sabato 24 agosto 2013

Sforzarsi di giungere al Cielo

Commento al Vangelo della XXI Domenica TO 2013 C (Lc 13,22-30)

Sforzarsi di giungere al Cielo
Mentre Gesù s’incamminava verso Gerusalemme, un uomo gli domandò se erano pochi quelli che si salvavano. Perché gli fece questa domanda? Forse perché, avvicinandosi a Gerusalemme, considerò i peccati dell’ingrata città, o considerò i ruderi delle rovine causate dalle antiche guerre; forse anche perché avvicinandosi al centro, si constatava di più nel popolo il rilassamento e la corruzione.
        Gesù Cristo non rispose direttamente alla questione proposta, perché essa non interessava gli uomini ma Dio. Che importa, infatti, a noi, sapere se sono pochi o molti quelli che si salvano? Ciò che è necessario, per noi, è salvarci e, poiché non c’è un destino di perdizione per alcuni o di salvezza per altri, salvarci dipende dal nostro sforzo nel fare il bene e dal nostro filiale appello alla divina misericordia.
        Più che sapere il numero degli eletti, bisogna sforzarsi di appartenervi, senza presumere di poter avere una posizione di privilegio nel Paradiso solo perché la si è avuta sulla terra, facendo parte del popolo eletto. È questo il senso fondamentale della risposta di Gesù. Egli esortò ad entrare in Cielo per la porta stretta, cioè per la via delle rinunce alle passioni disordinate e della fedeltà alla divina Legge.
        Il mondo crede stretta e opprimente questa via, e Gesù la chiama stretta in questo senso, ma, in realtà, la vera porta stretta e opprimente è quella del male, perché stringe l’anima nei lacci della più terribile schiavitù. La porta del Cielo appare stretta, ma in realtà è immensamente larga e bella; basta introdurvisi per intenderlo.
        Porta stretta può chiamarsi anche l’ultimo epilogo della vita, quando si va a Dio con quello che si è operato, ed essendo finito il tempo della prova, non si può mutare più la propria condizione.
        La giustizia divina allora è come una stretta, una valutazione precisa, evidente e perciò inappellabile della vita. Molti, in quel momento, vorrebbero entrare, cioè vorrebbero mutare la loro condizione, ma non lo potranno perché sarà chiusa la porta, sarà finita la vita del tempo, e non si potrà presumere di ricominciarla. Il pensare, come fanno tanti stolti, che dopo la morte si possa riprendere, in altro modo e in una nuova esistenza terrena, il cammino sulla vita, è una fantasia pericolosa; quando si è giunti si è giunti, e quando si è chiusa la porta della vita non c’è altra alternativa: o si rimane dentro col Padre di famiglia a godere, o si rimane fuori, nell’eterna perdizione, a soffrire.
        Rivolgendosi direttamente al popolo ebreo, Gesù fa notare che la sua posizione di privilegio tra i popoli della terra non costituiva un titolo per il conseguimento dell’eterna gloria. Se non avranno operato il bene, si troveranno così lontani da Dio nell’eternità, com’è lontano dal padrone di casa uno che gli è completamente sconosciuto; saranno riguardati puramente e semplicemente come operatori d’iniquità, e saranno condannati alla perdizione eterna, lontani dai loro santi, e lontani anche da tutte le creature salve che verranno da ogni parte del mondo.
        Avverrà allora che gli ultimi chiamati da Dio nel suo regno saranno i primi, e che i primi, cioè tanti che fanno parte del popolo eletto, chiamato per primo da Dio, saranno gli ultimi.
        La via della salvezza è stretta, perché molti la insidiano e cercano di porvi ostacoli. C’è nel mondo una strana inimicizia contro tutto quello che è bene, un’inimicizia che viene da suggestioni diaboliche, e che a volte abbindola anche i buoni, rendendoli strumento di male involontariamente.
         È necessario tirare dritto e guardare l’ultima Meta che dobbiamo raggiungere.
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 17 agosto 2013

Amore vero e sacrificio eroico

Commento al Vangelo della XX Domenica TO 2013 C
(Lc 12,49-53)

Amore vero e sacrificio eroico
Molti hanno poetato sul nome di Roma, dicendo che è un nome d’amore: Roma = Amor. Essi non pensano però che, considerata, nella sua vita pagana, Roma è un amore rovesciato che equivale all’odio implacabile. Roma imperiale specialmente, ha disseminato il mondo di rovine e di stragi, asservendo tutto al suo imperialismo tiranno e alla fatua gloria di pochi capi. Tutte le storie, del resto, delle conquiste umane hanno questa triste eredità di odio e di sangue.
       Gesù Cristo si proclama, invece, Conquistatore d’amore per il suo sacrificio cruento e pone come base del carattere cristiano l’amore, il sacrificio eroico e la carità. Egli è venuto a portare sulla terra il fuoco, non quello della distruzione ma quello della carità e desidera solo che esso si accenda; è venuto a portarlo, sottomettendosi Egli al completo sacrificio e ai dolori che dovevano inondarlo come un battesimo, e l’amor suo glieli fa desiderare con ansia vivissima che lo tiene in angustia finché non li abbia subìti tutti. Questo amore e questo sacrificio Egli li lascia come bella eredità anche ai suoi seguaci, poiché la conversione del mondo comporterà, per essi, il subire persecuzioni e dolori persino dalle persone più care di famiglia.
       Non c’è dunque da illudersi: la predicazione del Vangelo, contrastando le passioni umane, produrrà reazioni violente che saranno causa di gravi dolori agli apostoli della divina Parola e a quelli che li seguiranno.
       Questo fu già annunciato dai profeti, ed il vederne il compimento dev’essere per tutti un argomento di verità. Gli scribi e farisei si condannavano da se stessi, rifiutando la verità, poiché sapevano distinguere gli aspetti del cielo dalle nubi o dal soffiare dei venti e non volevano distinguere i segni inconfondibili della venuta del Messia, nelle stesse persecuzioni che muovevano a Lui e ai suoi discepoli. Compivano essi stessi i vaticini dei profeti, e non si accorgevano che il loro compimento era il segno della maturità delle divine promesse.
       L’allusione all’ostinazione degli scribi e farisei nel rinnegare la verità è come un inciso al discorso di Gesù, ed Egli, subito dopo, continua il suo annuncio profetico delle grandi persecuzioni che avrebbero sofferte i suoi seguaci, esortandoli alla mansuetudine, alla prudenza e alla carità. Era questa l’unica e grande forza alla quale dovevano far appello per difendersi, perché il cristiano è figlio di pace e messaggero di carità; deve cercare in tutto l’accordo, la tranquillità e la carità, evitando, con la prudenza, quello che può inasprire gli avversari e renderli più violenti.
       È questo il programma della Chiesa, al quale essa rimane fedele nei secoli: di fronte alla brutalità dei suoi nemici che vorrebbero soffocarla cerca sempre l’accordo e la pace, e la sua diplomazia è sempre ispirata all’onore di Dio e al bene delle anime.

       Dev’essere questo lo spirito di ogni suo ministro e di ogni suo fedele, poiché l’accordo con gli avversari, o almeno la prudenza nel trattarli, quando si mostrano incapaci di un accordo, salva il bene dall’estrema distruzione. Dalla parabola che Gesù dice è evidente che Egli non vuole che i suoi seguaci siano amanti di liti, poiché nelle liti ci sono le dissensioni, le avversioni, gli odi, e questo sta agli antipodi del bene che bisogna fare alle anime. Anche quando si ha ragione, in una lite che non compromette l’anima o la coscienza, bisogna cedere, per non correre rischio d’incontrare impedimenti nel fare il bene, e per evitare d’averne la peggio anche innanzi ai giudici, come spesso avviene.

 Padre Dolindo Ruotolo
PP

mercoledì 14 agosto 2013

L'incontro con Santa Elisabetta

Commento al Vangelo: Assunzione della B.V. Maria C 2013 (Lc 1,39-56)

L’incontro con santa Elisabetta
        Maria si pose in viaggio per le vie deserte dei monti e camminava frettolosamente. Cercava la solitudine, perché aveva un gran bisogno di amare in silenzio, e correva perché era quasi come spirito e non avvertiva il peso del corpo.
        Chi ha provato un momento d’intimo amore con Dio sa quanta vita esso trasfonde in tutto il corpo, rendendolo più sottomesso all’anima, più docile strumento dello spirito; questa vita dovette essere immensa in Maria, tutta avvolta dalla fiamma dell’eterno Amore. Non poggiava quasi sul suolo e, come colomba librata al volo, divorava la via. Correva senza affannare, spinta come da un vento, perché la creazione le faceva quasi riverenza, e l’aria stessa si apriva innanzi a Lei, per non opporre resistenza ai suoi passi. Correva, esultando nel suo spirito, con passo sicuro e senza timore, perché la gioia pura dell’anima dà anche al corpo un novello vigore e una maggiore decisione nei suoi movimenti. I suoi sentimenti si arguiscono da quelli espressi a santa Elisabetta, espressione magnifica dell’anima sua benedetta: glorificava Dio, esultava in Lui Salvatore, vivente nel suo seno, si umiliava e considerava la sua grande missione nei secoli, attribuiva al Signore tutta la propria grandezza, e considerava le conseguenze della misericordia fatta da Dio alla terra, la dispersione dei superbi, l’umiliazione dei grandi e l’elevazione degli umili. Era piena di Dio, conversava con Lui, lo amava d’intenso amore, piena di riconoscenza per il compimento delle promesse da Lui fatte ad Abramo e alla sua discendenza; cantava nell’esultanza del suo spirito, ed esplose nella pienezza del suo amore innanzi alla santa cugina.
Il saluto di Maria
        Giunse presto in casa di Zaccaria e salutò Elisabetta, dice il Sacro Testo. Non salutò il consorte di lei o per delicatezza, sapendolo muto e non volendolo mortificare parlando, o perché sapeva che era momentaneamente assente. Salutò con le parole allora più in uso. La pace sia con te, o con altra simile espressione e, al suono della sua voce, il bambino di Elisabetta trasalì di gioia nel seno di lei, ed ella fu ripiena di Spirito Santo.
        La voce benedetta di Maria era come la voce stessa del Verbo Incarnato in Lei, perché Egli ne possedeva e ne elevava tutta la vita; era voce santa e santificante che operò quello che diceva come augurio di pace e, operandolo nello stesso tempo, santificò il Battista nel seno materno, e ne santificò la madre, riempiendola di Spirito Santo.
        Elisabetta vide Maria nello splendore della sua sovrumana bellezza e ne rimase profondamente colpita. Il cammino, fatto sollecitamente, le aveva anche fisicamente ravvivato il colore del volto: l’espansione con la quale le si rivolse aveva fatto come affiorare tutta l’anima sua nelle linee del corpo purissimo; era come un’opera d’arte mirabile, un misto di semplicità e di maestà grande, un insieme di umiltà e di gloria, un’armonia di gioia profonda e di compostezza imperturbabile; era bellissima come non lo fu mai nessuna creatura, e rapiva perché spirava santità e pace da ogni movimento e da ogni parola.
        Era ancora fanciulla: aveva poco più di quindici anni e, benché fosse già sviluppata, portava nella sua persona la casta e affascinante ingenuità propria dell’adolescenza. Era come un fiore aperto alla vita e, perché aperto per virtù dello Spirito Santo, conservava intatto quel candido fulgore d’integrità che è proprio delle vergini. Sembrava un angelo del Paradiso, più di un angelo, fulgente nei raggi della divinità che in Lei riposava, e diffondeva intorno una soavissima unzione di grazia che saziava lo spirito e lo inebriava d’amore verso di Dio. La sua voce non era voce di creatura umana: aveva qualcosa di misterioso, penetrava il cuore come grazia, e lo pacificava con una grande soavità; era come una melodia sommamente espressiva, tratta da uno strumento dolcissimo.

Il saluto di santa Elisabetta

        Santa Elisabetta, perciò, al vederla così grande e così bella, esclamò per ispirazione interna dello Spirito Santo: Benedetta sei tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo seno. L’abbracciò, la strinse al cuore quasi con effusione materna, perché ella era già avanzata di età; ma, nello stringerla, sentì in lei qualcosa di divino, capì per grazia il mistero della sua Maternità divina, sentì che abbracciava la Regina del cielo e soggiunse: E da dove viene a me questa grazia che la Madre del mio Signore, cioè del mio Dio fatto uomo per la salvezza di tutti, venga a me?
        Con queste ispirate parole fu come scolpita per i secoli la testimonianza della divina Maternità di Maria e della sua ineffabile grandezza. Ella non è indifferente ai salvati dal Redentore: lo porta loro, lo dona, effonde la sua grazia e la sua misericordia, dona la sua gioia, santifica in suo nome, ed è inseparabile da Lui nell’opera della salvezza.
        Se fosse stata solo un canale per il quale passò il Redentore – come dicono stoltamente i poveri protestanti –, Elisabetta, ripiena dello Spirito Santo, si sarebbe rivolta non a Lei ma al Figlio divino che le stava nel seno; ella, invece, la esaltò benedetta fra le donne, e chiamò Frutto suo il Redentore, Frutto della sua pianta purissima che, evidentemente, Ella sola poteva dare. La pianta non è un semplice canale del frutto, lo genera, lo nutre, lo matura e lo dona; bisogna andare dalla pianta per averlo e, senza la pianta, è impossibile coglierlo.
        Elisabetta vide in Maria tutto quello splendore di vita, e lo paragonò inconsciamente all’umiliante abbattimento nel quale il suo sposo, muto e sordo era venuto da lei dopo la visione dell’angelo, capì che la fede nella parola dell’angelo aveva realizzato in lei il grande mistero, come l’incredulità del marito gli aveva causato la mutezza e la sordità. Psicologicamente quell’infermità del marito le era stata motivo di non pochi fastidi nel governo della casa, e quindi esclamò: Te beata che hai creduto poiché si adempiranno le cose dette a te dal Signore.
Il cantico sublime di Maria
        Maria, a quelle parole di lode, sentì l’anima sua tutta tratta in Dio; l’umiltà le dava il senso della sua nullità innanzi a Lui; la riconoscenza le faceva attribuire tutto alla sua infinita misericordia; la luce divina che la illuminava le faceva guardare i suoi disegni su di Lei e i trionfi delle sue misericordie nei secoli, fino alla fine del mondo; perciò, elevando gli occhi al cielo, esclamò: L’anima mia magnifica il Signore.
        Mai uscì da labbro umano un cantico più sublime di gioia; mai un cuore si aprì a Dio con tanto riconoscente amore; mai l’umiltà più profonda fu armonizzata così mirabilmente con la verità, in modo da formare una melodia di annientamento e di grandezza, di piccolezza e d’immensità, di bontà e di forza che affascina l’anima e la unisce alla gioia e ai sentimenti di Maria.
        Le reminiscenze scritturali del cantico di Anna, dei salmi e dei profeti che si trovano nel sublimissimo cantico non mostrano solo la familiarità di Maria con le Sacre Scritture, ma sono come la luce delle profezie e delle figure passate che s’incontrano con la realtà e col compimento delle promesse di Dio e, lungi dall’offuscare l’originalità del canto, lo rendono nella sua concisa semplicità più splendente e più bello. Esso è come il fiore di tutto l’antico patto ed è la gemma feconda del nuovo; è il compimento delle antiche speranze e la speranza nelle nuove misericordie; è la sintesi delle compiute aspirazioni del passato, è un rapido sguardo alla storia del futuro, fino al compimento dei secoli, è il programma della vita di un’anima redenta e la sintesi delle sue elevazioni d’amore; è, infine, lo sprazzo fulgente della vita del Verbo Incarnato e della medesima Madre che lo portava nel seno. In tutta la storia del regno di Dio è una voce sempre viva, in tutto lo sviluppo della Chiesa è un programma sempre attuale, in tutte le ascensioni dei santi, è una voce sempre armoniosa che può raccogliere in un suono d’amore le mirabili armonie della grazia in loro; è un cantico fecondo e verginale, come il Cuore dal quale sgorgò ricco di significati e semplice nella sua espressione che la Chiesa canta e ricanta ogni giorno, senza che esso esaurisca la sua gioiosa e fresca scaturigine, è il canto dei pellegrini che vanno verso la Patria eterna, degli apostoli che percorrono la terra diffondendo il lieto messaggio, dei martiri che attestano la verità col loro sangue, dei confessori che la propagano, delle vergini che la vivono, dei contemplativi che la gustano, degli angeli che la esaltano, delle creature tutte nelle quali ha echi d’amore, ed è nota squillante del cantico eterno nell’eterna gloria.
        Se si recita, è una preghiera soave; se si canta è un inno trionfante che lancia lo spirito esultante in Dio; se si medita è come orto fiorito, ricco di profumi celesti. Ha un sapore sempre nuovo, un fascino sempre vivo, una delicatezza sempre verginale che i secoli non hanno potuto mai invecchiare, perché è un cantico di vita. Che gioia, o Vergine Santa, ricevere la grazia, ricevere Gesù e poter cantare con te: Magnificat anima mea Dominum! Che pace trovarsi sul Calvario della prova e poter ripetere con te, anche lacrimando, nella piena rassegnazione del cuore: Magnificat anima mea Dominum! Che dolcezza interiore elevarsi a Dio, sprezzando le gioie del mondo, e ripetere nel volo dell’anima al Bene eterno: Magnificat anima mea Dominum! Che poesia d’amore recitare con la Chiesa le grandi preghiere liturgiche, sentirsi sazi di elevazioni interiori, e volgere tutta l’anima a Dio in questo canto dell’anima tua, o Maria: Magnificat anima mea Dominum! Che conforto nelle aridità dello spirito, quando la povera nostra fontana si è come essiccata e non dà una goccia, ravvivare la scaturigine del cuore con questo tuo canto, e dare la vita alla povera terra inaridita: Magnificat anima mea Dominum!
        Anche a costo di dilungarci, noi non possiamo passare oltre senza dare almeno uno sguardo fugace a questi aspetti luminosi del cantico di Maria, e a dilettarci nella molteplice rifrazione di questa gemma preziosissima del Nuovo Patto.
        Non possiamo non commentare il profondo significato di questo canto d’amore che c’è stato donato per cantare a Dio la riconoscenza del nostro amore, perché uniti alla voce verginale della Mamma nostra, possiamo essere meno ingrati all’Amore che per noi discese dal cielo, e per amore ci redense col suo preziosissimo Sangue.
         San Zaccaria non credé all’angelo e rimase muto e sordo fino al compimento della promessa; Maria credé e parlò, anzi cantò con una melodia che abbracciò tutti i secoli. Noi, figli suoi, cantando con Lei viviamo della sua grande fede, partecipiamo alla beatitudine del suo Cuore: Beata quae credidisti, e ci rendiamo meno inetti al compimento dei disegni di Dio in noi.
Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo

sabato 10 agosto 2013

RIGUARDARSI PELLEGRINI SULLA TERRA

Commento al Vangelo della XIX Domenica TO 2013 C (Lc 12,32-48)

Riguardarsi pellegrini sulla terra
        Gli antichi, usando vesti lunghe, quando viaggiavano o lavoravano le raccoglievano con una cintura attorno ai lombi, per essere più spediti nei movimenti. Quando camminavano, poi, per andare ad una festa di nozze, celebrandosi essa nella notte, portavano le lampade accese. Gesù vuole che noi viviamo sulla terra con i lombi recinti, cioè come pellegrini, e che siamo come servi che aspettano il padrone che torna dalle nozze e che, non sapendo a che ora viene, stanno vigilanti nella notte.
        La vita è una continua aspettazione della morte, e la morte è il momento solenne nel quale Gesù, Sposo della Chiesa, viene a prendere l’anima nostra per introdurla alle nozze eterne. Egli verrà improvvisamente e quando meno lo aspettiamo, perché nessuno sa il momento della morte.
        La vita terrena è come una notte, perché non ha la vera luce della gioia, ed è una prova. Essa può riguardarsi quasi divisa in tre vigilie, come gli antichi dividevano la notte: la gioventù, la virilità, la vecchiaia. Il Signore può venire in ciascuna di queste vigilie, e bisogna che noi siamo vigilanti per accoglierlo, se vogliamo che Egli ci partecipi l’eterna gloria, quasi come un padrone che si cinge, fa sedere a mensa i suoi servi fedeli, e somministra loro il cibo. Il Signore, nella gloria, ci comunica la sua stessa felicità, e può dirsi veramente che Egli si cinge e ci alimenta, perché, nella sua grandezza, si proporziona a ciascun’anima e, secondo la capacità di lei, l’alimenta di beni eterni.
        Nella notte della vita possono venire anche i ladri a rubarci l’anima, poiché i demoni stanno sempre in agguato, ed è necessario vigilare per non farsi derubare dei beni eterni. Viene il Signore improvvisamente e, come si sta vigilanti per attenderlo, bisogna anche vegliare contro le incursioni dei demoni che tentano di compromettere il momento dell’incontro dell’anima con Dio.
        Ecco una visuale della vita che non può lasciar adito ad illusioni e non può rendere titubante il cristiano di fronte ai propri doveri: se egli è pellegrino, sta in una posizione provvisoria, nella quale non può estremamente interessarlo ciò che è temporale e tanto meno può interessarlo fino a compromettere i beni eterni.
        Egli è pellegrino che aspetta Gesù nell’ultima ora della vita e l’aspetta senza sapere quando venga. Deve dunque essere pronto a riceverlo, facendosi trovare fedele, poiché tutta la vita è vana, anzi è perdizione se non risponde alla sua divina volontà. Viene la persecuzione, viene il ladro che vuole rubarci i beni eterni, e l’anima rimane incrollabile e salda, pensando alla venuta del Re immortale, al Giudizio e alla sentenza che Egli pronuncerà per noi.
        Pietro, ascoltando questa istruzione, domandò al Maestro se l’aveva detta per tutti o solo per i suoi apostoli; egli avrebbe voluto intendere meglio che cosa significava per loro essere vigilanti e attenderlo, e domandò chiarimenti. Forse pensò che parlasse del suo regno temporale da essi atteso. Gesù Cristo non gli rispose direttamente, perché era chiaro che quell’istruzione riguardava tutti; ma gli rispose aggiungendo al suo discorso quello che riguardava in modo particolare gli apostoli, e in generale i ministri di Dio. Questi, infatti, non debbono vigilare solo per loro, ma anche per gli altri, dovendo essere dispensatori fedeli e prudenti dei doni di Dio alle anime.
        Gesù Cristo esprime questo pensiero con un’interrogazione: Chi credi tu che sia il dispensatore fedele e prudente?, ecc. Lo esprime così perché era circondato dagli scribi e farisei, dispensatori infedeli e violenti. Egli voleva dirgli: «Credi tu che ci siano dispensatori fedeli e prudenti che diano a ciascuno quello che Dio elargisce per il bene delle anime?». E, senza scendere a particolari rimproveri, insiste sul dovere che un ministro di Dio ha di vigilare sulle anime e di compiere con grande accuratezza gli uffici che ha dal Signore verso di loro, pensando al rendiconto finale. Chi crede che la vita sia un divertimento o una ricerca dei propri comodi e, lungi dal curare le anime le maltratta, dandosi ad una vita disordinata, nel Giudizio sarà considerato come un infedele e sarà punito.
Con uno sguardo divino che abbraccia il futuro, Gesù guarda tutti i suoi sacerdoti e li paragona a quelli dell’antico patto; questi possono trovare un’attenuante nelle loro miserie, ma quelli, avendo conosciuto la volontà di Dio e avendo avuto molto di più, saranno puniti molto più severamente nel Giudizio, se avranno avuto la sventura di essere infedeli. Il forte carattere di un sacerdote, perciò, dipende dal concetto che egli si forma della missione che riceve da Dio. Tutti sono pellegrini sulla terra e debbono essere vigilanti, nell’attesa dell’ora di Dio; ma il sacerdote, oltre ad essere pellegrino, è anche dispensatore dei beni celesti ed è responsabile delle anime che gli sono affidate; egli, quindi, meno degli altri fedeli può considerare la sua vita con leggerezza, o condurla disordinatamente, quasi non avesse da renderne conto; egli ha ricevuto più di tutti, e più di tutti sarà punito nelle sue infedeltà.
Padre Dolindo Ruotolo

sabato 3 agosto 2013

Non preoccuparsi dei beni terreni

Commento al Vangelo della XVIII Domenica TO 2013 C (Lc 12,13-21)

Non preoccuparsi dei beni terreni
        Mentre Gesù parlava per gettare nei suoi discepoli e nella sua Chiesa le basi granitiche d’un forte carattere cristiano di fronte alle lotte e alle persecuzioni, un giovane dalla turba lo interruppe, pregandolo d’intervenire con la sua autorità presso un suo fratello, per la divisione dell’eredità. Per simili questioni di testamenti e di eredità spesso i rabbini erano chiamati come giudici, e quel giovane, appellandosi a Gesù, volle appellarsi al più autorevole dei maestri.
        Il Redentore guardava in quel momento i secoli futuri, considerava il cammino della sua Chiesa nel mondo, e gettava le basi del carattere cristiano di fronte alla vita terrena; si direbbe che era tutto preso da questa grande idea, e per questo si rifiutò di giudicare, dicendo: O uomo, chi mi ha costituito giudice o arbitro tra voi?
        Egli era Giudice di tutti, e poteva essere arbitro, ma, in quel momento, si occupava della sua grande missione di Redentore, pensava alla sua Chiesa e protestava che Egli non era venuto per trattare di misere questioni di avarizia o d’interesse e non era costituito capo dell’umanità per questo.
        Evidentemente quel giovane contendeva col fratello non per una questione di giustizia, ma di avarizia e domandava l’intervento di Gesù non per farlo arbitro assoluto, ma per avere da Lui una sentenza favorevole alla propria avidità; ora, Gesù non era costituito giudice e arbitro per assecondare l’avarizia e l’ingiustizia. Egli, poi, guardò più lontano e, rispondendo a quel giovane, volle gettare un’altra base del carattere cristiano, dicendo a tutti: Guardatevi con grande cura da ogni avarizia, poiché la vita dell’uomo non sta nella sovrabbondanza dei beni che possiede.
        I beni materiali non sono la vita dell’uomo né possono costituire la sua meta, tanto meno può costituirla l’avidità di questi beni; il concentrarsi in questa sola preoccupazione è causa della viltà del carattere, poiché l’uomo non ha il coraggio di affrontare il mondo e la tirannide quando vuol salvare i propri interessi temporali, il proprio posto, l’impiego e la situazione nel mondo.
        Egli, allora, diventa servile, accondiscende alla prepotenza degli empi, dissimula la propria fede e i propri doveri, è praticamente apostata della verità e del bene. Il non riporre la fiducia nei beni terreni e il non preoccuparsene è essenziale al carattere cristiano, perché l’arma preferita dai tiranni è proprio quella di spogliare e di affamare; per questo Gesù provò con una parabola quanto fosse vano riporre la speranza in quei beni che si debbono lasciare e quanto fosse stolto compromettere la propria situazione eterna per quello che è fugace e non può conservarsi.
        Se ciò che si può avere in terra durasse sempre, sarebbe meno stolto attaccarvisi; ma, sapendo che inesorabilmente passa, e che è per noi una posizione provvisoria, è vera stoltezza stabilirvi il cuore.

La parabola di Gesù
        Ecco la parabola che disse Gesù, la quale può applicarsi a ciascuna creatura. Ad un uomo ricco fruttò molto la campagna. L’abbondanza del raccolto gli dava una sicurezza incrollabile per l’avvenire e pensò di tutelare quella ricchezza per renderla stabile. Decise, perciò, di demolire i vecchi depositi, angusti e ristretti, e di fabbricarne altri più grandi. Era questa la sua sicurezza, e si riprometteva già una vita ricca e abbondante per parecchi anni, quando la voce di Dio gli si fece sentire, e gli disse che in quella stessa notte sarebbe morto.
        A che cosa, allora, poteva servirgli quello che aveva raccolto se doveva lasciarlo? E di chi sarebbe stato il frutto delle sue fatiche? Non avendo egli pensato ai beni dell’anima che cosa poteva portarsi nell’altra vita, innanzi a Dio?
        Ogni uomo si preoccupa di procurarsi un benessere materiale, una casa elegante, delle entrate sicure, delle comodità signorili, e fa spesso immensi sacrifici per riuscirvi, anzi a volte compromette persino l’anima sua. Ma i beni materiali non allungano la vita e tanto meno la rendono eterna; passano gli anni, i mesi, i giorni, e tutto deve lasciarsi. È un pensiero terribile che dovrebbe renderci sapienti.
        Ci sono quelli che accumulano denaro, case, oggetti di arte, gioielli, monete d’oro, libri rari, e si attaccano a queste cose; ma a che servono? Dopo la morte vengono dilapidate dagli altri, e non danno altra eredità che una tomba! Chi si attacca a queste cose si preoccupa solo di conservarle, non ha il cuore libero in Dio, non ha un carattere capace di resistere al male e, posto nell’occasione, cade nell’abisso del peccato o dell’apostasia. A volte si teme più la privazione dei beni materiali che la morte stessa e, di fronte al pericolo di perdere la propria posizione, si rimane titubanti e si ricorre a tutti i sotterfugi dell’opportunismo.
        È questa la vera causa dell’acquiescenza dei buoni alle prepotenze dei tiranni, ed è la causa per la quale questi finiscono per prendere il sopravvento. Si giunge ad ogni viltà e si accettano le più empie sopraffazioni, perché si teme per il posto, per la scuola, per l’avvenire materiale dei figli e si soggiace alle più turpi ed esiziali leggi anticristiane. Eppure basterebbe confidare in Dio e affrontare con intransigenza assoluta l’empietà, per costringerla alla resa.

Tutto è precario nella vita, fuorché la fiducia in Dio
        Gesù Cristo, con parole tenerissime e paragoni mirabili esorta i suoi discepoli e i cristiani di tutti i tempi ad una fiducia così piena e illimitata in Dio da rendere il proprio carattere forte e incrollabile in qualunque prova: La vita vale più del cibo, e il corpo più del vestito; ora, Dio che ha dato la vita e che ha dato il corpo, non darà il cibo e il vestito a quelli che confidano in lui? Egli mostra la sua provvidenza persino negli animali e li provvede di cibo, benché essi non seminino, non mietano e non abbiano né dispense né granai. È un argomento perentorio sulla provvidenza di Dio, poiché è certo che nessun animale manca del suo cibo, pur non avendo speciali attitudini per accumularne riserve; esso va, lo cerca, e Dio glielo fa trovare; se si riscontra qualche eccezione a questa regola è proprio fra gli animali che convivono con gli uomini, e che dovrebbero essere più certi del loro sostentamento.
        Per questo Gesù cita il paragone del corvo che vive liberamente nei campi. La sicurezza della provvidenza non viene dall’uomo ma da Dio, ed è proporzionata alla fiducia che si ha in Lui, non all’entità degli stipendi o delle entrate.
        In questo il Signore ci vuole interamente abbandonati a Lui e mostra con i fatti come falliscono tutte le nostre iniziative per assicurarci una posizione materiale nel mondo. La nostra vera assicurazione sta in Dio, perché da Lui dipende la nostra vita.
        Nessuno può accrescere la propria statura a furia di pensarci, se mai potrebbe diminuirla, consumandosi la salute nella preoccupazione. Ora se non si può fare quello che è meno, come si può pretendere di fare il più, provvedendo alla posizione stabile della vita? Quale posizione, poi, può essere mai stabile?
        Se hai un posto, puoi perderlo o puoi ammalarti; se hai dei campi, possono isterilirsi; se delle case, possono crollare o essere oberate di tasse; se dei titoli di rendita, possono essere svalutati; se una persona cara che ti provvede, può venirti meno.
        Tutto è precario fuorché la fiducia in Dio, il seguire la sua volontà, il servirlo e attendersi dalla sua bontà il sostentamento e il necessario alla vita.
        Ecco i gigli del campo: non lavorano e non filano, eppure sono vestiti da Dio come neppure Salomone fu vestito nella sua magnificenza; ora, se Dio ha cura delle piante non l’avrà dell’uomo che lo serve e confida in Lui? Perché tormentarsi lo spirito nelle cose materiali, come fanno quelli che non credono in Dio? Pensare al proprio sostentamento sotto lo sguardo di Dio non è un male, ma tormentarsi lo spirito o, peggio, andare contro la divina volontà, presumendo di pensare meglio al proprio sostentamento e al proprio avvenire non è una vera pazzia?
        Gesù, anzi, va oltre e insegna non solo a non tormentarsi lo spirito per accumulare o per procurarsi una posizione, ma ad allargarlo nella carità e nella generosità fatta per puro amore di Dio, e a cercare i beni eterni, per essere certi di avere anche quelli temporali. È una sublime legge della vita, questa, che rende l’anima veramente superiore a tutte le cose terrene, ed eroica nel conservare quei beni e quei tesori eterni che non periscono mai. Pensare che Dio si è compiaciuto di darci il regno, cioè costituirci come padroni nel mondo, confidando in Lui, e pensare che ci ha dato il regno, orientandoci alla vita eterna, è tale libertà e sicurezza di spirito da renderci dominatori del mondo, trionfatori della vita, e strumenti della divina provvidenza per gli altri.
        Essere distaccati da tutto, vivere sempre provvisoriamente sulla terra, aspettare tutto da Dio e lavorare non tanto per guadagnare, quanto per compiere la sua volontà nella missione che ci dà: ecco il mirabile segreto di una superiorità placida di carattere e di una pace profonda che nessuno può turbare e nessuno può sopraffare.
        Com’è commovente pensare: Dio si prende particolare cura di me, fino al capello del mio capo! Veder cadere un capello e pensare: Non è caduto senza la divina volontà ci fa sentire in pieno nelle braccia della divina provvidenza, e non ci fa apparire la vita come una confusione di eventi casuali o capricciosi.
         Vivere non solo abbandonati alla divina provvidenza, ma esserne strumenti con la generosità, l’elemosina, il soccorso dato agli altri, guardando ai beni eterni che nessuno può sottrarci significa porre il proprio cuore nei cieli, cercarvi un eterno tesoro, e curare poco le violenze o le sopraffazioni degli uomini.

Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo