Commento
al Vangelo – XXXII Domenica del TO 2015 B (Mc
12,38-44)
Amore
del prossimo, amore a Dio
L’amore al prossimo non è una
sensibilità di simpatia o di compassione, ma è una tenerezza verso
l’immagine di Dio, e una fusione d’amore con la divina Bontà che
ama le sue creature; per questo Gesù disse che il secondo precetto
era simile al primo.
Chi ama una persona condivide le
sue abitudini e le sue inclinazioni; ora, l’anima che ama Dio
veramente condivide la sua carità verso le creature, e partecipa a
quella divina espansione e generosità con la quale Egli le rispetta,
le benefica, le cura, le difende e le provvede.
L’amore al prossimo ha qualcosa
di sacro, e ha il carattere di quella delicatezza che si ha nel
trattare le cose sacre, proprio perché appartengono a Dio. È un
concetto, questo, di altissima importanza che ci fa intendere ancora
di più perché Gesù Cristo fa una sola cosa dell’amore verso Dio
e verso il prossimo, e perché i santi hanno avuto un’estrema
gentilezza nella carità, e un senso di delicato riguardo anche per
le creature irragionevoli o insensibili, come gli animali, i fiori, e
tutte le opere del creato.
L’amore al prossimo, dipendendo
da quello di Dio, non può dissentire da Lui, e può benissimo
conciliarsi con la severa riprovazione del male che sta nel prossimo.
Si ama il prossimo per
Dio, non contro Dio, non fuori di Dio, ed
è logico che non si può amare nel prossimo ciò che offende Dio.
Come è carità soccorrere chi soffre fisicamente, così, molto più,
è carità aiutare chi è moralmente traviato; e, come è amore
tagliare un tumore maligno da un membro infermo, così, molto più, è
carità riprovare nel prossimo quello che nuoce all’anima sua e a
quella altrui, e quello che diventa disdoro di Dio.
Potrebbe sembrare strano che
Gesù, dopo aver parlato del precetto dell’amore al prossimo, abbia
poi, subito dopo, bollato la condotta degli scribi con parole severe.
Egli, allora, non mancava di carità, ma si espandeva, da Dio, nella
carità più grande che il Signore ha verso di noi, ammonendo le sue
creature peccatrici, e premunendo quelle che avrebbero potuto
scandalizzarsi per la loro vita.
Non è a caso che nel Sacro
Testo, prima di questo rimprovero di Gesù agli scribi, c’è
un’allusione alla sua divinità; il Redentore non era un qualunque
figlio di Davide: era Signore, era Dio, e come tale poteva benissimo
rimproverare e prevenire le sue creature. Essendo venuto a rinnovare
l’umanità, era logico che bollasse quello che più direttamente si
opponeva all’amore di Dio: l’orgoglio e l’egoismo; e poiché
gli scribi erano come maestri del popolo, era giusto che Egli
cercasse di rendere vani i loro scandali ammantati d’ipocrisia,
smascherandoli. Gli scribi mettevano tutta la loro falsa pietà e
giustizia nelle apparenze pompose, cercavano il loro tornaconto e non
amavano né Dio né il prossimo.
Gesù mette in guardia il popolo
contro questa deformazione perniciosa dalla pietà, e mostra,
nell’umile vedova che dà al tempio due soli spiccioli, come si ama
Dio: gli si dà un cuore sincero, gli si offre tutto quello che si
ha, dandogli la vita, l’anima, la mente, il cuore e le forze.
Amarlo così non significa fare cose grandi innanzi al mondo, non
significa operare con pompa esterna, ma compiere quel
poco di cui è
capace la nostra vita per il suo amore.
Che cosa posso darti, o Signore,
da questo mio povero essere? Duo
minuta, due cose
molto piccole di fronte a quello che Tu meriti, cioè l’amore a te
e al prossimo; ma in questi due spiccioli
ci dev’essere
tutta l’offerta di me stesso al tuo amore.
La vedova donò col cuore, donò
con l’anima, donò apprezzando Dio, e nella sua offerta gli diede
tutto ciò che aveva per sostentarsi, tutta
la sua forza.
Così voglio amarti, mio Dio, e
nell’umiltà della mia vita voglio porre, innanzi al tuo trono, i
due spiccioli dei quali dispongo ed in essi darti tutto me stesso.
Padre Dolindo Ruotolo
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