Commento
al Vangelo della XXII Domenica TO 2016 C (Lc
14,1.7-14)
I
primi posti…
Il
Redentore, rivolto ai dottori della Legge che erano presenti e ai
farisei, domandò loro: È
lecito guarire in giorno di sabato?
Con questa domanda li pose in imbarazzo, perché essi sapevano che
guarire non era opera servile e sapevano che riprovare in giorno di
sabato un atto di carità era lo stesso che condannarsi. Perciò
tacquero. È evidente dalle parole di Gesù che, pur tacendo, essi
erano contrari a far guarire uno in giorno di sabato, non tanto per
amore della Legge, quanto per ostilità verso il Signore e, vedendo
che Egli, difatti, guarì l’idropico, fecero segni di riprovazione,
e mormorarono nel loro cuore. Perciò Gesù rispondendo
ai
loro pensieri disse: Chi
di voi, se gli cade l’asino o il bue nel pozzo il giorno di sabato
non lo estrae subito?
I farisei
non poterono rispondergli nulla, ma si mostrarono contrariati di
quella umiliazione subita e, mettendosi a tavola, quasi per
rifarsene, ebbero cura di prendere i primi posti. È probabile che
qualcuno di essi fosse stato invitato, proprio allora, dal capo di
famiglia a cedere il posto che spettava ad altri più degni, e che ne
avesse fatto lagnanza, perché Gesù rivolse la parola a tutti e
cominciò ad esortarli a prendere l’ultimo posto se non per virtù,
almeno per non fare una brutta figura innanzi agli altri.
Certo,
Gesù voleva spingerli a cercare l’ultimo posto per umiltà vera e
sentita, ma i suoi commensali non erano capaci di tanto, e si
contentò di convincerli almeno con un motivo umano. Con questo,
volle in certo modo promulgare e sanzionare quelle regole di buona
creanza che sono una certa preparazione e disposizione alla virtù
vera, perché rappresentano sempre un dominio sulle proprie debolezze
e un primo abbozzo della carità verso gli altri.
È
importante, infatti, anche ai fini della virtù, disciplinare le
proprie azioni con la sana educazione e il galateo. La virtù vera
produce sempre un modo di agire delicato e gentile, ma quando la
virtù manca o non si è ancora formata, il modo delicato e gentile
produce nell’anima una disposizione naturale che può facilitare,
poi, l’azione della grazia. Gesù Cristo non esorta ad operare per
un fine naturale, è evidente, ma a constatare che la mancanza di
virtù induce una mancanza di forme esterne che raccolgono il
disprezzo degli altri. Ai farisei, del resto, che operavano solo per
essere onorati innanzi a tutti, era questo il motivo per indurli a
smettere quei loro atteggiamenti tracotanti e superbi che tanto male
facevano all’anima loro.
Il
galateo, base della virtù
Forse
se alle anime principianti nella virtù s’insegnasse il galateo ne
guadagnerebbe la stessa virtù; il galateo è come un abito decente
posto addosso ad un pover’uomo del volgo, è una spinta a cambiare
certe abitudini disordinate, contratte a volte dalla nascita, con
abitudini più decorose e l’incivilimento della vita che è poi
utilizzato dal Signore per l’elevazione dello spirito, è il primo
dirozzamento della natura che si dona a Dio, è un tratto di nobiltà
insegnato a chi non ha l’abito della gentilezza.
Insegnando
a scegliere l’ultimo posto negl’inviti, Gesù notò che alla
tavola del fariseo c’erano tutte persone di riguardo, le quali
perciò facevano a gara a prendere i primi posti.
Era una
vana ostentazione della propria eccellenza, e un profondersi in
cerimonie fatte per pura convenienza. Gesù scrutava i cuori e vedeva
il retroscena di quegl’inviti fatti per opportunismo, per
disobbligo, per obbligare gli altri, e sentì in quel pranzo tutta
l’assenza agghiacciante di ogni fine gentile e soprannaturale;
perciò, rivolto al fariseo che lo aveva invitato, lo esortò, per
un’altra volta che volesse fare un pranzo, ad invitarvi i poveri,
gli storpi, gli zoppi e i ciechi, per averne merito poi innanzi a Dio
nella vita eterna.
Esortandolo
così, Gesù gli rendeva un servigio spirituale, e lo indirizzava per
la via del vero bene, dandogli Egli stesso un contraccambio prezioso
dell’invito che in quel giorno aveva avuto.
I
pranzi e le feste
L’esortazione
di Gesù al fariseo è preziosissima per noi, e ci guida in quello
che è uso comunissimo tra tutte le genti: i pranzi fatti nelle feste
e nelle solennità. Gesù non condanna un pranzo, fatto anche per
accrescere la letizia di una festa, ma ci esorta a non renderlo una
misera speculazione di orgoglio o d’interesse personale. Egli vuole
che alle nostre feste partecipino i poveri e gl’infelici, e non
dice proprio letteralmente di invitarli a pranzo, il che pure sarebbe
lodevole, ma di renderli partecipi della nostra gioia.
Un pranzo
non può ridursi, evidentemente, ad una scorpacciata, il che sarebbe
cosa indegna; è come un accrescimento della famiglia fatto con
persone care ed è un’effusione di generosità, poiché la gioia è
naturalmente espansiva.
Ora, noi
siamo tutti figli del Padre celeste, ed è giusto che facciamo
usufruire della nostra generosità quelli che ne hanno più bisogno.
Oh, se si capisse quale vantaggio porta la carità e quanta
benedizione portano con loro i poveri nelle nostre feste, non faremmo
mai mancare in esse la beneficenza e la carità. È così che i
pranzi non si riducono ad un più o meno larvato epicureismo, ed è
così che la povera gioia della terra si muta in gioia del Cielo.
Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo