità, ecc.; quelli di grazia sono oltre i doni comuni a tutti nella Chiesa,
come per esempio i Sacramenti, anche quelli particolari alle anime
privilegiate. Tutti questi doni devono farsi fruttificare, e anche quelli che
sono assolutamente gratuiti, come per esempio il dono di profezia, debbono
trovare, nell’anima, disposizioni particolari di umiltà, di amore, di purezza e
di semplicità, perché il Signore possa espandersi di più. Nel giorno del
Giudizio particolare che è quello del rendiconto personale, Dio ci domanderà
che cosa abbiamo prodotto con i suoi doni, ed esigerà un accrescimento, diciamo
così, del capitale che ci è stato assegnato.
Gesù Cristo si rivolge in modo speciale
a quelle anime che credono aver fatto molto, quando non hanno fatto un male
positivo, e che misurano le loro benemerenze, paragonandosi con i ladri, con
gli impuri e con gli omicidi. Eppure non basta solo non fare il male, ma
bisogna anche operare il bene e mettere a traffico le proprie attitudini. Il
servo della parabola non fece fruttificare il talento ricevuto, perché, secondo
lui, il padrone era molto duro ed esigente; avrebbe dovuto essere l’opposto. La
mancanza d’amore al padrone gli fece seppellire ciò che aveva ricevuto. Chi riceve
un dono dal Signore può farlo fruttificare solo nell’amore che è la leva più
potente di tutte le nostre attività. Lo vediamo nei santi, le cui opere sono
state prodigiosamente feconde. Il mondo, spinto solo dall’interesse o dalla
vanità sembra più attivo dei santi, e le sue iniziative sembrano riempire la
terra; ma sotto il frastuono delle iniziative c’è la sterilità, come mostrano
le famose iniziative della carità civile o laica.
Quando ci troveremo innanzi a Dio per
essere giudicati nel Giudizio particolare, a chi ha meriti da presentare al Signore
sarà data la vita eterna, ma a chi non ne ha, sarà tolto anche ciò che
sembra di avere, perché
precipiterà nelle tenebre eterne, privo di vita vera, vuoto di tutto, in preda
alla disperazione e all’affanno senza conforto alcuno.
La ricchezza deve circolare
Non si può rimanere oziosi nella vita
presente e, ciascuno nel proprio stato, deve produrre ciò che può
spiritualmente e materialmente. L’attività di tutti concorre al bene comune, e
chi ha speciali attitudini per le arti, le scienze, il lavoro, deve dedicarvi
le sue forze per amor di Dio. La ricchezza, poi, non è un dono che può tenersi
nascosto o inutilmente inoperoso; è anche un dovere farla circolare, adibendola
nelle sane iniziative sociali. Chi la tiene accantonata per avarizia o per
timore di perderla, ne risponde al Signore come se l’avesse sperperata. A
chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza, ma a chi non ha sarà tolto anche
quello che sembra di avere; queste
parole dell’eterna Sapienza sono un canone anche per le ricchezze temporali; quando
si mettono a traffico per il bene comune, fruttificano e producono l’abbondanza
a chi le possiede; quando si lasciano inoperose per timore di perderle, si
consumano e producono la miseria. Chi le tiene inoperose sembra di averle, perché, in realtà, non possiede
che il fastidio di custodirle. Centomila lire, per esempio, se si conservano
sempre senza spenderle mai, sono un pezzo di carta stampata; se circolano rappresentano
un valore reale.
Dio ci dà tanti particolari doni della
sua bontà per darci modo di operare il bene e di zelare la sua gloria; compiamo
dunque con fedeltà la nostra giornata di lavoro, aspettando la ricompensa dal
Padre celeste. È più utile lasciare la ricchezza di molte opere buone, anziché
lasciare un peculio che spesso è dilapidato dagli eredi ed è succhiato dalle
tasse. Quello che si ha deve lasciarsi; non è dunque un gran merito disporre quando non se ne ha
più il dominio; cediamolo al Signore a poco a poco con le opere sante di sua
gloria e con quelle di carità, e pensiamo che la nostra proprietà e la nostra
dimora si ridurranno, tutt’al più, ai pochi metri di terra nei quali verremo sepolti.
Padre Dolindo Ruotolo
Nessun commento:
Posta un commento