Commento
al Vangelo della XVII Domenica TO 2016 C (Lc
11,1-13)
La
preghiera insegnataci da Gesù Cristo
Gesù
Cristo, com’era solito, si era appartato in un
luogo solitario
per pregare, ed uno dei suoi discepoli, notando la grandiosa
elevazione del suo spirito e l’illuminazione amorosa di tutta la
sua persona, fu preso da un grande desiderio di pregare come Lui e
gli disse: Insegnaci
a pregare come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli. È
chiaro, da questa domanda e da luoghi paralleli, che gli apostoli
riconoscevano di non saper pregare e avevano un desiderio tanto più
intenso di farlo, quanto più affascinante era il loro Maestro
nell’orazione.
Allora
Egli rifulgeva d’amore e di maestà e conquideva, suscitando
desideri di unione con Dio; la trasfigurazione del Tabor in fondo, fu
una delle manifestazioni più belle della sua preghiera e ci dà
un’idea della grandiosa maestà che Egli aveva quando si rivolgeva
al Padre.
Egli,
infatti, non era figlio di adozione ma consustanziale al Padre; non
lo pregava perché avesse bisogno di domandare, ma per lodarlo,
benedirlo e amarlo in nostra vece, e mettere così per noi quella
base di meriti che mancavano alla nostra preghiera.
Domandava
per noi, amando, in una perfettissima unione col Padre, ammirando e
adorando i suoi disegni nella stessa luce dell’infinita sua
sapienza e rifulgeva di singolare e arcana bellezza che affascinava e
conquideva.
Come uomo
e Mediatore degli uomini Egli supplicava il Padre per le nostre
necessità e aveva sul volto tutto il fulgore della carità; come
Figlio di Dio, Egli lodava, benediceva e amava il Padre, e splendeva
dell’eterna Luce. Aveva la maestà di Dio e la tenerezza della più
soave dolcezza: immobile, con lo sguardo al cielo e le braccia aperte
in un’espansione d’amore, aveva il sorriso della più profonda
intimità con Dio, e nello stesso tempo lo sfiorava l’angustia
delle nostre necessità; tutto questo costituiva uno spettacolo
ineffabile per gli apostoli, benché essi non giungessero ancora ad
apprezzarne il valore.
È
evidente che Gesù Cristo, assentendo alla supplica rivoltagli dal
discepolo in nome di tutti, offrì una formula di preghiera che era
l’eco della sua medesima orazione. San Luca non la riporta alla
lettera e tralascia qualcuna delle domande, abbreviandola, forse
perché conosciutissima e di uso comune, ma nella medesima formula
più sintetica che ce ne dà c’è la sostanza di quella preghiera,
e nella sintesi stessa il Signore vuole ammonirci che non ha voluto
darci strettamente una formula esclusiva
di
preghiera, ma ha voluto tracciarci le linee direttive di tutte le
nostre preghiere. Il Pater
noster
–
se
può dirsi così –, è come bussola che orienta nella giusta
direzione le nostre preghiere, e per questo la Chiesa ce lo fa
recitare sempre al principio e al termine di tutte le ore canoniche,
quasi per determinare innanzi a Dio il preciso significato e
l’intenzione di tutte le sue petizioni.
Il Padre Nostro
Padre,
ecco
il modo come l’anima deve orientarsi a Dio. Non deve considerarlo
col terrore superstizioso che avevano i pagani della divinità,
espresso a volte dalle stesse forme dei loro idoli né col timore
servile dell’ebraismo di allora che aveva deviato dallo spirito dei
patriarchi; doveva riguardarlo come Padre,
quindi
come Creatore di tutto e come proprio Creatore, provvido e
amorosissimo.
Il padre
naturale dà la vita al figlio, amando, e la conserva amando, quando
non è ridotto allo stato brutale dal vizio.
Dio dà
la vita attraverso un atto della sua volontà infinita che è Amore;
e la conserva con la provvidenza che è amore; l’anima, dunque,
prega, confessando la realtà di Dio, il suo Amore e la sua
provvidenza, e confessandola in un atto di viva fede. Se non c’è
questa fede che ci fa parlare a Dio come all’Essere infinitamente
esistente, sapiente ed amante, se non si ha con Lui l’intimità
filiale che viene dalla fede veramente e praticamente sentita e
convinta, la preghiera non supera la nostra povera atmosfera e
diventa più uno sfogo della propria impotenza che una fiduciosa
domanda fatta a Dio.
La
vacuità di tante preghiere che facciamo sta proprio nella mancanza
della fede vera in Dio. Molti, moltissimi, pregando hanno ancora lo
spirito idolatrico; credono e non credono a Dio, lo ammettono e non
lo ammettono, esitano nel loro cuore e, inconsciamente, vorrebbero
metterlo alla prova, come può mettersi alla prova l’efficacia di
una medicina.
Padre,
sia santificato il tuo nome. Ecco
una seconda direttiva assolutamente necessaria alla nostra preghiera:
considerare tutto alla luce della gloria di Dio e volere tutto
secondo i fini della sua volontà. A volte noi giungiamo alla
stoltezza somma di voler imporre le nostre vedute e i nostri
interessi umani al Signore, e rimaniamo, quindi, inetti e impotenti,
nell’ambito delle nostre povere forze. Quando l’anima crede
veramente e apprezza Dio per quello che è, domanda in piena
sottomissione alle esigenze della gloria di Lui che è diffusione di
misericordia e di bene anche per noi.
Come
potrebbe aversi il calore del sole sottraendosi ai suoi raggi, e
pretendendo di ridurli nell’ambito della propria meschinità? Il
trionfo della luce del sole, e quindi la rimozione degli ostacoli che
ne impediscono la diffusione, è anche il conseguimento pieno del
nostro desiderio di calore vivificante.
Nell’orazione
bisogna, dunque, dare a Dio il posto che gli spetta, e desiderare la
vita a ciò che è necessario alla vita, unicamente per la sua gloria
e per il trionfo del suo amore in noi, nella pienezza del suo regno:
Venga
il tuo regno.
Se si
pondera veramente la meschinità delle nostre aspirazioni nella
preghiera, volta tutta al compimento del nostro egoismo, e se si
pensa che la massa del popolo ignora quasi completamente che cosa
significhi amare Dio e desiderarne la gloria, non suscita più
meraviglia che tante preghiere rimangano nella nostra povera cerchia,
e sono inesaudite.
Nel
tracciarci la direttiva delle nostre preghiere, Gesù Cristo
distingue nettamente le esigenze della vita dell’anima da quelle
della vita del corpo nella nostra condizione naturale. Per questo il
Pater
noster ha
due parti determinate; alla vita dell’anima è necessaria
l’intimità filiale con Dio, per la grazia che la rende sua figlia:
Padre.
In
questa semplice parola c’è la sintesi stupenda delle elevazioni
dell’anima negli splendori della grazia che la restaura, la
santifica e la eleva. L’intimità con Dio è amore nelle sue
molteplici gradazioni e sfumature e questo amore si sintetizza tutto
nel desiderio di glorificare Dio e di farlo regnare nella propria
vita e in quella di tutti.
Noi,
quindi, domandiamo a Dio lo stato di grazia, l’amore verso di Lui,
lo zelo per la sua gloria, la santificazione delle anime e il suo
regno in tutte nel dominio soavissimo dell’amore. Tutte le grandi
manifestazioni della vita della santità e della vita della Chiesa
stanno in queste brevi e mirabili parole.
Per la
vita del corpo, ordinata a quella dello spirito, noi abbiamo bisogno
dell’alimento e di tutto quello che serve all’ordine e alla
missione temporale della medesima vita: Dacci
oggi il nostro pane quotidiano;
abbiamo
bisogno della pace, bene assolutamente imprescindibile da una vita
che non sia concepita, come si fa oggi, quale esasperante tramestio
di prepotenze e di oppressioni.
Ora la
pace non è fuori dell’anima, e tanto meno può considerarsi come
l’oppressione del più forte sul più debole; essa è
tranquillità dell’ordine,
e
questa tranquillità viene dall’armonia della coscienza e da quella
della carità: Rimetti
a noi i nostri peccati,
come
noi
li
rimettiamo ad ogni nostro debitore. Siamo
tutti miserabili, e nessuno può presumere di essere dappiù di un
altro; ci confessiamo peccatori per avere il perdono e promettiamo
perdono a quelli che ci fanno del torto. Così viene stroncato nella
radice quello che disturba la pace.
Grazia di
Dio in noi e carità verso il prossimo sono due beni spirituali dai
quali dipende la tranquilla prosperità temporale della vita; i
peccatori non hanno mai bene; anche quando satana si sforza di farli
apparire prosperati, e dove manca la generosa carità, manca la
benedizione di Dio. Satana sfrutta la posizione di alcuni – molto
pochi in realtà rispetto alle masse –, che, non essendo più
capaci di beni eterni, raccolgono come tenue premio di qualche opera
buona, i miseri beni temporali; egli li presenta come esseri felici
nel male, ma è una menzogna anche in questi la pace, perché sono
infelicissimi nel loro cuore ed è una menzogna maggiore il far
credere o il supporre che il peccato porti la prosperità.
No, la
massa dei peccatori sta in mille tribolazioni, e la massa dei
prepotenti è infelicissima, perché è stretta dai rimorsi e dalle
angustie interiori che tolgono loro la pace. Che cosa sono i beni
temporali senza la pace? E come si può avere pace senza il perdono
di Dio e senza la grazia? Come poi si può avere la grazia e il
perdono senza darlo a chi ci è debitore?
Quando la
nostra preghiera per i beni temporali non sta su queste direttive
precise è una preghiera vana; quando cioè non si domanda ciò che
serve alla vita, e non più, e non lo si domanda nell’armonia della
grazia e della carità, la preghiera diventa vana, e a volte può
farci credere, per illusione diabolica che produca anche l’effetto
contrario. Quanti hanno l’anima piena di avidità, di odio,
d’invidia e di peccati di ogni genere e domandano a Dio non ciò
che serve al corpo per la vita dello spirito, ma ciò che serve al
corpo per la vita materiale, e si lamentano, poi, di non essere
esauditi!
Quanti
hanno peccati impuri che disordinano la vita, anche occultamente e
senza che nessuno lo sappia, e si lamentano della miseria corporale
che ne è immediata conseguenza! Quanti sono spietati nel giudicare e
più spietati nell’inveire contro il prossimo, e pretendono da
questa bolgia far risuonare la loro preghiera nei cieli, dove tutto è
armonia soavissima di carità!
La vita è
una prova di pochi anni, nei quali dobbiamo meritarci, per la grazia
di Dio, il premio eterno. Questa prova ci viene dalla condizione
stessa nella quale viviamo e può venirci anche dalle insidie e dagli
assalti di satana. C’è, dunque, un terzo elemento della nostra
vita terrena: la
difesa nei pericoli. Senza
la difesa provvida che può venirci solo da Dio la vita dell’anima
è travolta dalla colpa e la vita del corpo dalle sventure. Perciò
Gesù Cristo ci fa domandare a Dio: Non
ci indurre in tentazione,
cioè
non permettere che ci vinca la tentazione e, nel provarci, Tu donaci
la forza di esserti fedeli, riducendo le prove a causa della nostra
fragilità.
Condizioni
per essere esauditi: perseveranza nel pregare e pieno abbandono alla
bontà di Dio
Gesù
Cristo, a complemento della sua istruzione sulla preghiera, espresse
in una parabola e in una analogia la necessità di perseverarvi e di
abbandonarsi alla divina bontà. La parabola ha un significato
profondissimo, pur sembrando, a primo aspetto che non possa
applicarsi completamente alla relazione dell’anima con Dio: un uomo
riceve a mezzanotte la visita di un amico che, viaggiando, gli
domanda ospitalità.
Gli
Ebrei, quando era il tempo dei grandi calori, viaggiavano di notte, e
quindi non c’è da meravigliarsi che questo pellegrino abbia
domandato ospitalità a mezzanotte. Siccome in Palestina non si era
soliti avere provviste di pane, cocendosene ogni giorno quel tanto
che bastava, l’amico del viaggiatore se ne trovava sprovvisto e,
per non mancare ai doveri di ospitalità, andò a domandarne in
prestito ad un suo conoscente, e bussò alla sua porta. Ma l’altro
gli rispose che era già a letto con i suoi figli, non voleva essere
molestato, e
non poteva alzarsi per
non svegliarli dal sonno. L’amico non si perse di coraggio a quella
repulsa, ma continuò a picchiare con tanta insistenza che l’altro,
non tanto per amicizia quanto per toglierselo davanti, scese dal
letto e gli diede i tre pani che domandava.
Gesù
Cristo soggiunse, subito dopo aver raccontato la parabola: Ed
io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e
vi sarà aperto, poiché chi chiede riceve, chi cerca trova e a chi
bussa sarà aperto. Dunque
quella parabola aveva questo senso principale: Insistere
per ottenere, insistere con la fede di ottenere, insistere perché
Dio vuole da noi questa insistenza per esaudirci.
L’argomento
generale di Gesù è dal meno al più: se l’amico che non voleva
essere molestato e che non aveva la volontà di dare, finisce per
assentire, se non all’amici-zia, almeno all’insistenza, quanto
più Dio che vuol essere pregato e si diletta delle nostre insistenze
filiali, ascolta ed esaudisce le nostre preghiere perseveranti.
Dio non
si annoia delle nostre suppliche, non può annoiarsi, ma per
esaudirci vuol essere pregato con l’insistenza che si avrebbe fino
ad annoiare un altro.
Il
Signore lo vuole per nostro bene, perché solo l’insistente
preghiera ci addestra a parlargli filialmente e ci mette in
comunicazione con Lui.
Se
fossimo ascoltati alla prima domanda, le nostre preghiere sarebbero
insignificanti.
Siamo
come i motori che non si mettono in marcia se non vengono riscaldati
dal medesimo movimento e abbiamo bisogno d’insistere nel domandare,
per infiammarci il cuore e abituarlo a quello slancio d’amore che
ci rende capaci di essere esauditi. Nella sua divina delicatezza, il
Signore non vuole darci ciò che domandiamo per elemosina, ma
richiede che la nostra insistenza sia come il contributo alla grazia
che dobbiamo ricevere. Noi chiediamo
alla
sua potenza, cerchiamo
alla
sua sapienza e bussiamo
al
suo amore. Chiedendo
insistentemente,
la sua potenza sostiene la nostra debolezza; cercando,
la
sua sapienza guida le nostre forze; bussando
il
suo amore ci apre le porte della misericordia e supplisce quelle che
le nostre colpe demoliscono.
Don Dolindo Ruotolo
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