Commento al Vangelo della XVIII Domenica TO 2013 C (Lc 12,13-21)
Non preoccuparsi dei beni terreni
Mentre Gesù parlava
per gettare nei suoi discepoli e nella sua Chiesa le basi granitiche d’un forte
carattere cristiano di fronte alle lotte e alle persecuzioni, un giovane dalla
turba lo interruppe, pregandolo d’intervenire con la sua autorità presso un suo
fratello, per la divisione dell’eredità. Per simili questioni di testamenti e
di eredità spesso i rabbini erano chiamati come giudici, e quel giovane,
appellandosi a Gesù, volle appellarsi al più autorevole dei maestri.
Il Redentore guardava in quel momento i
secoli futuri, considerava il cammino della sua Chiesa nel mondo, e gettava le
basi del carattere cristiano di fronte alla vita terrena; si direbbe che era
tutto preso da questa grande idea, e per questo si rifiutò di giudicare,
dicendo: O uomo, chi mi ha costituito giudice o arbitro tra voi?
Egli era Giudice di tutti, e poteva
essere arbitro, ma, in quel momento, si occupava della sua grande missione di
Redentore, pensava alla sua Chiesa e protestava che Egli non era venuto per
trattare di misere questioni di avarizia o d’interesse e non era costituito
capo dell’umanità per questo.
Evidentemente quel giovane contendeva
col fratello non per una questione di giustizia, ma di avarizia e domandava
l’intervento di Gesù non per farlo arbitro assoluto, ma per avere da Lui una
sentenza favorevole alla propria avidità; ora, Gesù non era costituito giudice
e arbitro per assecondare l’avarizia e l’ingiustizia. Egli, poi, guardò più
lontano e, rispondendo a quel giovane, volle gettare un’altra base del
carattere cristiano, dicendo a tutti: Guardatevi con grande cura da ogni
avarizia, poiché la vita dell’uomo non sta nella sovrabbondanza dei beni che possiede.
I beni materiali non sono la vita dell’uomo
né possono costituire la sua meta, tanto meno può costituirla l’avidità di
questi beni; il concentrarsi in questa sola preoccupazione è causa della viltà
del carattere, poiché l’uomo non ha il coraggio di affrontare il mondo e la
tirannide quando vuol salvare i propri interessi temporali, il proprio posto,
l’impiego e la situazione nel mondo.
Egli, allora, diventa servile,
accondiscende alla prepotenza degli empi, dissimula la propria fede e i propri
doveri, è praticamente apostata della verità e del bene. Il non riporre la
fiducia nei beni terreni e il non preoccuparsene è essenziale al carattere
cristiano, perché l’arma preferita dai tiranni è proprio quella di spogliare e
di affamare; per questo Gesù provò con una parabola quanto fosse vano riporre
la speranza in quei beni che si debbono lasciare e quanto fosse stolto compromettere
la propria situazione eterna per quello che è fugace e non può conservarsi.
Se ciò che si può avere in terra durasse
sempre, sarebbe meno stolto attaccarvisi; ma, sapendo che inesorabilmente
passa, e che è per noi una posizione provvisoria, è vera stoltezza stabilirvi
il cuore.
La parabola di Gesù
Ecco la parabola che disse Gesù, la
quale può applicarsi a ciascuna creatura. Ad un uomo ricco fruttò molto la
campagna. L’abbondanza del raccolto gli dava una sicurezza incrollabile per
l’avvenire e pensò di tutelare quella ricchezza per renderla stabile. Decise,
perciò, di demolire i vecchi depositi, angusti e ristretti, e di fabbricarne
altri più grandi. Era questa la sua sicurezza, e si riprometteva già una vita
ricca e abbondante per parecchi anni, quando la voce di Dio gli si fece
sentire, e gli disse che in quella stessa notte sarebbe morto.
A che cosa, allora, poteva servirgli
quello che aveva raccolto se doveva lasciarlo? E di chi sarebbe stato il frutto
delle sue fatiche? Non avendo egli pensato ai beni dell’anima che cosa poteva
portarsi nell’altra vita, innanzi a Dio?
Ogni uomo si preoccupa di procurarsi un
benessere materiale, una casa elegante, delle entrate sicure, delle comodità
signorili, e fa spesso immensi sacrifici per riuscirvi, anzi a volte
compromette persino l’anima sua. Ma i beni materiali non allungano la vita e
tanto meno la rendono eterna; passano gli anni, i mesi, i giorni, e tutto deve
lasciarsi. È un pensiero terribile che dovrebbe renderci sapienti.
Ci sono quelli che accumulano denaro,
case, oggetti di arte, gioielli, monete d’oro, libri rari, e si attaccano a
queste cose; ma a che servono? Dopo la morte vengono dilapidate dagli altri, e
non danno altra eredità che una tomba! Chi si attacca a queste cose si
preoccupa solo di conservarle, non ha il cuore libero in Dio, non ha un
carattere capace di resistere al male e, posto nell’occasione, cade nell’abisso
del peccato o dell’apostasia. A volte si teme più la privazione dei beni
materiali che la morte stessa e, di fronte al pericolo di perdere la propria
posizione, si rimane titubanti e si ricorre a tutti i sotterfugi
dell’opportunismo.
È questa la vera causa dell’acquiescenza
dei buoni alle prepotenze dei tiranni, ed è la causa per la quale questi
finiscono per prendere il sopravvento. Si giunge ad ogni viltà e si accettano
le più empie sopraffazioni, perché si teme per il posto, per la scuola, per
l’avvenire materiale dei figli e si soggiace alle più turpi ed esiziali leggi
anticristiane. Eppure basterebbe confidare in Dio e affrontare con intransigenza
assoluta l’empietà, per costringerla alla resa.
Tutto è precario nella vita, fuorché la fiducia in Dio
Gesù Cristo, con parole tenerissime e
paragoni mirabili esorta i suoi discepoli e i cristiani di tutti i tempi ad una
fiducia così piena e illimitata in Dio da rendere il proprio carattere forte e
incrollabile in qualunque prova: La vita vale più del cibo, e il corpo più
del vestito; ora, Dio
che ha dato la vita e che ha dato il corpo, non darà il cibo e il vestito a
quelli che confidano in lui? Egli mostra la sua provvidenza persino negli
animali e li provvede di cibo, benché essi non seminino, non mietano e non abbiano
né dispense né granai. È un argomento perentorio sulla provvidenza di Dio,
poiché è certo che nessun animale manca del suo cibo, pur non avendo speciali
attitudini per accumularne riserve; esso va, lo cerca, e Dio glielo fa trovare;
se si riscontra qualche eccezione a questa regola è proprio fra gli animali che
convivono con gli uomini, e che dovrebbero essere più certi del loro sostentamento.
Per
questo Gesù cita il paragone del corvo che vive liberamente nei campi. La
sicurezza della provvidenza non viene dall’uomo ma da Dio, ed è proporzionata
alla fiducia che si ha in Lui, non all’entità degli stipendi o delle entrate.
In questo il Signore ci vuole
interamente abbandonati a Lui e mostra con i fatti come falliscono tutte le nostre
iniziative per assicurarci una posizione materiale nel mondo. La nostra vera
assicurazione sta in Dio, perché da Lui dipende la nostra vita.
Nessuno può accrescere la propria
statura a furia di pensarci, se mai potrebbe diminuirla, consumandosi la salute
nella preoccupazione. Ora se non si può fare quello che è meno, come si può
pretendere di fare il più, provvedendo alla posizione stabile della vita? Quale
posizione, poi, può essere mai stabile?
Se hai un posto, puoi perderlo o puoi
ammalarti; se hai dei campi, possono isterilirsi; se delle case, possono
crollare o essere oberate di tasse; se dei titoli di rendita, possono essere svalutati;
se una persona cara che ti provvede, può venirti meno.
Tutto è precario fuorché la fiducia in
Dio, il seguire la sua volontà, il servirlo e attendersi dalla sua bontà il sostentamento
e il necessario alla vita.
Ecco i gigli del campo: non lavorano e
non filano, eppure sono vestiti da Dio come neppure Salomone fu vestito nella
sua magnificenza; ora, se Dio ha cura delle piante non l’avrà dell’uomo che lo
serve e confida in Lui? Perché tormentarsi lo spirito nelle cose
materiali, come fanno quelli che non credono in Dio? Pensare al proprio
sostentamento sotto lo sguardo di Dio non è un male, ma tormentarsi lo spirito
o, peggio, andare contro la
divina volontà, presumendo di pensare meglio al proprio sostentamento e al
proprio avvenire non è una vera pazzia?
Gesù, anzi, va oltre e insegna non solo
a non tormentarsi lo spirito per accumulare o per procurarsi una posizione, ma
ad allargarlo nella carità e nella generosità fatta per puro amore di Dio, e a
cercare i beni eterni, per essere certi di avere anche quelli temporali. È una
sublime legge della vita, questa, che rende l’anima veramente superiore a tutte
le cose terrene, ed eroica nel conservare quei beni e quei tesori eterni che
non periscono mai. Pensare che Dio si è compiaciuto di darci il regno, cioè costituirci come
padroni nel mondo, confidando in Lui, e pensare che ci ha dato il regno, orientandoci
alla vita eterna, è tale libertà e sicurezza di spirito da renderci dominatori
del mondo, trionfatori della vita, e strumenti della divina provvidenza per gli
altri.
Essere distaccati da tutto, vivere
sempre provvisoriamente sulla terra, aspettare tutto da Dio e lavorare non
tanto per guadagnare, quanto per compiere la sua volontà nella missione che ci
dà: ecco il mirabile segreto di una superiorità placida di carattere e di una
pace profonda che nessuno può turbare e nessuno può sopraffare.
Com’è commovente pensare: Dio si prende
particolare cura di me, fino al capello del mio capo! Veder cadere un capello e
pensare: Non è caduto senza la divina volontà ci fa sentire in pieno
nelle braccia della divina provvidenza, e non ci fa apparire la vita come una
confusione di eventi casuali o capricciosi.
Vivere non solo abbandonati alla divina provvidenza, ma
esserne strumenti con la generosità, l’elemosina, il soccorso dato agli altri,
guardando ai beni eterni che nessuno può sottrarci significa porre il proprio
cuore nei cieli, cercarvi un eterno tesoro, e curare poco le violenze o le
sopraffazioni degli uomini.
Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo