Commento
al Vangelo – XXXI Domenica del TO 2015 B (Mt
5,1-12)
La
beatitudine vera di chi peregrina in terra
L’uomo
tende alla beatitudine, alla piena felicità, alla gioia, perché fu
creato da Dio per godere eternamente. L’essenza medesima del fine
per cui viviamo è questa, poiché il Signore ci ha creati per la sua
gloria; e per renderci sua voce di gloria ci riempie della sua
grazia, nel compimento, poi, della sua volontà che è sommo bene, ci
comunica la sua felicità. La beatitudine, quindi, sta tutta in Dio,
ed è da Lui solo che la si può attingere: sta nella conoscenza
delle sue perfezioni e nel compimento della sua volontà.
La
beatitudine è un premio, e come tale suppone la prova; perciò,
prima di raggiungerla eternamente in Cielo, noi subiamo la breve e
passeggera angustia della vita presente. Quest’angustia tende ad
addestrarci alla ricerca di Dio, alla sua conoscenza, al suo
apprezzamento e al compimento della sua volontà.
La vita,
quindi, è più gravosa quanto più è impigliata nell’ambito della
terra, ed è più beata quanto più se ne distacca.
Tutte le
raffinatezze della vita del tempo non sono che fili di una rete che
tarpa ogni volo dell’anima, e che rende più ardua la conoscenza di
Dio e il compimento della sua volontà; esse, perciò, hanno un
segreto di somma infelicità.
È
l’esperienza quotidiana che ce ne convince, e bisogna pur avere il
coraggio di liberarsi da tutte le menzogne convenzionali, con le
quali satana, il mondo e la carne ci trasportano sulle false altezze
unicamente per farci precipitare o per farci adorare le brutture
dello spirito maligno.
È per
convenzionalismo – bisogna riconoscerlo –, che noi stimiamo
grandi certe altezze della vita terrena, dicendo grande la filosofia,
la scienza, la politica, le arti, la letteratura ma, in realtà,
nessuno oserebbe dire che queste cose rendono beata la vita. Sono
alture sulle quali si ascende a grande fatica e che, raggiunte, fanno
scorgere solo i monti impervi che non si raggiungono, e gli abissi
che ad ogni passo falso minacciano d’inghiottirci.
Se
si vuol essere giusti, bisogna confessare che nel mondo il reparto
più colmo d’infelicità è proprio questo che appare come una meta
delle aspirazioni umane. Chi ha raggiunto una vetta scoscesa,
strapiombante nell’abisso, sembra un dominatore a chi lo guarda da
lontano, ma egli solo conosce le vertigini di quella posizione sulla
quale non vorrebbe essere mai giunto. Da quelle altezze non si va
oltre, si discende, e la discesa ha sempre le vertigini dell’abisso.
Tutto è avvelenato d’assenzio e di amarezze indicibili in questa
vita, anche le ricchezze che sembrano i beni più immateriali e più
semplici, mezzi infallibili di nuovi beni; tutto come l’ortica,
anche quando non appare, dà punture fastidiose. Noi, infatti,
abbiamo, per così dire, due capacità nella vita: una materiale che
è limitatissima e che, ricolma, preme sulle pareti e le strazia, ed
una spirituale che esige un vuoto sempre maggiore per essere riempita
di ciò che viene da Dio.
Tutto
quello che è eccessivo nella materia dà la pena dell’indigestione,
e tutto quello che pretende riempire la capacità dello spirito con
la materia, dà lo spasimo dell’avvelenamento.
Sono
verità che magari non si ha il coraggio di sperimentare, perché si
ha l’orecchio assordato dagli inviti del mondo, del demonio e della
carne, ma sono verità che si controllano, nostro malgrado, nella
vita quotidiana.
Chi vive
in città, e specialmente nelle fragorose metropoli moderne, riguarda
la pace della campagna come un’oasi nel deserto: è attratto dalla
rude semplicità primitiva, gli sembrano poeticamente attraenti le
pareti disadorne, i piatti di creta, gli orcioli che fanno da
bottiglie; i piedi nudi sul terreno brullo sembrano più belli delle
calzature eleganti, lo scialle che incornicia il volto schiettamente
sano di una contadina, sembra più attraente di tutte le eleganze
mondane; si respira a pieni polmoni, si è come prigionieri liberati
per un momento dai ceppi, o come uccelli fuori gabbia che raggiungono
trillando i rami. È un momento di felicità relativa, dovuta alla
semplicità di una povertà che non è miseria, ma è sazietà più
proporzionata alla nostra capacità materiale. Il contadino non
capirà magari la superiorità della sua condizione rispetto ai
cittadini, come i bambini non intendono la felicità della loro
spensierata età, ma non si può negare che quella vita ci fa invidia
e fa invidia, molto più, a chi è tutto irretito nelle cose del
mondo. Non è la povertà vera dello spirito, per l’incosciente
scontentezza che l’accompagna, ma in se stessa è un’immagine e,
se è accompagnata dalla pienezza spirituale che trae l’anima alle
altezze eterne, è un saggio di vera felicità.
Don Dolindo Ruotolo
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