Commento
al Vangelo della XXII Domenica TO 2015 B (Mc
7,1-8.14-15.21-23)
La
pietà falsa e la vera devozione
Alcuni
scribi e farisei, venuti da Gerusalemme per spiare ciò che operava
Gesù, notarono con grande loro scandalo, che alcuni dei suoi
discepoli non si lavavano le mani prima di mangiare. L’evangelista,
scrivendo per i popoli pagani, spiega minutamente la ragione di
questo scandalo, e nota che gli scribi e farisei avevano l’uso di
lavarsi spesso, e di lavare anche gli oggetti di maggior uso, perché
credevano, così, di mantenersi puri. Quando tornavano poi dal
mercato, facevano addirittura un bagno, non sapendo discernere i
contatti legalmente immondi che avevano potuto avere nel trattare con
tanta gente.
Se fosse stato un desiderio di
semplice pulizia – benché allora non si conoscessero ancora i
microbi e le infezioni che possono portare –, non sarebbe stato un
male; ma essi attribuivano a quelle lavande il potere di purificarsi
spiritualmente, e credevano di aver fatto tutto, innanzi a Dio, con
quelle abluzioni.
Facevano man bassa della Legge
autentica di Dio, e si mostravano scrupolosissimi nelle tradizioni e
negli usi introdotti dagli uomini.
In questo stava la loro ipocrisia
quando si scandalizzarono dei discepoli di Gesù, e in questo
soprattutto il pericolo della loro anima, lontana dalla vera
salvezza; per questo Gesù Cristo li trattò severamente. In realtà
sembra un po’ penoso che Colui che era tutto bontà e misericordia
sia stato aspro con gli scribi e farisei, ma Egli non poteva
scuoterli diversamente, e la sua stessa misericordia esigeva la
severità.
Perché
Gesù risponde duramente agli scribi e farisei
Quando una porta è aperta anche
per uno spiraglio, nessuno la percuote o la sfascia, ma ognuno cerca
di far leva per finire di aprirla; quando invece è chiusa e
sbarrata, non è possibile farla cadere che con la forza.
Non c’è una porta più
ermeticamente chiusa quanto quella di un’anima tutta presa dai suoi
pensieri, e ostinata nelle concezioni della sua ragione e nelle
resistenze della sua volontà; qualunque luce è vana per chi chiude
gli occhi, e qualunque voce è inutile per chi chiude gli orecchi;
allora non rimane che tentare la demolizione dell’orgoglio, vero
sbarramento dell’anima alla verità e al bene.
L’orgoglio non si mina
lusingandolo ma smascherandolo, perché la sua forza sta proprio nel
celarsi sotto l’aspetto di pietà, di carità, di bontà e di
santità; solo facendo saltare, per così dire, con la mina, questo
baluardo terribile, si può aprire una breccia alla grazia
conquistatrice.
Il tentativo di persuasione
placida ottiene l’effetto opposto: ingagliardisce l’orgoglio e
moltiplica la resistenza.
È necessario demolire con
l’esplosione della verità, e poi insinuarsi nell’anima con la
persuasione; è necessario prima trasportare l’anima fuori dal
miraggio delle sue illusioni, e poi illuminarla.
Se il male non si smaschera, è
sempre una postema purulenta che infetta tutta la vita. Chi ha avuto
occasione di curare la santificazione di anime orgogliose ed
egocentriche, o di teste dure e tenaci nelle loro persuasioni, sa
quanto è arduo insinuarsi in loro con la dolcezza e vincerle.
L’orgoglio è brutale e
abbrutisce; capovolge e interpreta in mala parte ogni atto di bontà;
ha bisogno, in certi momenti, di trovarsi isolato di fronte alla
verità, e coperto quasi di obbrobrio innanzi alla sua luce. Solo
allora batte in ritirata per la stessa ripugnanza che sente
all’umiliazione, e può trovarsi felicemente fuori della sua
cerchia, nella pacifica zona dell’umiltà. La dolcezza è sempre
utile, ma quando non trova l’acido nel cuore; l’acidità
dell’orgoglio può anche mutarla in veleno. Questa norma vale
soprattutto per chi sta a capo, per chi tratta con anime suddite, per
le quali l’orgoglio rappresenta la ribellione, e quindi il
disordine pieno e disastroso.
Riguardo agli scribi e farisei
c’è molto di più: Gesù Cristo era Dio vero e Giudice eterno, ed
era venuto per inaugurare, con piena autorità, il suo regno d’amore;
Egli doveva perciò, prima di tutto, smascherare e giudicare quelli
che ostacolavano il compimento del disegno di Dio in mala fede. Egli
li giudicava, e poiché essi erano rei del peccato contro lo Spirito
Santo, li smascherava, affinché il loro prestigio non avesse
impedito la conversione delle anime semplici. Gesù Cristo, in altri
termini, conoscendo da Dio i cuori degli uomini, parlava con severità
a quelli che volevano perdersi ad ogni costo, affinché non avessero
trascinato altri nella perdizione.
Era consono, alla sua giustizia e
bontà, che Egli non dovesse usare verso i perversi ostinati e
ribelli una carità che sarebbe stata mancanza di carità verso i
deboli e le anime semplici. Gli scribi e farisei rifuggivano da ogni
vera discussione, irrompevano con la malignità o con la violenza, ed
erano spiritualmente folli.
Con un folle non si può usare
una bontà che lo renderebbe più furioso. Gesù Cristo, poi, non
irrompeva per ira, come sarebbe potuto apparire, ma per dolore;
vedere quegli infelici così freddamente ostinati era per il suo
Cuore un tormento inaudito, e il suo grido era grido di amore materno
ferito.
Quando non si riesce a salvare
chi precipita, si grida, si vorrebbe quasi con l’impeto del dolore
fermarlo sull’abisso, e il grido è l’indice della volontà di
salvare. Gesù Cristo, venuto a salvare tutti, elevava la voce contro
gli scribi e farisei proprio per salvarli; sapeva bene di non
riuscirvi, data la loro ostinata e libera volontà, ma il suo amore
non poteva rimanere indifferente innanzi alla loro rovina.
Non si deve pensare, però, che
Gesù abbia solo apostrofato severamente quegli ipocriti; Egli li
strinse in un ragionamento così logico che non potevano sfuggirne e,
pur parlando con giusta severità, aprì loro il cuore con mille
industrie di misericordia, a noi sconosciute. Il dolore del suo Cuore
era per loro come una corrente di vita e, se l’avessero voluto,
avrebbero riconosciuto, nelle sue parole, il suo amore.
Ma non lo vollero; svalutarono
ciò che operava il Maestro divino, e lo svalutarono alla triste luce
dei loro tenebrosi pensieri; vollero diventare essi i giudici, mentre
dovevano essere i giudicati, e disprezzarono la misericordia
diventando spietati.
Tutto
ciò che entra nell’uomo dall’esterno non può contaminarlo
Queste parole di Gesù Cristo
sono spesso citate a sproposito da quelli che rifiutano ogni legge di
astinenza o di digiuno imposta dalla Chiesa, e credono di
giustificare così la loro gola e la loro ribellione.
Eppure il Signore non volle
minimamente intaccare la Legge, ma solo dimostrare, contro gli scribi
e farisei, che la scrupolosità esterna, in certi casi introdotti
dagli uomini, non giovava a nulla, e non poteva santificare la
creatura. Gesù parlò di
ciò che è fuori dell’uomo, cioè
di ciò che non ha relazione alcuna con l’anima, il che non poteva
valere per le astinenze e i digiuni comandati dalla legittima
autorità, ordinati al bene dell’anima.
Nessuna legge di digiuno
prescrive il modo esterno di mangiare o di bere, e questo cerimoniale
di igiene o di galateo è fuori del dominio dell’anima, e non le
aggiunge o le toglie nulla, a meno che non abbia relazione con la
carità; ma non è indifferente all’anima il digiunare, perché
questo la rende disciplinata spiritualmente, ammansisce in lei le
pretese delle passioni, l’abitua al dominio di se stessa, e le dà
la gioia di notare in sé un progresso spirituale.
Se non fosse così, Gesù Cristo
non ci avrebbe dato Egli stesso l’esempio digiunando 40 giorni nel
deserto, e non avrebbe suscitato, con particolari aiuti di grazia, i
grandi santi penitenti. Ciò che entra nell’uomo indifferentemente
segue il corso delle leggi digestive, e non può influire sull’anima;
gli scribi e farisei, invece, credevano che mangiare senza lavarsi le
mani fosse causa di una vera macchia nell’anima, quasi che il cibo
potesse direttamente influire su di essa.
Macchia l’uomo ciò
che viene dal cuore, cioè
la cattiva volontà, il ribellarsi alla Legge, il disobbedire; chi
mangia con le mani non lavate non ha alcuna cattiva volontà, ma chi
tradisce la Legge dell’astinenza e del digiuno ha la pessima
volontà di fare il proprio comodo e quindi, in questo caso, è
precisamente dal cuore cattivo che viene la sua trasgressione,
macchiandogli l’anima.
Ma
chi sono quelli che si mostrano noncuranti della Legge del digiuno,
ostentando un’immunizzazione assoluta contro le macchie interne?
Sono precisamente quelli che sono macchiati di ogni delitto, o che
bevono con facilità il peccato, a somiglianza degli scribi e dei
farisei. La loro coscienza, facile al peccato, dimostra
esaurientemente con quale spirito parlano, e li accusa; chi veramente
è buono sente rimorso di mangiare un cibo proibito, e non adduce
vani pretesti per trasgredire la Legge.
Gesù Cristo si mostrò un po’
severo nel rispondere all’interrogazione fattagli dagli apostoli,
perché essi s’erano impressionati dal rimprovero dei farisei, e
avevano creduto per poco che Egli fosse un po’ troppo largo di
coscienza.
La loro domanda non era fatta per
aver luce, ma piuttosto per richiamare l’attenzione del Maestro su
un dovere del quale sembrava non tenesse il conto dovuto; fu per
questa doppiezza che Gesù, addolorato, rivolse loro la parola in
modo severo; se essi avessero avuto fede in Lui, non avrebbero dovuto
parlare in quel modo; forse Gesù, alludendo ai peccati che vengono
dal cuore, volle
richiamare la loro attenzione anche sulla doppiezza con la quale
avevano parlato e al poco amore col quale l’avevano interrogato.
Essi non volevano che Gesù transigesse sulla Legge, e il sospettare
che lo facesse era già un diffidare della sua santità.
In questo stava la vera mancanza
di discernimento degli apostoli; essi non capivano ancora che in Gesù
tutto era santo, e non intendevano che il suo amore per il Padre e
per le sue Leggi era superiore a qualunque loro concezione.
Servo di Dio Don Dolindo Ruotolo